ORDINANZA N.20
ANNO 2001
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori Giudici:
- Fernando SANTOSUOSSO, Presidente
- Massimo VARI
- Cesare RUPERTO
- Riccardo CHIEPPA
- Gustavo ZAGREBELSKY
- Valerio ONIDA
- Carlo MEZZANOTTE
- Fernanda CONTRI
- Guido NEPPI MODONA
- Piero Alberto CAPOTOSTI
- Annibale MARINI
- Franco BILE
ha pronunciato la seguente
ORDINANZA
nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 11 e 12 della legge 8 febbraio 1948, n. 47 (Disposizioni sulla stampa) e 596-bis del codice penale, promosso, nell'ambito di un procedimento civile, con ordinanza emessa il 26 ottobre 1999 dal Tribunale di Roma, iscritta al n. 109 del registro ordinanze 2000 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 13, prima serie speciale, dell'anno 2000.
Visti l'atto di costituzione dell'attore nel procedimento a quo nonchè l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nell'udienza pubblica del 12 dicembre 2000 il Giudice relatore Guido Neppi Modona;
uditi l'avvocato Elio Ripoli per la parte costituita e l'avvocato dello Stato Giuseppe Albenzio per il Presidente del Consiglio dei ministri.
Ritenuto che il Tribunale di Roma ha sollevato, in riferimento all'art 68, primo comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale degli artt. 11 e 12 della legge 8 febbraio 1948, n. 47 (Disposizioni sulla stampa) e 596-bis del codice penale, in quanto interpretati nel senso "della loro applicabilità nei confronti del direttore ed editore del giornale, anche ai casi in cui l'autore delle opinioni sia ammesso alla garanzia dell'art. 68, primo comma, Cost.";
che il rimettente premette che nella causa civile per risarcimento dei danni, intentata da persona che si ritiene diffamata da un articolo apparso sul quotidiano "il Manifesto" nei confronti dell'autore della pubblicazione, del direttore responsabile e del legale rappresentante della società editrice, il Tribunale ha dichiarato con sentenza l'inammissibilità della domanda proposta nei confronti dell'autore dell'articolo, deputato Nicola Vendola, a seguito della delibera di insindacabilità pronunciata dalla Camera dei deputati a norma dell'art. 68 della Costituzione;
che il giudice a quo rileva che, per "costante" interpretazione giurisprudenziale, nei casi di diffamazione a mezzo stampa permane la responsabilità del direttore e dell'editore del giornale "anche in presenza della causa di esonero riconosciuta al parlamentare ex art. 68 c. 1 Cost.", in quanto la "oggettività dell'illecito penale [...] non consente il venir meno della responsabilità per omissione, nell'ipotesi in cui l'autore dell'illecito non é punito per l'applicabilità della specifica esenzione soggettiva (e funzionale) prevista dall'art. 68 Cost.";
che, ad avviso del rimettente, tale indirizzo giurisprudenziale si pone in contrasto con l'art. 68 Cost., in quanto "di fatto tende ad escludere o a rendere oltremodo difficile la possibilità per il parlamentare di esprimere le proprie opinioni a mezzo della stampa";
che ne deriverebbe una evidente contraddizione, perchè da un lato viene prevista una prerogativa per le opinioni espresse in connessione con l'esercizio della funzione parlamentare, dall'altro, affermandosi "la responsabilità dei veicoli di divulgazione" di tali opinioni, si creano ostacoli alla diffusione del pensiero del parlamentare fuori dal contesto del Parlamento;
che si é costituito nel giudizio l'attore nel procedimento a quo, chiedendo che la questione sia dichiarata inammissibile o infondata;
che la parte costituita - premesso che avverso la sentenza parziale pronunciata dal giudice rimettente nei confronti del parlamentare autore dell'articolo diffamatorio é stato proposto appello, con il quale, tra l'altro, viene contestata la legittimità della deliberazione di insindacabilità votata dalla Camera e si sollecita la Corte di appello a sollevare conflitto di attribuzione - rileva, nel merito, che il sacrificio della giurisdizione derivante dalla prerogativa soggettiva dell'art. 68 Cost. non assicura, contrariamente a quanto asserisce il Tribunale, "una copertura costituzionale delle opinioni diffamatorie, bensì offre, solo a favore del parlamentare, una astensione dall'intervento sanzionatorio che non elide la illegittimità oggettiva della condotta, nè sopprime il dovere di controllo dei soggetti responsabili ai sensi delle norme denunciate";
