SENTENZA N.226
ANNO 1998
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori Giudici:
- Dott. Renato GRANATA, Presidente
- Prof. Giuliano VASSALLI
- Prof. Francesco GUIZZI
- Prof. Cesare MIRABELLI
- Prof. Fernando SANTOSUOSSO
- Avv. Massimo VARI
- Dott. Cesare RUPERTO
- Dott. Riccardo CHIEPPA
- Prof. Gustavo ZAGREBELSKY
- Prof. Valerio ONIDA
- Prof. Carlo MEZZANOTTE
- Avv. Fernanda CONTRI
- Prof. Guido NEPPI MODONA
- Prof. Piero Alberto CAPOTOSTI
- Prof. Annibale MARINI
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 36 della legge 20 maggio 1970, n. 300 (Norme sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e dell’attività sindacale nei luoghi di lavoro e norme sul collocamento), promosso con ordinanza emessa l’8 febbraio 1996 dalla Corte di cassazione sul ricorso proposto da Pennisi Michele contro la Brumital S.p.a. ed altra, iscritta al n. 1358 del registro ordinanze 1996 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 3, prima serie speciale, dell’anno 1997.
Udito nella camera di consiglio del 28 gennaio 1998 il Giudice relatore Massimo Vari.
Ritenuto in fatto
1.— Con ordinanza emessa l’8 febbraio 1996 (R.O. n. 1358 del 1996), la Corte di cassazione ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 36 della legge 20 maggio 1970, n. 300 (Norme sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e dell’attività sindacale nei luoghi di lavoro e norme sul collocamento).
Secondo il rimettente, la disposizione si pone in contrasto con l’art. 3, primo comma, della Costituzione, nella parte in cui non prevede — contrariamente a quanto contemplato, invece, per i provvedimenti di concessione di benefici accordati dallo Stato e da enti pubblici ad imprenditori e per i capitolati di appalto attinenti all’esecuzione di opere pubbliche — l’inserzione obbligatoria, nei contratti aventi ad oggetto la concessione di pubblici servizi, della clausola di equo trattamento, determinante l’obbligo per il beneficiario o appaltatore di applicare o di far applicare, nei confronti dei lavoratori dipendenti, condizioni non inferiori a quelle risultanti dai contratti collettivi di lavoro della categoria e della zona.
2.— La questione é stata sollevata nell’ambito del giudizio promosso da Pennisi Michele, medico alle dipendenze della Casa di cura "S. Maria Center" S.p.a. nel periodo dal gennaio 1980 al luglio 1988, per ottenere la condanna del datore di lavoro alla corresponsione di emolumenti ed indennità retributive sulla base del più favorevole trattamento economico previsto dal contratto collettivo 15 luglio 1987, laddove, invece, la società aveva continuato a far riferimento al previgente contratto collettivo.
Il giudice a quo, fra i vari motivi di impugnazione addotti dal ricorrente (erronea determinazione del giudice d’appello sull’inapplicabilità, al caso sottoposto a cognizione, dell’art. 36 della legge n. 300 del 1970; legittimazione diretta ed immediata del lavoratore ad esigere il rispetto del trattamento economico-normativo cui si riferisce il medesimo art. 36, nonostante la mancata inserzione della relativa clausola; efficacia nei confronti del datore di lavoro di contratto collettivo successivamente intervenuto, in virtù dell’adesione al contratto previgente), ritiene di dar la precedenza "sul piano logico" all’esame di quello relativo alla applicabilità o meno dell’art. 36 della legge n. 300 del 1970 alla fattispecie dedotta in giudizio.
In ordine a quest’ultima, l’ordinanza assume che la convenzione, stipulata dalla Casa di cura con il competente Assessorato regionale, per regolare la prestazione dei servizi resi dalla prima in favore degli assistiti ed in relazione ai quali veniva versato un corrispettivo dalla Regione Sicilia, rivesta — sulla base anche di quanto dedotto dal ricorrente — "al pari di quelle stipulate ai sensi dell’art. 44 della legge n. 833 del 23 dicembre 1978 tra le unità sanitarie locali e le case di cura (o altre strutture private), natura di contratto di diritto pubblico", dando, perciò vita ad un "rapporto qualificabile come concessione amministrativa di un pubblico servizio".
