ORDINANZA N. 410
ANNO 1999
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori Giudici:
- Dott. Renato GRANATA, Presidente
- Prof. Giuliano VASSALLI
- Prof. Francesco GUIZZI
- Prof. Cesare MIRABELLI
- Prof. Fernando SANTOSUOSSO
- Avv. Massimo VARI
- Dott. Cesare RUPERTO
- Dott. Riccardo CHIEPPA
- Prof. Gustavo ZAGREBELSKY
- Prof. Valerio ONIDA
- Prof. Carlo MEZZANOTTE
- Prof. Guido NEPPI MODONA
- Prof. Piero Alberto CAPOTOSTI
- Prof. Annibale MARINI
ha pronunciato la seguente
ORDINANZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 13-ter, comma 3, del decreto-legge 15 gennaio 1991, n. 8 (Nuove misure in materia di sequestri di persona a scopo di estorsione e per la protezione di coloro che collaborano con la giustizia), convertito, con modificazioni, nella legge 15 marzo 1991, n. 82, aggiunto dal decreto-legge 8 giugno 1992, n. 306 (Modifiche urgenti al nuovo codice di procedura penale e provvedimenti di contrasto alla criminalità mafiosa), convertito, con modificazioni, nella legge 7 agosto 1992, n. 356, giudizio promosso con ordinanza emessa il 2 dicembre 1998 dal Tribunale di sorveglianza di Roma nel procedimento di sorveglianza relativo a Caruso Luigi, iscritta al n. 103 del registro ordinanze 1999 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 10, prima serie speciale, dell’anno 1999.
Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio del 29 settembre 1999 il Giudice relatore Francesco Guizzi.
Ritenuto che nel corso di un procedimento per la prosecuzione del programma di protezione di un collaboratore di giustizia, il Tribunale di sorveglianza di Roma ha sollevato, in riferimento agli artt. 102, primo e secondo comma, 3, 25 e 27, terzo comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 13-ter, comma 3, del decreto-legge 15 gennaio 1991, n. 8 (Nuove misure in materia di sequestri di persona a scopo di estorsione e per la protezione di coloro che collaborano con la giustizia), convertito, con modificazioni, nella legge 15 marzo 1991, n. 82, aggiunto dal decreto-legge 8 giugno 1992, n. 306 (Modifiche urgenti al nuovo codice di procedura penale e provvedimenti di contrasto alla criminalità mafiosa), convertito, con modificazioni, nella legge 7 agosto 1992, n. 356;
che, per i provvedimenti di cui ai commi 1 e 2 della disposizione in esame, secondo il rimettente, «la competenza appartiene al tribunale e al magistrato di sorveglianza del luogo in cui la persona ammessa allo speciale programma di protezione ha il domicilio»; e, ai sensi dell’art. 12, comma 3, «all’atto della sottoscrizione del programma l’interessato elegge il proprio domicilio nel luogo in cui ha sede la commissione di cui all’art. 10»;
che la Corte di cassazione - ricorda il giudice a quo - ha interpretato i suddetti articoli nel senso che le persone sottoposte al programma di protezione abbiano, ai fini processuali, il loro domicilio a Roma, presso la Commissione centrale;
che tale interpretazione non troverebbe conforto nella lettera della legge e nei lavori parlamentari: la disposizione censurata riguarderebbe, infatti, il domicilio effettivo senza contenere alcun riferimento alla sede della Commissione, richiamata al solo scopo di indicare il recapito per le comunicazioni e le notifiche;
che la legge non deroga al criterio di competenza territoriale, di cui all’art. 677 del codice di procedura penale, poiché il legislatore si è limitato a rendere più facile il reperimento dei collaboratori di giustizia, assicurando nel contempo la riservatezza delle informazioni concentrate presso l’autorità amministrativa centrale;
che, di conseguenza, la certificazione del domicilio, proveniente dal predetto organismo, si rivelerebbe strumento idoneo a garantire l’efficienza delle attività processuali;
che l’interpretazione della Corte di cassazione si configura ormai come diritto vivente, palesemente però in contrasto, ad avviso del rimettente, con i parametri menzionati, giacché introduce di fatto una norma eccezionale e anomala;
che essa recherebbe, innanzitutto, lesione all’art. 102, primo e secondo comma, della Costituzione, perché introdurrebbe un giudice speciale, con competenza esclusiva su tutto il territorio nazionale per i procedimenti riguardanti i beneficiari del programma di protezione;
che il carattere della straordinarietà risulterebbe dalla deroga, sostanziale, alle “vigenti disposizioni” dell’ordinamento penitenziario, in considerazione del particolare status di tali soggetti e dei poteri attribuiti alla Commissione, la quale - attraverso i pareri obbligatori resi - inciderebbe inevitabilmente sui procedimenti giudiziari;
che violerebbe il principio di emenda sottrarre al magistrato - che ha la giurisdizione e la sorveglianza sull’istituto carcerario - il processo rieducativo del detenuto;
