SENTENZA N.229
ANNO 1998
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori Giudici:
- Dott. Renato GRANATA, Presidente
- Prof. Giuliano VASSALLI
- Prof. Francesco GUIZZI
- Prof. Cesare MIRABELLI
- Avv. Massimo VARI
- Dott. Cesare RUPERTO
- Dott. Riccardo CHIEPPA
- Prof. Valerio ONIDA
- Prof. Carlo MEZZANOTTE
- Prof. Guido NEPPI MODONA
- Prof. Annibale MARINI
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 103, comma 6, del codice di procedura penale, promosso con ordinanza emessa il 18 luglio 1997 dal Tribunale di Genova – Sezione per il riesame, iscritta al n. 763 del registro ordinanze 1997 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 45, prima serie speciale, dell’anno 1997.
Udito nella camera di consiglio il 22 aprile 1998 il Giudice relatore Giuliano Vassalli.
Ritenuto in fatto
1. – Nel corso delle indagini preliminari, con provvedimento del 3 luglio 1997 il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Genova ordinava, previa perquisizione, il sequestro probatorio della documentazione "concernente i fatti" oggetto delle indagini, "esistente nella cella del carcere ove" l’inquisito "é detenuto"; nella motivazione del provvedimento, eseguito lo stesso 3 luglio, si faceva "esplicito riferimento alla natura della documentazione ricercata", precisandosi "che la stessa viene sottoposta a sequestro in quanto predisposta" dall’indagato, "con funzione di appunti, al fine di più agevolmente rispondere all’interrogatorio reso dallo stesso indagato in data 1° luglio 1997", "nell’intento di verificare se in detta documentazione siano riportate circostanze diverse da quelle poi verbalmente riferite".
2. – Proposta richiesta di riesame avverso il detto provvedimento, il Tribunale di Genova ha, con ordinanza del 18 luglio 1997, sollevato in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione, questione di legittimità dell’art. 103, comma 6, del codice di procedura penale, "nella parte in cui non prevede il divieto di sottoporre a sequestro gli scritti formati dall’imputato (e dall’indagato) appositamente ed esclusivamente come appunto per facilitare la difesa negli interrogatori".
Rileva il giudice a quo che la ricerca probatoria ha ad oggetto non fatti ma osservazioni circa la linea difensiva che l’imputato intende assumere. Cosicchè risponde alla medesima esigenza difensiva posta alla base della norma denunciata precludere che le "carte e i documenti relativi all’oggetto della difesa" che si trovino, non presso il difensore, ma presso l’imputato vengano sequestrate quando attengano all’esercizio della linea difensiva da predisporre; con conseguente violazione anche del principio di eguaglianza perchè l’inviolabilità del diritto di difesa non può essere riservata al solo difensore, rappresentando difesa personale e difesa tecnica attuazione di un unico principio.
3. – Nel giudizio non si é costituita la parte privata nè ha spiegato intervento il Presidente del Consiglio dei ministri.
Considerato in diritto
1. – Il giudice a quo dubita della legittimità costituzionale dell’art. 103, comma 6, del codice di procedura penale, "nella parte in cui non prevede il divieto di sottoporre a sequestro gli scritti formati dall’imputato (e dall’indagato) appositamente ed esclusivamente come appunto per facilitare la difesa negli interrogatori".
Di fronte ad una richiesta di riesame del decreto di sequestro probatorio disposto dal Pubblico ministero, sequestro da eseguirsi "previa perquisizione della cella ove" l’indagato "é detenuto", ed avente ad oggetto la "documentazione concernente i fatti per cui lo stesso é indagato", il Tribunale, premesso "che la motivazione del provvedimento di sequestro fa esplicito riferimento alla natura della documentazione ricercata, precisando che la stessa viene sottoposta a sequestro in quanto predisposta … con funzione di appunti, al fine di più agevolmente rispondere all’interrogatorio" già reso, nell’intento di "verificare se in detta documentazione siano riportate circostanze diverse da quelle poi verbalmente riferite", ha implicitamente ravvisato la fonte di simile potere in una mancata previsione normativa riconducibile al disposto della norma denunciata che, nel disciplinare le garanzie di libertà del difensore, esclude il sequestro (e ogni altra forma di controllo) della corrispondenza tra l’imputato ed il proprio difensore solo presso quest’ultimo. Con inevitabili riverberi quanto alla conformità della norma denunciata all’art. 3 della Costituzione, sotto il profilo della ingiustificata disparità del trattamento, con riferimento a documenti direttamente interessanti la difesa, fra la tutela apprestata al difensore e la tutela apprestata all’imputato e all’indagato, e conseguente, altrettanto irragionevole, "sbilanciamento" tra difesa personale e difesa tecnica; nonchè all’art. 24 della Costituzione sotto il profilo del diritto di difesa personale dell’imputato (e dell’indagato) , che risulterebbe vulnerato dal potere concesso all’autorità giudiziaria di procedere al sequestro di documenti strettamente connessi all’esercizio della difesa personale.
Per la verità, nonostante che nel dispositivo dell’ordinanza di rimessione risulti evocato l’art. 103, comma 6, del codice di procedura penale, ad essere chiamato in causa sembrerebbe anche il comma 2 di tale articolo, nei termini sopra ricordati, nella parte in cui prevede che presso i difensori (e i consulenti tecnici) e non, quindi, anche presso l’imputato, "non si può procedere a sequestro di carte o documenti relativi all’oggetto della difesa, salvo che costituiscano corpo di reato". Il tutto secondo quanto si ricava dalla motivazione della detta ordinanza, nell’ambito della quale il richiamo, peraltro neppure nominatim, al sesto comma viene ad assumere un significato puramente descrittivo di un assetto, ricavabile dall’art. 103 nel suo integrale contesto (come tale citato nella motivazione), diretto a privilegiare la difesa tecnica rispetto alla difesa personale, a tutela della quale la norma denunciata non arrecherebbe alcun contributo.