3.— Escluso tuttavia che, nel caso in esame, il rapporto giuridico fra privato concessionario e pubblica amministrazione possa essere, sia pure in via analogica, ricompreso nello specifico ambito di applicazione della disposizione di cui all’art. 36 della legge n. 300 del 1970, il giudice a quo rammenta i numerosi interventi normativi che hanno segnato nel tempo "la positiva ingerenza della pubblica amministrazione nella disciplina dei rapporti tra imprese appaltatrici di opere pubbliche o concessionari di pubblici servizi e lavoratori da essi dipendenti al fine di assicurare loro un equo trattamento". In questo quadro di riferimento si colloca, a suo avviso, anche l’art. 36 della legge n. 300 del 1970, quale disposizione che si prefigge di "assegnare dignità normativa" ai principi enunciati nella convenzione OIL n. 94 ed, al contempo, di superare il carattere settoriale dei pregressi interventi legislativi in materia, attribuendo così "una dimensione compiuta al principio già accolto" dagli stessi, con l’obiettivo di "estendere di fatto" il contenuto economico-normativo della contrattazione collettiva vigente (pur mantenendone inalterata la sfera di efficacia soggettiva) ai rapporti di lavoro attinenti ad un’attività imprenditoriale, "nella quale sia a vario titolo implicata la pubblica amministrazione"; e ciò tramite l’inserzione obbligatoria nei provvedimenti concessori di benefici ovvero nei capitolati di appalto della clausola di equo trattamento, da essa prevista.
4.— Individuata, perciò, la ratio della disposizione "nella esigenza che, ove nell’esercizio di un’attività imprenditoriale intervenga la pubblica amministrazione (in quanto questa eroghi in relazione ad essa benefici di carattere finanziario o creditizio ovvero ne affidi ad altri il compimento), sia assicurato uno standard minimo di tutela ai dipendenti che ne siano coinvolti", la Corte rimettente ritiene che, alla luce dell’art. 3, primo comma, della Costituzione, non sia giustificata l’esclusione, dall’ambito di applicazione della disposizione medesima, dei rapporti di lavoro facenti capo a concessionari di pubblici servizi.
Nel senso dell’incostituzionalità di tale esclusione depone, secondo l’ordinanza, la sostanziale omogeneità fra le due fattispecie (appalti di opere pubbliche e concessioni di pubblici servizi), che, sebbene differenti quanto a natura giuridica e disciplina, evidenziano, entrambe, l’interesse della pubblica amministrazione alla predisposizione di un equo trattamento in favore del personale occupato nelle rispettive attività. Secondo l’ordinanza, "la generalizzata estensione del principio che costituisce il fondamento" dell’art. 36 della legge n. 300 del 1970, "si rivela, del resto, aderente al dovere di imparzialità proprio della p.a. (art. 97 della Costituzione), che non troverebbe piena attuazione ove una tutela minima fosse garantita ai lavoratori in riferimento ad alcune soltanto delle attività imprenditoriali in cui la p.a. stessa sia implicata".
Oltretutto, sarebbe inaccettabile che le imprese operanti con la pubblica amministrazione possano "trarre un profitto aggiuntivo" a scapito dei propri dipendenti, sottraendosi all’osservanza della contrattazione collettiva, laddove, invece, il corrispettivo che ricevono, per la "realizzazione di un interesse pubblico", é rapportato anche ai presumibili oneri di carattere retributivo, "innegabilmente determinati con riferimento ad un trattamento adeguato quantomeno a quello previsto dai contratti collettivi di categoria".
Considerato in diritto
1.— Con l’ordinanza in epigrafe indicata, la Corte di cassazione dubita della legittimità costituzionale dell’art. 36 della legge 20 maggio 1970, n. 300 (Norme sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e dell’attività sindacale nei luoghi di lavoro e norme sul collocamento).
