Ordinanza n. 215/99

 CONSULTA ONLINE 

ORDINANZA N. 215

ANNO 1999

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori Giudici:

- Dott.   Renato GRANATA, Presidente

- Prof.    Giuliano VASSALLI

- Prof.    Francesco GUIZZI               

- Prof.    Cesare MIRABELLI            

- Avv.    Massimo VARI                     

- Dott.   Cesare RUPERTO                

- Dott.   Riccardo CHIEPPA             

- Prof.    Gustavo ZAGREBELSKY              

- Prof.    Valerio ONIDA                    

- Prof.    Carlo MEZZANOTTE                     

- Avv.    Fernanda CONTRI               

- Prof.    Guido NEPPI MODONA                

- Prof.    Piero Alberto CAPOTOSTI             

- Prof.    Annibale MARINI               

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 657, commi 1 e 3, del codice di procedura penale, e 57 della legge 24 novembre 1981, n. 689 (Modifiche al sistema penale), promosso con ordinanza emessa il 9 marzo 1998 dal Pretore di Latina, iscritta al n. 538 del registro ordinanze 1998 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 34, prima serie speciale, dell’anno 1998.

Udito nella camera di consiglio del 12 maggio 1999 il Giudice relatore Giuliano Vassalli.

Ritenuto che il Pretore di Latina, adìto a seguito di incidente di esecuzione nel quale il ricorrente si doleva, fra l’altro, della omessa detrazione dal computo della sanzione sostitutiva da espiare (mesi sei di libertà controllata) del periodo equivalente trascorso in esecuzione della misura cautelare di cui all’art. 283, comma 4, cod. proc. pen., ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 27 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale degli artt. 657, commi 1 e 3, cod. proc. pen., e 57 della legge 24 novembre 1981, n. 689 (Modifiche al sistema penale), nella parte in cui non prevedono che il condannato possa chiedere al pubblico ministero che per la determinazione della sanzione sostitutiva da eseguire, quando questa sia la libertà controllata, siano computati i periodi espiati in applicazione dell’obbligo di dimora ai sensi dell’art. 283, comma 4, cod. proc. pen.;

che a parere del giudice a quo la normativa impugnata é censurabile sul piano della ragionevolezza in quanto non vi é sostanziale differenza tra la misura degli arresti domiciliari con autorizzazione ad allontanarsi dal luogo di applicazione della misura, rispetto all’obbligo di dimora con divieto di allontanamento dal domicilio, sicchè scriminante si appalesa la possibilità di detrarre dalla pena da eseguire il primo periodo e non il secondo;

che pur essendo evidente – afferma il giudice a quo – la diversità dei presupposti applicativi delle misure cautelari poste a raffronto, e malgrado le differenti conseguenze che scaturiscono dalle rispettive violazioni (risponde del delitto di evasione soltanto chi si sottrae alla misura degli arresti domiciliari), le misure stesse finiscono per presentare analogo contenuto afflittivo quando l’obbligo previsto dall’art. 283, comma 4, cod. proc. pen. coincida, come limiti orari, con il dovere di rimanere presso il domicilio di arresto fuori degli orari di cui all’art. 284, comma 3, dello stesso codice;

che violato sarebbe anche l’art. 27 della Costituzione, in quanto le norme impugnate "nei fatti consentono l’assoggettamento del condannato alla stessa sanzione afflittiva per due volte, contro il principio del ne bis in idem punitivo, che altro non é che un corollario del più generale principio di umanità e rieducatività delle pene le quali per rispondervi non devono essere applicate in misura sproporzionata".

