Sentenza n. 510/2000

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SENTENZA N.510

ANNO 2000

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori Giudici:

- Cesare MIRABELLI, Presidente

- Francesco GUIZZI

- Fernando SANTOSUOSSO

- Massimo VARI

- Cesare RUPERTO

- Riccardo CHIEPPA

- Gustavo ZAGREBELSKY

- Valerio ONIDA

- Carlo MEZZANOTTE

- Fernanda CONTRI

- Guido NEPPI MODONA

- Piero Alberto CAPOTOSTI

- Annibale MARINI

- Franco BILE

- Giovanni Maria FLICK

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 10, comma 4, della legge 31 maggio 1965, n. 575 (Disposizioni contro la mafia), nel testo sostituito dall’art. 3 della legge 19 marzo 1990, n. 55, promosso con ordinanza emessa il 23 settembre 1999 dal Tribunale di Avellino nel procedimento concernente Pagnozzi Stella, iscritta al n. 48 del registro ordinanze 2000 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 9, prima serie speciale, dell’anno 2000.

Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio dell’11 ottobre 2000 il Giudice relatore Gustavo Zagrebelsky.

Ritenuto in fatto

1.1. - Con ordinanza del 23 settembre 1999 il Tribunale di Avellino ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 4, 24, 27 e 41 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 10, comma 4, della legge 31 maggio 1965, n. 575 (Disposizioni contro la mafia), "nella parte in cui la suindicata norma, estendendo ai conviventi i divieti e le decadenze previsti nei commi 1 e 2 dello stesso articolo, non consente alcuna prova o accertamento contrario".

1.2. - Nel giudizio principale é stata richiesta al Tribunale rimettente, da parte del Questore competente, l’applicazione del divieto di iscrizione nel registro degli esercenti il commercio, a norma dell’art. 10, comma 4, citato, nei confronti della moglie convivente di un soggetto già sottoposto, con provvedimento definitivo, alla misura di prevenzione della sorveglianza speciale di pubblica sicurezza con obbligo di soggiorno per la durata di due anni, a norma della legge n. 575 del 1965.

1.3. - Ad avviso del Tribunale, la disposizione della cui applicazione si tratta presenterebbe profili di incostituzionalità, e ciò nonostante che la Corte costituzionale, in una sua precedente decisione (ordinanza n. 675 del 1988), abbia dichiarato manifestamente infondata una questione allora sollevata circa l’estensione degli effetti interdittivi a soggetti terzi, ritenendo ragionevole la presunzione di intestazione fittizia dei beni sottesa alla norma impugnata.

Il dubbio di costituzionalità, del resto manifestato anche in dottrina e in giurisprudenza, concerne comunque – prosegue il giudice a quo – aspetti diversi da quelli già esaminati dalla Corte nella richiamata decisione del 1988, e precisamente riguarda la prescrizione che impone al giudice di applicare al convivente di chi sia stato sottoposto a una misura di prevenzione secondo la legge antimafia – dunque a una persona che come tale non ha subìto alcun procedimento – il divieto di iscrizione nei registri delle camere di commercio e, con esso, il divieto di ottenere licenze o autorizzazioni all’esercizio del commercio.

Ciò che appare irragionevole al Tribunale, anche avuto riguardo alle conclusioni della richiamata ordinanza n. 675 del 1988, é il carattere assoluto della presunzione di intestazione fittizia dei beni per eludere la disciplina antimafia, presunzione che é posta appunto nell’ipotesi dell’estensione degli effetti della misura: l’impossibilità di fornire una prova contraria per il convivente contrasta con la possibilità di svolgere accertamenti patrimoniali per verificare se la persona pericolosa disponga di beni e capitali suscettibili di essere reinvestiti nell’attività commerciale che fa capo alla persona convivente o se invece quest’ultima disponga autonomamente di mezzi finanziari allo scopo.

Del resto, aggiunge il rimettente, non può sostenersi che la censurata presunzione - che l’attività commerciale del terzo costituisca attività di "copertura" di quella illegale del prevenuto – sia necessariamente corrispondente alla realtà dei fatti, poichè può ben darsi il caso che l’attività commerciale del parente/convivente venga iniziata e svolta in modo autosufficiente; ne é esempio, prosegue il Tribunale, proprio il caso di specie, giacchè il prevenuto risulta da tempo e tuttora detenuto in esecuzione di condanne penali, ciò che legittima il dubbio circa la sua possibilità di finanziare il coniuge-convivente ai fini dell’esercizio del commercio.