Il rimettente é dell’avviso che il predetto art. 36, "nella parte in cui non prevede l’inserzione obbligatoria della clausola di equo trattamento nei contratti aventi ad oggetto la concessione di pubblici servizi", si ponga in contrasto con l’art. 3, primo comma, della Costituzione, non trovando giustificazione alcuna la disparità di trattamento esistente tra i lavoratori che prestino la loro opera alle dipendenze di detti concessionari e quelli che la prestino, invece, alle dipendenze delle imprese appaltatrici di opere pubbliche.
2.— Chiamato a pronunciarsi in una controversia di lavoro, instaurata da un medico dipendente di una Casa di cura, titolare di un rapporto concessorio riconducibile alla tipologia di cui all’art. 44 della legge 23 dicembre 1978, n. 833 (Istituzione del servizio sanitario nazionale), il giudice a quo ha ritenuto, nella delibazione dei motivi di ricorso a lui sottoposti, di dare la precedenza a quello riguardante l’applicabilità, alla fattispecie, dell’art. 36 della legge n. 300 del 1970 (c.d. Statuto dei lavoratori), rispetto agli altri mezzi di gravame, concernenti, rispettivamente, la configurabilità della diretta legittimazione dei lavoratori ad esigere il rispetto del trattamento economico e normativo cui si riferisce la disposizione censurata, pur in mancanza del concreto inserimento della cosiddetta "clausola sociale" nel provvedimento di concessione, nonchè l’efficacia, nei confronti del datore di lavoro, di contratti collettivi successivi a quello cui il medesimo aveva prestato adesione.
Come questa Corte ha già avuto occasione più volte di affermare, l’ordine logico secondo il quale il rimettente reputa di affrontare le varie questioni o motivi di ricorso portati al suo esame non é sindacabile in questa sede. Nulla osta perciò all’ammissibilità della sollevata questione di costituzionalità, non potendosi negare la rilevanza della medesima ai fini del decidere.
3.— Nel merito, la questione é fondata.
L’art. 36 della legge 20 maggio 1970, n. 300 prevede che, "nei provvedimenti di concessione di benefici accordati ai sensi delle vigenti leggi dallo Stato a favore di imprenditori che esercitano professionalmente un'attività economica organizzata e nei capitolati d’appalto attinenti all’esecuzione di opere pubbliche, deve essere inserita la clausola esplicita determinante l’obbligo per il beneficiario o appaltatore di applicare o di far applicare nei confronti dei lavoratori dipendenti condizioni non inferiori a quelle risultanti dai contratti collettivi di lavoro della categoria e della zona".
La disposizione si colloca nella scia di un indirizzo legislativo, circa l’ingerenza della amministrazione nella disciplina dei rapporti tra imprese appaltatrici di opere pubbliche o concessionarie di pubblici servizi e rispettivi lavoratori dipendenti, più che secolare, risalendo esso addirittura all’art. 357 della legge 20 marzo 1865, n. 2248, allegato F (che autorizza l’amministrazione a pagare "la mercede...rifiutata senza giusto motivo, o non corrisposta nel termine consueto", con le somme dovute all’appaltatore). Nell’ambito di tale indirizzo, come rammenta lo stesso giudice a quo, si collocano anche più recenti provvedimenti (tra cui l’art. 8 della legge 25 giugno 1956, n. 695, recante disposizioni in favore dell’industria zolfiera, l’art. 2 del d.P.R. 22 novembre 1961, n. 1192, sulla disciplina della mano d’opera negli appalti concessi dalle Amministrazioni autonome delle ferrovie dello Stato, dei monopoli di Stato e delle poste e telecomunicazioni, il d.P.R. 16 luglio 1962, n. 1063, approvativo del capitolato generale d’appalto del Ministero dei lavori pubblici), espressivi della tendenza a stabilire clausole di garanzia di equo trattamento nelle attività economiche in cui interviene, sovente con misure agevolative, la mano pubblica. Detta tendenza trova la sua più significativa manifestazione proprio nell’art. 36 dello Statuto dei lavoratori, il quale supera, infatti, il carattere settoriale dei precedenti interventi, recependo, nel contempo, i principi della convenzione OIL n. 94 del 1949, resa esecutiva in Italia con legge 2 agosto 1952, n. 1305, volti a prevedere che i contratti ivi indicati, stipulati dagli imprenditori privati con la pubblica amministrazione, contengano clausole che assicurino retribuzioni ed altre condizioni del rapporto di lavoro non meno favorevoli di quelle derivanti dalla contrattazione collettiva.