2. – La questione non é fondata.
Anche per ragioni strettamente connesse al necessario requisito della rilevanza, pare evidente che il giudice a quo abbia qualificato il decreto sia di perquisizione sia di sequestro come legittimamente disposto dal Pubblico ministero; in caso contrario, il Tribunale avrebbe dovuto procedere, in sede di riesame, all’annullamento del provvedimento ritenuto contra legem. Il che risulta, del resto, esplicitato dall’inciso posto a chiusura della parte argomentativa dell’ordinanza di rimessione ove si lamenta che "il testo dell’art. 103 appare attualmente limitato ad una tutela della sfera relativa alla sola difesa tecnica, e non consente un’interpretazione estensiva o analogica, che non sia contenuta in una decisione della Corte costituzionale".
Pure in presenza delle precisazioni sopra formulate quanto alla norma effettivamente sottoposta al vaglio di legittimità costituzionale, risulta subito chiaro come una simile interpretazione, che il giudice a quo fa inopinatamente derivare dall’impossibilità di applicazione della norma denunciata, é palesemente erronea perchè il Tribunale del riesame sarebbe stato comunque tenuto a pronunciare l’annullamento del provvedimento di perquisizione e di sequestro del quale era stato richiesto il riesame. Ciò, non soltanto in applicazione delle norme che disciplinano la perquisizione ed il sequestro probatorio, ma anche per l’incidenza di principi costituzionali qui immediatamente applicabili in forza di un’interpretazione secundum Constitutionem degli artt. 247 e 253 del codice di procedura penale.
Già la considerazione che tanto la perquisizione quanto il sequestro, non avendo ad oggetto nè il corpo di reato nè cose pertinenti al reato, sono da considerare illegittimamente disposti, avrebbe dovuto condurre il rimettente a cancellare il provvedimento ablativo, considerando anche che ove l’interessato non avesse provveduto ad attivare il riesame, i documenti sequestrati sarebbero comunque risultati inutilizzabili per la parte concernente la tutela del diritto alla difesa personale, trattandosi di prove illecitamente acquisite (art. 191 cod. proc. pen.).
Senonchè ci si trova qui in presenza non di una lacuna normativa da colmare con una sentenza additiva della Corte, bensì di un provvedimento del tutto contrario alle regole del processo e direttamente lesivo di principi costituzionali. Invero il fatto che il provvedimento qualifichi la perquisizione come funzionale alla apprensione degli appunti e, quindi, alla verifica della corrispondenza dei documenti sequestrati al contenuto dell’interrogatorio, si risolve in una palese diretta violazione dei diritti inviolabili della persona prima ancora che del diritto all’autodifesa. Tanto da rivelare la predisposizione da parte dell’autorità giudiziaria di uno strumento di tale invasività della sfera privata (a nulla rilevando che, nella specie, l’inquisito si trovasse in vinculis), proprio al fine di vulnerare il diritto presidiato dall’art. 24, secondo comma, della Costituzione, da comportare, oltre tutto, una surrettizia quanto censurabile lesione delle regole dettate in tema di interrogatorio dallo stesso codice di procedura penale.
Un vizio, dunque, che travalica la stessa impossibilità di utilizzazione dei documenti sequestrati (che potrebbe, in diverse ipotesi, discendere da un’occasionale, non voluta apprensione di documenti non utilizzabili oltrechè da un divieto sopravvenuto di utilizzazione) per rivelare l’inidoneità del documento ad identificarsi in uno schema legale. Per giunta attraverso l’impiego di strumenti designati da una capacità intrusiva non dissimile da quelle metodiche delle quali l’art. 188 del codice di procedura penale (che, tutelando la "libertà morale della persona nell’assunzione della prova", rappresenta una diretta applicazione dell’art. 2 della Costituzione) preclude la possibilità di utilizzazione in quanto tali, quali che possano essere i risultati probatori conseguiti. Il tutto secondo regole che prima ancora di essere codificate rappresentano l’espressione di principi fondamentali di civiltà giuridica.
3. – Tanto precisato, il voler far discendere il potere per l’organo inquirente di agire con tali modalità dalla più volte indicata omessa previsione dell’art. 103, comma 6, del codice di procedura penale, si rivela conseguenza, non soltanto di un’errata interpretazione degli artt. 247 e 253 del codice di procedura penale, ma anche di una palese violazione dei principi costituzionali posti a tutela della persona umana.
4. – E’ appena il caso di soggiungere che nessun apporto interpretativo può derivare dal disposto dell’art. 237 del codice di procedura penale che consente l’acquisizione, anche di ufficio, di qualsiasi documento proveniente dall’imputato. E’ chiaro infatti che qualsivoglia lettura della detta disposizione (derivata dall’art. 465 del codice abrogato) debba essere sempre e comunque coordinata con i principi costituzionali a tutela della persona umana e del diritto di difesa dell’imputato e dell’indagato oltre che con le regole processuali che presidiano tali diritti, limitando, nei termini prima ricordati, l’incidenza invasiva dei mezzi di ricerca della prova.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 103, comma 6, del codice di procedura penale, sollevata, in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione, dal Tribunale di Genova con l’ordinanza in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 1° giugno 1998.
Presidente: Renato GRANATA
Redattore: Giuliano VASSALLI
Depositata in cancelleria il 19 giugno 1998.