Considerato che il giudice a quo fa derivare le proprie censure dalla erronea premessa di ritenere fra loro comparabili istituti cautelari che, pur se connotati da profonde differenze, nelle rispettive e reciproche modalità esecutive – ove inversamente applicate nella massima estensione per l’uno e nella massima restrizione per l’altro – possono presentare, in concreto, taluni aspetti di apparente analogia, evocandosi a tal proposito il caso della misura degli arresti domiciliari, nell’ipotesi in cui la persona che vi é sottoposta sia stata autorizzata, a norma dell’art. 284, comma 3, cod. proc. pen., ad allontanarsi dal luogo degli arresti, e quello dell’obbligo di dimora qualora sia stata imposta, a norma dell’art. 283, comma 4, cod. proc. pen., la prescrizione di non allontanarsi dalla abitazione in alcune ore del giorno;

che nel profilare "il caso" ora rammentato il rimettente non considera che la misura degli arresti domiciliari é configurata espressamente dalla legge quale misura di tipo custodiale, sicchè essa é destinata per sua stessa natura a comprimere direttamente la libertà personale, con tutti gli effetti che come é ovvio scaturiscono, sul piano sostanziale e processuale, dalla sottoposizione al relativo regime; un regime, questo, che evidentemente prescinde non soltanto dalla varietà dei luoghi in cui la misura può trovare applicazione, ma anche dalla varietà dei limiti, divieti ed autorizzazioni che possono, nelle diverse ipotesi di specie, caratterizzare le relative modalità esecutive, pur senza incrinare l’essenza della misura stessa;

che alla stregua di tali rilievi, deriva, dunque, che, mentre la persona sottoposta alla misura degli arresti domiciliari, ancorchè autorizzata ad assentarsi dal luogo degli arresti "nel corso della giornata" (e, quindi, non per più giorni consecutivi) per cause specifiche e per recarsi in luoghi determinati, non cessa per ciò solo di essere in stato di custodia e, pertanto, in una condizione di "non libertà", la persona sottoposta alla misura dell’obbligo di dimora é invece "libera" nell’ambito del territorio individuato dalla ordinanza applicativa, anche nell’ipotesi in cui le venga prescritto l’obbligo di non allontanarsi dall’abitazione in alcune ore del giorno;

che a tal proposito, e come lo stesso giudice a quo rammenta, accanto alle evidenti differenze strutturali che caratterizzano le misure poste a raffronto, l’eterogeneità delle stesse é ulteriormente confermata anche dal ben diverso regime che scaturisce dalla violazione delle relative prescrizioni, giacchè può essere chiamata a rispondere del delitto di evasione, previsto dall’art. 385 cod. pen., soltanto la persona sottoposta alla misura degli arresti domiciliari, in ciò chiaramente sottolineandosi, anche sotto il profilo sostanziale, l’appartenenza dell’istituto al genus delle misure custodiali;

che pertanto, risultando palesemente erronea la pretesa assimilazione delle misure prospettata dal giudice a quo, non può nella specie ravvisarsi alcuna violazione del principio di uguaglianza e di ragionevolezza, così come destituito di fondamento si rivela il dedotto contrasto con "il principio di umanità della pena" di cui all’art. 27 della Costituzione, in quanto il considerare non computabile per la determinazione della sanzione sostitutiva da applicare il periodo di sottoposizione all’obbligo di dimora nell’ipotesi prevista dall’art. 283, comma 4, cod. proc. pen., non equivale affatto – come al contrario opina il giudice rimettente – alla applicazione di una duplice sanzione, non potendosi in alcun modo riconnettere alle misure cautelari caratteristiche e funzioni di tipo sanzionatorio;

che la questione proposta deve quindi essere dichiarata manifestamente infondata.

Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, secondo comma, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale degli artt. 657, commi 1 e 3, del codice di procedura penale, e 57 della legge 24 novembre 1981, n. 689 (Modifiche al sistema penale), sollevata, in riferimento agli artt. 3 e 27 della Costituzione, dal Pretore di Latina con l’ordinanza in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 26 maggio 1999.

Renato GRANATA, Presidente

Giuliano VASSALLI, Redattore

Depositata in cancelleria il 3 giugno 1999.