Le norme derivanti da tale convenzione, secondo la tesi del rimettente, sulla quale questa Corte non può non convenire, non hanno tuttavia carattere autoapplicativo, apparendo essa, per il tenore stesso delle relative disposizioni, non certo di esaustiva regolamentazione, e potendosi, oltretutto, dubitare della puntuale considerazione, in seno alla medesima, anche delle concessioni di pubblico servizio, affidate con atto autoritativo provvedimentale, alla stregua anche di quanto risulta dalla coeva raccomandazione OIL n. 84, intesa a sollecitare da parte degli Stati contraenti — in caso di "autorizzazioni" a datori di lavoro privati per l’esercizio "di un servizio di pubblica utilità" — l’adozione di "clausole relative ai rapporti di lavoro sostanzialmente analoghe a quelle previste per i contratti pubblici".
Nell’impossibilità, perciò, di rinvenire nella sopra ricordata convenzione una disciplina applicabile direttamente alla fattispecie, sì da superare, per tal via, la questione sollevata dal rimettente, si pone l’esigenza di verificare se la mancata previsione, da parte dell’art. 36, della ipotesi segnalata dall’ordinanza — e cioé di un rapporto convenzionale fra Regione e clinica privata riconducibile sostanzialmente alla tipologia concessoria di pubblico servizio, prevista dall'art. 44 della legge n. 833 del 1978 — sia espressione di legittima scelta del legislatore, ovvero frutto di irragionevole discriminazione, a fronte di una situazione omologabile alle altre tutelate dalla norma.
Diviene, dunque, decisiva la considerazione della ratio della disposizione censurata, da rinvenire, secondo la prevalente giurisprudenza, nell’esigenza che, ove nell’esercizio di una determinata attività imprenditoriale intervenga la pubblica amministrazione (in quanto essa eroghi benefici di carattere finanziario o creditizio ovvero affidi ad altri il compimento dell’attività stessa), sia assicurato uno standard minimo di tutela ai dipendenti coinvolti. Non é senza rilievo, peraltro, la circostanza che anche coloro che, in via minoritaria, individuano lo scopo precipuo della norma nella valorizzazione della dimensione collettiva degli strumenti da essa considerati pongono, pur sempre, in evidenza l’intimo collegamento che sussiste tra siffatto profilo e quello dell’esigenza di tutela del lavoro subordinato, sottolineando, in tal modo, l’ispirazione e la funzione di garanzia che la disposizione, in ogni caso, svolge in favore dei lavoratori utilizzati presso imprese private che hanno ottenuto benefici o appalti dallo Stato.
4.— A fronte di tale finalità della legge, v’é, ovviamente, pur sempre da domandarsi se la figura giuridica dell’appalto di opere pubbliche non sia espressiva, di per sè, di peculiari esigenze che, nell’ambito della disposizione censurata, possano fungere, nonostante l’ampiezza della ratio cui si ispira la legge, da ragionevole criterio di diversificazione rispetto alla situazione della concessione di pubblici servizi.
In via di principio, non é dubbia la diversità tra appalto di opere pubbliche e concessione di pubblico servizio, anche per il maggior rilievo tradizionalmente assunto, per la seconda, dal momento provvedimentale-autoritativo. Ciò non può, tuttavia, far disconoscere, al di là del dibattito sulla definizione in generale dell'istituto, che anche le concessioni di pubblico servizio partecipano di una regolamentazione c.d. "contrattuale" del contenuto dell’attività devoluta all’imprenditore privato; regolamentazione che, nell’introdurre elementi di disciplina del diritto comune, si pone, già di per sè, in funzione latamente assimilativa tra le due figure.
