Sentenza n. 156/99

 CONSULTA ONLINE 

SENTENZA N.156

ANNO 1999

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori Giudici

- Dott. Renato GRANATA, Presidente

- Prof. Giuliano VASSALLI

- Prof. Francesco GUIZZI

- Prof. Cesare MIRABELLI

- Avv. Massimo VARI

- Dott. Cesare RUPERTO

- Dott. Riccardo CHIEPPA

- Prof. Gustavo ZAGREBELSKY

- Prof. Valerio ONIDA

- Prof. Carlo MEZZANOTTE

- Avv. Fernanda CONTRI

- Prof. Guido NEPPI MODONA

- Prof. Piero Alberto CAPOTOSTI

- Prof. Annibale MARINI

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 2043, 2051 e 1227, primo comma, del codice civile, promosso con ordinanza emessa l'8 novembre 1997 dal Giudice di pace di Genova nel procedimento civile vertente tra Lualdi Nicola ed altro e il Comune di Genova, iscritta al n. 394 del registro ordinanze 1998 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 23, prima serie speciale, dell'anno 1998.

  Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

  udito nella camera di consiglio del 24 febbraio 1999 il Giudice relatore Cesare Ruperto.

Ritenuto in fatto

  1. - Nel corso di un giudizio civile promosso da un motociclista nei confronti del Comune di Genova per il risarcimento del danno derivato dalla caduta dal motoveicolo causata dalla presenza, non segnalata, ma "in astratto percettibile in anticipo", di terriccio e pietrisco sulla strada comunale, il Giudice di pace di Genova, con ordinanza emessa l'8 novembre 1997, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 24, 97 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale:

a) dell'articolo 2043 cod. civ., in quanto prevede che l'inerzia colposa della pubblica amministrazione, atta a creare o a non rimuovere situazioni di pericolo, sia causa di responsabilità della stessa, solo in presenza di una situazione di pericolo insidioso; b) dell'art. 2051 cod. civ., in quanto non applicabile anche alla pubblica amministrazione per i beni demaniali soggetti ad uso ordinario, generale e diretto da parte dei cittadini; c) dell'art. 1227, primo comma, cod. civ., in quanto esclude, in presenza di una insidia, un accertamento del concorso di colpa del danneggiato e del responsabile.

  Il giudice rimettente, in tema di danni conseguiti alla difettosa manutenzione delle strade, lamenta la disparità di trattamento tra i privati proprietari di strade, assoggettati alla disciplina di cui all'art. 2051 cod. civ., e la pubblica amministrazione, esonerata - secondo un orientamento della giurisprudenza di legittimità definito come consolidato - da tale tipo di responsabilità per l'impossibilità di esercitare un adeguato controllo custodiale su beni demaniali di notevole estensione territoriale e soggetti ad uso generale e diretto da parte dei cittadini.

  Il giudice a quo si duole anche della consolidata interpretazione della giurisprudenza di legittimità, secondo cui la responsabilità conseguirebbe, ai sensi dell'art. 2043 cod. civ., non già ad un concreto comportamento della pubblica amministrazione, ma alla derivazione del danno da un'insidia stradale (caratterizzata dalla non visibilità e dall'imprevedibilità od inevitabilità del pericolo), restando escluso il concorso colposo del danneggiato (in caso di sussistenza dell'insidia) o della pubblica amministrazione (in caso di insussistenza), ai sensi dell'art. 1227, primo comma, cod. civ.

  Secondo il giudice a quo, siffatto uso della nozione di insidia finisce per escludere ingiustificatamente sia la responsabilità della pubblica amministrazione per fatti colposi diversi, sia la rilevanza di un concorso colposo ex art. 1227, primo comma, cod. civ., favorendo, in contrasto con i principi di eguaglianza di cui all'art. 3 della Costituzione e di buon andamento di cui all'art. 97 della Costituzione, la colpevole inerzia dell'ente pubblico nell'assolvimento dei doveri di diligente vigilanza e tempestiva manutenzione delle strade.