La presunzione assoluta oggetto della questione sarebbe, secondo l’ordinanza di rinvio, in contrasto con il canone generale di ragionevolezza della legge, e inoltre con a) l’art. 3 [secondo comma] della Costituzione, sotto il profilo della rimozione degli ostacoli di ordine sociale al lavoro, costituendo anche l’unione matrimoniale o la convivenza una condizione di vita sociale, "non sempre scelta in piena libertà", b) l’art. 4 della Costituzione, circa l’effettività del diritto al lavoro, c) l’art. 27 della Costituzione, per l’estensione a una persona estranea al procedimento di conseguenze lato sensu penalistiche, poichè, secondo il Tribunale, la misura di prevenzione postulerebbe pur sempre un accertamento di responsabilità penale, solo variando il grado probatorio necessario, d) l’art. 24 della Costituzione, perchè vengono applicate conseguenze sfavorevoli a un soggetto che nel procedimento giurisdizionale di prevenzione non ha avuto la possibilità di interloquire e difendersi, ed e) l’art. 41 della Costituzione, perchè ne deriva un ostacolo alla libera iniziativa economica dell’individuo.

2. - E’ intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato.

L’Avvocatura richiama il precedente maggiormente pertinente della Corte costituzionale, costituito dall’ordinanza n. 675 del 1988, della quale riprende alcuni passaggi argomentativi, in particolare per l’affermazione che l’estensione degli effetti accessori della misura di prevenzione al coniuge, ai figli e ai conviventi del prevenuto, cioé a soggetti non personalmente colpiti dalla misura, poggia sull’esigenza di "impedire che i divieti e le decadenze possano essere elusi mediante il ricorso ad intestazioni fittizie a persone di comodo" e dunque che non é irragionevole, "in relazione alla situazione ad alto rischio di pericolosità nella quale la norma é destinata ad operare", la previsione che i conviventi siano "assoggettati alle medesime preclusioni della persona sottoposta alla misura, in base alla presunzione che essi possano intervenire quali prestanome della stessa, o che quest’ultima possa comunque aver parte alle attività economiche alle quali si riferiscono i provvedimenti oggetto di divieti o decadenze".

Le argomentazioni del Tribunale di Avellino non sono, secondo l’Avvocatura, idonee a condurre a diversa conclusione rispetto alla citata pronuncia. Anche a trascurare il dato formale secondo cui, una volta posta e ritenuta come valida la presunzione di interposizione, le conseguenze sfavorevoli solo formalmente possono dirsi imputabili a soggetti "terzi" giacchè il soggetto effettivamente colpito rimane pur sempre il prevenuto, rileva l’Avvocatura che comunque, nell’effettuare la valutazione circa la ragionevolezza della previsione, la Corte ha già chiarito che il criterio di giudizio si fonda su un bilanciamento di interessi; alla stregua di questo stesso criterio deve pertanto essere considerata la prospettazione dei nuovi e ulteriori dubbi d’incostituzionalità della norma, che, nel contesto di alta pericolosità nel quale essa é destinata a operare, pur essendo di particolare rigore, si presenta tuttavia come l’unico efficace strumento per impedire aggiramenti o elusioni della disciplina antimafia, attraverso intestazioni di comodo; le censure del rimettente non sarebbero dunque idonee a condurre a diverso orientamento. La richiesta dell’Avvocatura, pertanto, é nel senso dell’infondatezza della questione.

Considerato in diritto

1. – L’art. 10 della legge 31 maggio 1965, n. 575 (Disposizioni contro la mafia), nei commi 1 e 2 (nella formulazione vigente a seguito della legge 19 marzo 1990, n. 55) prevede, a carico delle persone alle quali sia stata applicata con provvedimento definitivo una misura di prevenzione, diversi divieti e decadenze relativi ad atti e provvedimenti autorizzativi, concessori, abilitativi di attività d’impresa e relativi a erogazioni di danaro da parte dello Stato, di enti pubblici e delle Comunità europee. Il comma 4 del medesimo articolo, della cui legittimità costituzionale il Tribunale di Avellino dubita, stabilisce, tra l’altro, che tali divieti e decadenze operino anche nei confronti di chiunque conviva con il sottoposto alla misura di prevenzione. Il Tribunale ritiene che tale previsione - determinata dall’intento di evitare che la persona convivente, usata come schermo, possa servire per eludere i divieti e le decadenze stabiliti - violi gli artt. 3, 4, 24, 27 e 41 della Costituzione. La doglianza riguarda quella che il giudice rimettente ritiene essere una presunzione assoluta che non consentirebbe all’interessato di provare il carattere non fittizio dell’intestazione dei beni che gli appartengono.

2. – La questione non é fondata.

3. – Nella valutazione della legittimità costituzionale della disposizione denunciata, si deve tenere conto nel suo complesso della ponderazione fatta dal legislatore degli interessi implicati nella disciplina in esame, nella quale entra, come ragione determinante, l’esigenza di contrastare l’attività economica di soggetti colpiti da misure di prevenzione antimafia tramite, in particolare, il reimpiego del danaro proveniente da attività criminosa. Gli invocati artt. 4, 24, 27 e 41 della Costituzione prevedono diritti che, secondo l’ordinanza del giudice rimettente, sarebbero irragionevolmente sacrificati dalla presunzione assoluta che sottostà alla disposizione impugnata. Di qui, il riferimento all’art. 3 della Costituzione che impone al legislatore il rispetto del canone della ragionevolezza o non-arbitrarietà nella valutazione comparativa e complessiva degli interessi che la norma mette in gioco.