che sarebbe, altresì, leso il principio del giudice naturale precostituito per legge, poiché la Commissione centrale (che attualmente ha sede a Roma) potrebbe essere trasferita altrove; ma, in questo caso, tenendo ferma la linea interpretativa della Corte di cassazione, il giudice di Roma sarebbe privato della competenza in ordine a tali procedimenti, dato che la legge non individua il luogo ove ha sede la Commissione;
che, in via gradata, il Tribunale di sorveglianza di Roma ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 13-ter, comma 3, «in relazione alla competenza territoriale del tribunale di sorveglianza (di Roma) nei confronti di soggetti collaboratori di giustizia, titolari di speciale programma di protezione, ai sensi dell’art. 10, comma 1, della legge n. 82 del 1991», che siano detenuti al di fuori del distretto della Corte di appello di Roma;
che è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura dello Stato, concludendo per l’infondatezza;
che le decisioni della Corte di cassazione richiamate dal giudice a quo - ad avviso dell’Avvocatura - non possono ancora considerarsi diritto vivente, onde la possibilità di una diversa interpretazione secundum constitutionem;
che comunque non sarebbe violato l’art. 102 della Costituzione, dal momento che la concentrazione della competenza non implicherebbe la creazione di un giudice straordinario, né speciale;
che non vi sarebbe lesione del principio di ragionevolezza, poiché si giustificherebbe siffatta competenza sia con la necessità di mantenere il riserbo sul luogo in cui il collaboratore vive, sia con l’esigenza di collegare i benefici penitenziari con l’operato della Commissione centrale;
che non sarebbe vanificato il principio di emenda, posto che il giudice diverso da quello del luogo di detenzione avrebbe gli strumenti informativi per apprezzare il percorso di risocializzazione;
che, infine, sarebbe da escludere il contrasto con il principio del giudice naturale precostituito per legge, giacché i criteri previsti dalla normativa in esame hanno i requisiti di generalità e astrattezza.
Considerato che viene all’esame della Corte la questione di legittimità costituzionale del citato art. 13-ter, comma 3, interpretato dalla Corte di cassazione nel senso che la competenza territoriale spetta al Tribunale di sorveglianza della Capitale per effetto dell’elezione di domicilio presso la Commissione centrale;
che tale norma contrasterebbe con gli artt. 102, primo e secondo comma, 3, sotto il profilo della ragionevolezza, 27, terzo comma, e 25 della Costituzione;
che, con la sentenza n. 227 del 1999, questa Corte ha già dichiarato la non fondatezza della questione, perché la previsione della competenza esclusiva attribuita al Tribunale di sorveglianza di Roma risponde alla necessità di garantire la maggiore protezione possibile ai collaboratori di giustizia, impedendo che si possa risalire al luogo ove costoro sono ristretti o comunque sottoposti a regime protettivo;
che non è leso il principio di emenda, perché gli organi giurisdizionali preposti alla sorveglianza possono avvalersi degli istituti penitenziari per l’osservazione del percorso emendativo dei collaboratori detenuti in strutture carcerarie non comprese nella circoscrizione dell’ufficio romano;
che ogni doglianza circa gli strumenti esistenti riguarda il momento organizzatorio, non quello processuale che concerne la normativa in materia di competenza;
che la previsione d’una speciale competenza territoriale, secondo la giurisprudenza di questa Corte, non viola il divieto d’istituzione di giudici straordinari o speciali;
che nell’ordinanza di rimessione la precostituzione viene riferita non al giudice, bensì alla Commissione che non è organo giurisdizionale, per la quale non vige, quindi, il principio del giudice naturale;
che mutamenti del regime della competenza dovuti a fatti modificativi, in ragione dell’applicazione delle sue stesse regole, sono possibili senza che ciò comporti una lesione del suddetto principio;
che, pertanto, non essendo prospettati nuovi motivi, la questione va dichiarata manifestamente non fondata.
Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, secondo comma, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell’art. 13-ter, comma 3, del decreto-legge 15 gennaio 1991, n. 8 (Nuove misure in materia di sequestri di persona a scopo di estorsione e per la protezione di coloro che collaborano con la giustizia), convertito, con modificazioni, nella legge 15 marzo 1991, n. 82, aggiunto dal decreto-legge 8 giugno 1992, n. 306 (Modifiche urgenti al nuovo codice di procedura penale e provvedimenti di contrasto alla criminalità mafiosa), convertito, con modificazioni, nella legge 7 agosto 1992, n. 356, sollevata, in riferimento agli art. 102, primo e secondo comma, 3, 25 e 27, terzo comma, della Costituzione, dal Tribunale di sorveglianza di Roma, con l’ordinanza indicata in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 25 ottobre 1999.
Renato GRANATA, Presidente
Francesco GUIZZI, Redattore
Depositata in cancelleria il 29 ottobre 1999.