  A tal proposito il giudice rimettente, dopo aver osservato che "la giurisprudenza indicata (...) non richiede alla pubblica amministrazione neppure la dimostrazione che il pericolo sia stato originato da circostanze o con modalità tali che non ne abbiano consentito una tempestiva eliminazione o segnalazione", denuncia l'"assurdità" di far dipendere la ricorrenza dell'insidia da situazioni contingenti, oggettive (ad esempio in rapporto alla visibilità del pericolo a seconda del traffico) o soggettive (a seconda delle condizioni psicofisiche del danneggiato).

  Tale complessivo orientamento interpretativo, secondo il rimettente, comporta la "violazione o la menomazione del diritto di difesa" del cittadino danneggiato, il quale, per le difficoltà di prova dell'insidia e perchè normalmente soccombente anche in presenza di conclamata inerzia della pubblica amministrazione, é spesso indotto a rinunziare ad adire l'autorità giudiziaria.

  2. - E' intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, chiedendo la declaratoria di inammissibilità e comunque della manifesta infondatezza della questione sollevata. In una memoria depositata nell'imminenza della camera di consiglio, ha insistito in particolare nel chiedere la declaratoria d'inammissibilità, avendo la Corte costituzionale dichiarato manifestamente inammissibile identica questione con ordinanza n. 82 del 1995.

Considerato in diritto

  1.- Il Giudice di pace di Genova dubita della legittimità costituzionale dell'art. 2051 cod. civ., in quanto non applicabile anche alla pubblica amministrazione per i beni demaniali soggetti ad uso ordinario, generale e diretto da parte dei cittadini; dell'art. 2043 cod. civ., in quanto prevede che l'inerzia colposa della pubblica amministrazione, atta a creare o a non rimuovere situazioni di pericolo, sia causa di responsabilità della stessa solo in presenza di una situazione di insidia stradale; dell'art. 1227, primo comma, cod. civ., in quanto esclude, ove sia presente detta insidia, un accertamento del concorso di colpa del danneggiato.

  Secondo il rimettente, le denunciate disposizioni, come sopra interpretate, contrasterebbero: con l'art. 3 della Costituzione, in quanto si determinerebbe una situazione di ingiustificata diseguaglianza dei cittadini di fronte alla legge; con l'art. 24 della Costituzione, in quanto la difficoltà che il danneggiato potrebbe incontrare nella prova del pericolo occulto, ed il connesso rischio di soccombere, pur nella presenza di conclamate inerzie della pubblica amministrazione, potrebbe comportare la violazione o la menomazione del diritto di difesa del danneggiato medesimo, sia sotto il profilo della denegata giustizia, sia sotto il profilo della rinunzia da parte dello stesso, di fronte a rischi reali di soccombenza, ad adire l'autorità giudiziaria; con l'art. 97 della Costituzione, in quanto potrebbero fornire un involontario supporto all'inerzia, anche protratta e colpevole, della pubblica amministrazione.

  2.- Va preliminarmente disattesa l'eccezione di inammissibilità proposta dal Presidente del Consiglio, che ha richiamato quale precedente specifico l'ordinanza n. 82 del 1995 di questa Corte, pronunciata con riguardo a identica questione.

  Il rimettente, infatti, non solleva - come, invece, allora - una questione di mera interpretazione della normativa denunciata, ma assume quale "diritto vivente" l'interpretazione di essa da parte di una giurisprudenza asseritamente consolidata, e dichiara che a questa intenderebbe aderire ove venissero ritenuti privi di fondamento i dubbi di illegittimità costituzionale da lui prospettati.

  3.- Nel merito la questione é infondata.

  3.1.- Il giudice a quo afferma l'esistenza di un "diritto vivente" sulla normativa, con riguardo a cui formula le suindicate censure d'incostituzionalità. Ma la ricognizione della giurisprudenza, dalla quale muove, appare incompleta e non corretta. Egli, infatti, ha trascurato di prendere in considerazione gli svolgimenti più recenti della giurisprudenza stessa, attraverso un doveroso esame di significative pronunce, nelle quali sarebbe stato agevole rinvenire quelle puntualizzazioni tese a dare della denunciata normativa un'interpretazione, non solo rispettosa di tutti i canoni ermeneutici, ma anche conforme alla Costituzione - così come di sèguito precisato -, e dunque da preferire ad altre, sulla cui legittimità costituzionale possano sorgere dubbi in sede di giudizio.