In questa valutazione ponderata, occorre innanzitutto considerare la determinazione dell’efficacia quinquennale dei divieti, stabilita nell’ultima parte del medesimo comma 4 dell’art. 10 (quale sostituito con la legge n. 55 del 1990); la possibilità di richiedere la riabilitazione – alla quale consegue la cessazione dei divieti previsti dall’art. 10 della legge n. 575 del 1965 - dopo tre o cinque anni, a seconda del tipo di criminalità al quale la misura di prevenzione si riferisce (riabilitazione introdotta dall’art. 15 della legge 3 agosto 1988, n. 327, e, nell’area della criminalità organizzata, dall’art. 14 della legge n. 55 del 1990), nonchè la deroga (introdotta anch’essa dall’art. 3 della legge n. 55 del 1990) contenuta nello stesso art. 10, al comma 5, che prevede la possibilità che il giudice escluda la decadenza e il divieto (eccettuate le autorizzazioni e le licenze di polizia relative alle armi, alle munizioni e agli esplosivi) nel caso in cui, per effetto di tali provvedimenti, vengano a mancare i mezzi di sostentamento all’interessato e alla famiglia.

Ma soprattutto, assume rilievo l’art. 10-quater della legge n. 575 del 1965 (nella versione risultante dalla legge n. 55 del 1990). Esso stabilisce che il tribunale, prima di adottare un provvedimento previsto dall’art. 10, comma 4, con decreto motivato chiama a intervenire nel procedimento le parti interessate (e quindi anche il convivente nei cui confronti hanno da essere disposti divieti e decadenze), e che esse possono, anche con l’assistenza di un difensore, svolgere in camera di consiglio le loro deduzioni e chiedere l’acquisizione di ogni elemento utile alla decisione; ciò che di per sè vale a escludere il prospettato contrasto con l’art. 24 della Costituzione. Aggiunge la medesima disposizione che, ai fini dei relativi accertamenti – cioé degli accertamenti che si rendono necessari per l’estensione delle interdizioni e delle decadenze nei confronti dei conviventi -, si applicano le disposizioni degli artt. 2-bis e 2-ter della legge. In particolare, l’art. 2-bis riguarda l’effettuazione di indagini sul tenore di vita, sulle disponibilità finanziarie, sul patrimonio e in genere sulle condizioni economiche dei soggetti, indicati nell’art. 1 (indiziati di appartenere ad associazioni di tipo mafioso, alla camorra o ad altre associazioni aventi caratteristiche analoghe a quelle mafiose), nei cui confronti possa essere proposta la misura della sorveglianza speciale (comma 1). Analoghe indagini, secondo il comma 3 dello stesso art. 2-bis, sono condotte anche nei confronti di altri soggetti che possono avere a che fare con le attività economiche dei primi, tra i quali i conviventi (nell’ultimo quinquennio).

Dalle disposizioni da ultimo citate risulta che il giudice deve tenere conto di una serie di elementi utili a ricostruire la posizione economica non solo della persona sospettata ma anche di quella convivente, potendosi ricavare così che le misure di cui all’impugnato comma 4 dell’art. 10 presuppongono l’esistenza di una "convivenza" avente caratteri congruenti alla ratio dei provvedimenti che su di essa si basano: una convivenza segnata in concreto da coinvolgimento negli interessi economici del soggetto sottoposto alla misura di prevenzione; coinvolgimento di cui le "parti interessate", nel procedimento previsto dalla legge, sono abilitate a dimostrare l’inesistenza, senza di che le norme ora citate risulterebbero prive di senso.

Il che é quanto dire che, se tra la convivenza assunta dalla legge come condizione delle misure previste dal comma 4 dell’art. 10 e queste ultime v’é automatismo, non qualunque tipo di convivenza può essere a base di tale automatismo e che il soggetto interessato é abilitato a difendersi fornendo la prova dell’inesistenza in essa di quei caratteri che, soli, giustificano le misure stesse.

Per le ragioni anzidette, la norma da cui muove il giudice rimettente si rivela meno rigida di quanto egli assume e ciò consente di superare i dubbi di legittimità costituzionale prospettati nel formulare la questione in esame.

Per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 10, comma 4, della legge 31 maggio 1965, n. 575 (Disposizioni contro la mafia), nel testo sostituito dall’art. 3 della legge 19 marzo 1990, n. 55, sollevata, in riferimento agli artt. 3, 4, 24, 27 e 41 della Costituzione, dal Tribunale di Avellino con l’ordinanza indicata in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 13 novembre 2000.

Cesare MIRABELLI, Presidente

Gustavo ZAGREBELSKY, Redattore

Depositata in cancelleria il 20 novembre 2000.