Inoltre, anche se pertiene indefettibilmente all’appalto il profilo, istituzionalizzato, "della scelta del contraente", finalizzata alla migliore realizzazione dell’interesse pubblico, secondo i principi della concorrenza tra imprenditori (per ottenere la pubblica amministrazione le condizioni più favorevoli) e della parità di trattamento dei concorrenti nella gara (per assicurare il miglior risultato della procedura concorsuale senza alterazioni e/o turbative), non si può certo ignorare che il principio di acquisizione della prestazione alle condizioni più favorevoli per la pubblica amministrazione non rimane estraneo neppure alle concessioni di pubblico servizio. E ciò in vista dell’esigenza della migliore soddisfazione dell’interesse pubblico che l’imprenditore é tenuto a realizzare, attraverso una ricerca di mezzi adeguati e pertinenti allo scopo, tale da comportare una selezione tra gli stessi (soprattutto in tempi di eliminazione dei regimi monopolistici). In tal senso, anche i costi per le imprese, derivanti dall’obbligo di "equo trattamento", concorrono alla migliore individuazione del soggetto idoneo e ciò vale, indubbiamente, per entrambe le figure giuridiche in esame.
Aggiungasi, inoltre, che la parità di trattamento tra i concorrenti nella "gara" é — come esattamente nota il rimettente — espressione, in ogni caso, del più generale principio di imparzialità, ex art. 97 della Costituzione, cui é sempre tenuta la pubblica amministrazione e che, come tale, é pervasivo dell’intera attività amministrativa, risultando necessariamente inerente anche a quella concessoria.
A questo proposito può, anzi, osservarsi che, non a caso, la giurisprudenza della Cassazione ha ricollegato all’inserzione della clausola sociale uno specifico interesse dell’amministrazione alla "regolare esecuzione dell’opera nei termini contrattualmente previsti", evitando così di rimanere "esposta alle conseguenze dannose provocate dalla conflittualità e dalle rivendicazioni che insorgono abitualmente a causa della inosservanza della normativa collettiva" (Cassazione n. 3640 del 1981).
5.— La conclusione alla quale, in relazione a quanto detto, occorre pervenire é, allora, nel senso che lo strumento utilizzato per la scelta del contraente non viene ad introdurre, sotto lo specifico profilo dell’inserzione della c.d. "clausola sociale", aspetti peculiarmente caratterizzanti l’appalto di opere pubbliche rispetto alla concessione di pubblici servizi e, soprattutto, non concorre ad enucleare la precipua "ratio" dell’art. 36 dello Statuto dei lavoratori, come, tra l’altro, avvalora la circostanza che detta disposizione accomuna le ipotesi degli appalti di opere pubbliche a quelle dei "benefici finanziari e creditizi", rispetto ai quali sono ben lungi dal rilevare le problematiche esaminate.
Acclarato, perciò, che lo scopo della norma é quello, entro il quadro delineato dal principio di imparzialità e buon andamento, di tutela del lavoro subordinato in situazioni nelle quali lo Stato é in grado di influire direttamente o indirettamente, la stessa "ratio" della disposizione ed il suo corretto collegamento "soggettivo" con i "lavoratori subordinati" portano la Corte a ritenere ingiustificata l’esclusione, dal suo ambito di efficacia, dei lavoratori dipendenti da imprese che esercitano un pubblico servizio sulla base di concessione della pubblica amministrazione.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 36 della legge 20 maggio 1970, n. 300 (Norme sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e dell’attività sindacale nei luoghi di lavoro e norme sul collocamento), nella parte in cui non prevede che, nelle concessioni di pubblico servizio, deve essere inserita la clausola esplicita determinante l’obbligo per il concessionario di applicare o di far applicare nei confronti dei lavoratori dipendenti condizioni non inferiori a quelle risultanti dai contratti collettivi di lavoro della categoria e della zona.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 1° giugno 1998.
Presidente: Renato GRANATA
Redattore: Massimo VARI
Depositata in cancelleria il 19 giugno 1998.