  3.2.- Il proprietario delle cose che abbiano cagionato danno a terzi é responsabile a' sensi dell'art. 2051 cod. civ., solo in quanto ne sia custode, e dunque ove egli sia stato oggettivamente in grado di esercitare un potere di controllo e di vigilanza sulle cose stesse.

  Ciò basta a rendere ragione dell'approdo ermeneutico, ribadito anche di recente dalla giurisprudenza di legittimità, secondo cui alla pubblica amministrazione non é applicabile il citato articolo, allorchè sul bene di sua proprietà non sia possibile - per la notevole estensione di esso e le modalità d'uso, diretto e generale, da parte dei terzi - un continuo, efficace controllo, idoneo ad impedire l'insorgenza di cause di pericolo per gli utenti.

  S'intende - e in alcune sentenze ciò viene sottolineato - che la "notevole estensione del bene" e "l'uso generale e diretto" da parte dei terzi costituiscono meri indici dell'impossibilità d'un concreto esercizio del potere di controllo e vigilanza sul bene medesimo; la quale dunque potrebbe essere ritenuta, non già in virtù d'un puro e semplice riferimento alla natura demaniale e all'estensione del bene, ma solo a sèguito di un'indagine condotta dal giudice con riferimento al caso singolo, e secondo criteri di normalità.

  Con tale interpretazione si rimane indubbiamente nell'àmbito del sistema codicistico della responsabilità extracontrattuale, venendosi solo a precisare - in conformità alla evidente ratio dello stesso art. 2051 - i limiti dell'operatività di uno dei particolari criteri d'imputazione previsti dal codice civile in luogo di quello generale posto dall'art. 2043.

  Si deve allora passare allo scrutinio di costituzionalità dell'asserito "diritto vivente" formatosi su quest'ultima disposizione.

  3.3. - La giurisprudenza, sia dei giudici di merito sia della Corte di cassazione, in effetti é da tempo consolidata nel senso che colui il quale intenda far valere la responsabilità extracontrattuale della pubblica amministrazione, deve - una volta esclusa, nei limiti sopra chiariti, l'applicabilità dell'art. 2051 - dimostrare che l'evento dannoso sia eziologicamente ricollegabile ad un'insidia (o trabocchetto), cioé ad una situazione di fatto che rappresenti pericolo occulto per l'utente del bene demaniale, e segnatamente della strada aperta al pubblico.

  Ma il giudice a quo non ha colto le ragioni e la portata di codesto indirizzo giurisprudenziale, consolidatosi dopo una complessa e sempre più raffinata elaborazione, che ebbe inizio sin dalla entrata in vigore della legge 20 marzo 1865 all.E, abolitrice del contenzioso amministrativo, passando poi attraverso varie fasi. Ragioni e portata, che sono tali da far considerare prive di consistenza le censure mosse nell'ordinanza di rimessione, secondo quanto appresso chiarito.

  3.4. - Anzitutto é da rammentare che l'art. 2043 cod. civ. contiene una clausola generale. Il legislatore, infatti, ha utilizzato una formula aperta, che consente al giudice l'adattamento di tale norma alle circostanze del caso attraverso la valutazione dei limiti di meritevolezza degli interessi pretesamente lesi, anche in relazione ad altri interessi antagonisti, secondo l'evolversi della coscienza sociale e del sistema giuridico generale nonchè degli strumenti normalmente a disposizione dei soggetti titolari di tali interessi. Sicchè, nelle fattispecie come quella in esame, é compito del giudice ordinario accertare secondo le circostanze di tempo e di luogo se la pubblica amministrazione sia in concreto responsabile per i danni, tenuto conto anche del particolare rapporto di fatto che, da una parte, il proprietario e, dall'altra, il terzo danneggiato hanno con la cosa in relazione alla quale l'evento si verifica.