che l'accoglimento della censura estenderebbe inopinatamente la insindacabilità a soggetti estranei all'esercizio delle funzioni che costituiscono il fondamento della prerogativa stessa, con evidente "degrado della dialettica politica", poichè la libera divulgazione di espressioni o concetti diffamatori "non può costituire materia di alcuna garanzia costituzionale";
che, sotto il profilo della rilevanza della questione, la parte conclude che, ove la Corte di appello sollevasse il conflitto di attribuzione, la deliberazione della Camera non potrebbe sfuggire all'annullamento da parte della Corte costituzionale, essendo in palese contrasto con i principi enunciati in materia dalla Corte stessa circa il nesso funzionale tra le opinioni espresse e la funzione parlamentare;
che sussiste, pertanto, un profilo di pregiudizialità, in quanto l'annullamento della deliberazione della Camera determinerebbe l'irrilevanza della questione di costituzionalità sollevata dal Tribunale;
che é intervenuto nel giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione venga dichiarata inammissibile, o, in subordine, infondata;
che, secondo l'Avvocatura, le censure prospettate dal giudice rimettente "non discendono dal diritto vivente formatosi in riferimento ad una normativa ordinaria, che si porrebbe, perciò, in contrasto con la norma costituzionale", ma si fondano "sulla riconduzione della guarentigia costituzionale al novero delle immunità ed alla riconduzione di queste ultime (secondo un orientamento prevalente, seppur non unitario) alle cause personali di esclusione della pena (perciò facenti eccezione all'art. 3 c.p.)": di conseguenza, la questione sarebbe inammissibile perchè tendente a un "intervento sul parametro valutativo piuttosto che sulla disposizione secondaria";
che in sede di discussione il difensore della parte privata costituita e l'avvocato dello Stato hanno ulteriormente sviluppato le ragioni a sostegno della inammissibilità e dell'infondatezza della questione di legittimità costituzionale.
Considerato che il giudice a quo rileva che, per "costante" interpretazione giurisprudenziale, in caso di diffamazione a mezzo stampa permane la responsabilità del direttore del giornale e dell'editore anche quando nei confronti del parlamentare autore della pubblicazione sia intervenuta la deliberazione di insindacabilità della Camera di appartenenza a norma dell'art. 68, primo comma, Cost., e lamenta che tale indirizzo giurisprudenziale, basato sul presupposto che l'insindacabilità sia una causa soggettiva di esenzione dalla responsabilità, si pone in contrasto con l'art. 68 Cost., in quanto di fatto inciderebbe sulla possibilità del parlamentare di esprimere le sue opinioni a mezzo della stampa;
che il rimettente vorrebbe quindi estendere l'esonero dalla responsabilità al direttore del giornale e all'editore, ma non trae le conseguenze applicative dell'interpretazione che egli stesso considera conforme al parametro costituzionale evocato, a causa dell'esistenza della "costante" giurisprudenza che segue l'interpretazione da lui non condivisa;
che, contrariamente a quanto il rimettente mostra di ritenere, nulla osta a che il giudice a quo adotti egli stesso quella interpretazione che, a suo avviso, gli consentirebbe di superare i prospettati dubbi di costituzionalità;
che, in definitiva, il rimettente ha sottoposto a questa Corte esclusivamente una questione di interpretazione dell'art. 68, primo comma, Cost., e non già una questione concernente il contrasto tra il significato da attribuire alle norme ordinarie da applicare nel giudizio a quo e il parametro costituzionale evocato;
che la questione deve pertanto essere dichiarata manifestamente inammissibile.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale degli artt. 11 e 12 della legge 8 febbraio 1948, n. 47 (Disposizioni sulla stampa) e 596-bis del codice penale, sollevata, in riferimento all'art. 68, primo comma, della Costituzione, dal Tribunale di Roma, con l'ordinanza in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 5 gennaio 2001.
Fernando SANTOSUOSSO, Presidente
Guido NEPPI MODONA, Redattore
Depositata in cancelleria il 23 gennaio 2001.