  Occorre poi considerare che la manutenzione delle strade costituisce per l'ente pubblico un dovere istituzionale non correlato a un diritto soggettivo dei privati, i quali possono far valere soltanto un interesse legittimo al corretto esercizio del potere discrezionale dell'ente medesimo. Pertanto il difetto di manutenzione assume rilievo, nei rapporti con i privati, unicamente allorchè la pubblica amministrazione non abbia osservato le specifiche norme e le comuni regole di prudenza e diligenza poste a tutela dell'integrità personale e patrimoniale dei terzi, in violazione del principio fondamentale del neminem laedere: venendo così a superare il limite esterno della propria discrezionalità, con conseguente sua sottoposizione al regime generale di responsabilità dettato dall'art. 2043 cod. civ.

  Ma, nell'accertamento in concreto di questa, non si può ignorare il particolare rapporto che - come sopra si é già accennato - hanno con la strada pubblica, da una parte, l'ente proprietario e, dall'altra, gli utenti, i quali, in coerenza con il principio di autoresponsabilità, sono indubbiamente gravati d'un onere di particolare attenzione nell'esercizio dell'uso ordinario diretto del bene demaniale, per salvaguardare appunto la propria incolumità.

  Ebbene, in questo quadro, la nozione d'insidia stradale viene a configurarsi come una sorta di figura sintomatica di colpa, elaborata dall'esperienza giurisprudenziale, mediante ben sperimentate tecniche di giudizio, in base ad una valutazione di normalità, col preciso fine di meglio distribuire tra le parti l'onere probatorio, secondo un criterio di "semplificazione analitica" della fattispecie generatrice della responsabilità in esame. Se e in quanto il danneggiato provi l'insidia, può e deve essere affermata la responsabilità della pubblica amministrazione, salvo che questa, a sua volta, provi di non aver potuto rimuovere - adottando le misure idonee - codesta situazione di pericolo, i cui elementi costitutivi il giudice ha comunque il compito di individuare in modo specifico (fra l'altro precisando gli standards di diligenza connessi alla visibilità e prevedibilità nonchè all'evitabilità del pericolo stesso, in relazione all'uso della strada), onde accertare in definitiva se ricorrano, a stregua delle peculiarità del caso, le condizioni richieste dall'art. 2043 cod. civ.

  Che poi, una volta acclarata in tal modo la responsabilità della pubblica amministrazione, di regola risulti inapplicabile l'art. 1227, primo comma, cod. civ., dipende da evidenti ragioni di incompatibilità logica fra un possibile concorso di colpa del danneggiato e la stessa nozione d'insidia, essendo questa contraddistinta appunto dai caratteri dell'imprevedibilità e dell'inevitabilità del pericolo.

  3.5. - Per dissipare, infine, il dubbio espresso dal rimettente, secondo cui una tale interpretazione della denunciata normativa consentirebbe il permanere nell'ordinamento giuridico di antichi privilegi a favore della pubblica amministrazione, non più giustificabili in uno Stato di diritto, sembra opportuno aggiungere, conclusivamente, che l'utilizzazione giurisprudenziale della suddescritta figura sintomatica di colpa non é estranea neanche alla responsabilità extracontrattuale dei privati, convenuti per il risarcimento dei danni conseguenti a difetto di manutenzione dei loro immobili.

  Tale difetto, invero, al di fuori di specifici obblighi di legge o contrattuali (e salvo quanto sopra precisato con riguardo all'art. 2051 cod. civ.), rileva unicamente sotto specie di violazione del principio del neminem laedere, allo stesso modo per la pubblica amministrazione e per i privati: eventuali diversità di giudizio dovendosi ricollegare soltanto alle peculiarità del bene, influenti sulla relativa manutenzione.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

  dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale degli artt. 2043, 2051 e 1227, primo comma, del codice civile, sollevata, in riferimento agli artt. 3, 24 e 97 della Costituzione, dal Giudice di pace di Genova con l'ordinanza indicata in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta il 29 aprile 1999.

Renato GRANATA, Presidente

Cesare RUPERTO, redattore

Depositata in cancelleria il 10 maggio 1999.