SENTENZA N.140
ANNO 1998
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori Giudici:
- Dott. Renato GRANATA, Presidente
- Prof. Francesco GUIZZI
- Prof. Cesare MIRABELLI
- Prof. Fernando SANTOSUOSSO
- Avv. Massimo VARI
- Dott. Cesare RUPERTO
- Dott. Riccardo CHIEPPA
- Prof. Gustavo ZAGREBELSKY
- Prof. Valerio ONIDA
- Prof. Carlo MEZZANOTTE
- Avv. Fernanda CONTRI
- Prof. Guido NEPPI MODONA
- Prof. Piero Alberto CAPOTOSTI
- Prof. Annibale MARINI
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 599, comma secondo, del codice penale, promosso con ordinanza emessa il 31 gennaio 1997 dal Pretore di Latina nel procedimento penale a carico di M. P., iscritta al n. 421 del registro ordinanze 1997 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 28, prima serie speciale, dell’anno 1997.
Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio del 28 gennaio 1998 il Giudice relatore Guido Neppi Modona.
Ritenuto in fatto
1. Nel corso del dibattimento celebrato nei confronti di persona imputata del delitto di oltraggio (art. 341 codice penale), il Pretore di Latina ha sollevato, in riferimento all’art. 3 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 599, comma secondo, del codice penale - che esclude la punibilità di chi commette i fatti preveduti dagli artt. 594 e 595 del codice (ingiuria e diffamazione) nello stato d’ira determinato da un fatto ingiusto altrui e subito dopo di esso - nella parte in cui non ne é prevista l’applicabilità anche al reato di cui all’art. 341 del codice penale.
Il rimettente premette che dal dibattimento sarebbe emerso che gli agenti di polizia giudiziaria, persone offese dall’oltraggio, avevano tenuto nei confronti dell’imputata un comportamento complessivo che, pur non integrando gli estremi della scriminante dell’art. 4 del decreto legislativo luogotenenziale n. 288 del 14 settembre 1944 [<<Non si applicano le disposizioni degli artt. 336, 337, 338, 339, 341, 342, 343 del Codice penale quando il pubblico ufficiale o l’incaricato del pubblico servizio ovvero il pubblico impiegato abbia dato causa al fatto preveduto negli stessi articoli, eccedendo con atti arbitrari i limiti delle sue attribuzioni>>], appariva tale da rivestire le caratteristiche della provocazione per "fatto ingiusto", causa di giustificazione prevista dall’art. 599 cod. pen. in relazione a fatti d’ingiuria o diffamazione, ma valutabile nel caso di specie solamente come attenuante ai sensi dell’art. 62, comma primo, numero 2, cod. pen.
Ad avviso del rimettente, tuttavia, il fatto che la Corte costituzionale con la sentenza n. 341 del 1994 abbia ritenuto irragionevole la diversità del minimo edittale del reato di oltraggio rispetto alla pena prevista per il reato di ingiuria, sul presupposto che la disparità di trattamento sanzionatorio appare <<non più giustificabile dall’attuale bilanciamento di interessi tra la tutela dell’onore e del prestigio del pubblico ufficiale anche nei casi di minima entità, e quella della libertà personale del soggetto agente>>, comporterebbe che pari irragionevolezza dovrebbe riscontrarsi anche nel diverso rilievo che dal codice viene dato al rapporto tra condotta dell’autore del reato [oltraggiante/ingiuriante] e comportamento della persona offesa, a seconda che questi sia pubblico ufficiale o un privato cittadino.
In particolare, quando il privato si trova <<ad interagire con comportamenti del pubblico ufficiale che - sebbene non arbitrari - rivestano le caratteristiche del fatto ingiusto di cui all’art. 599 c. II c.p.>> perchè connotati da <<estrema animosità verbale>> e da <<patente scorrettezza>>, l’impossibilità di applicare l’esimente della provocazione comporterebbe un trattamento sanzionatorio irragionevole, ingiustificatamente disomogeneo rispetto a chi subisca <<lo stesso comportamento da parte di altri privati, […] non forniti nemmeno del maggior prestigio del pubblico ufficiale, di per sè capace di porre ulteriormente in soggezione il cittadino>>.
2. Si é costituito il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata infondata.
Ad avviso dell’Avvocatura la sentenza n. 341 del 1994 citata dal rimettente, pur dichiarando costituzionalmente illegittimo l’art. 341 cod. pen. nella parte in cui prevede come minimo edittale la reclusione per sei mesi, non ha affatto sancito l’esigenza di una piena corrispondenza nel trattamento sanzionatorio tra la fattispecie di oltraggio e quella di ingiuria, avendo al contrario la Corte ribadito come <<la plurioffensività del reato d’oltraggio rende certamente ragionevole un trattamento sanzionatorio più grave di quello riservato all’ingiuria, in relazione alla protezione di un interesse che supera quello della persona fisica e investe il prestigio e quindi il buon andamento della pubblica amministrazione>>.
Ad avviso dell’Avvocatura é dunque ragionevole che per il delitto di oltraggio, in luogo dell’esimente della provocazione, sia prevista l’autonoma scriminante della reazione agli atti arbitrari del pubblico ufficiale, in quanto tale scriminante rappresenterebbe una <<forma speciale di provocazione, qualificata dal (e modellata sul) particolare status di colui che la pone in essere>> (Cass. sez. VI, 5.5.1992, Rosi).
Considerato in diritto
1. Il Pretore di Latina ha sollevato, con riferimento all’art. 3 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 599, comma secondo, del codice penale - che esclude la punibilità di chi abbia commesso un delitto di ingiuria o di diffamazione nello stato d’ira determinato da un fatto ingiusto altrui e subito dopo di esso - nella parte in cui non prevede l’applicabilità di tale causa di giustificazione al delitto di oltraggio a pubblico ufficiale.
In particolare, il giudice rimettente premette che nel caso di specie il pubblico ufficiale aveva posto in essere comportamenti che rivestivano le caratteristiche del fatto ingiusto, in quanto connotati da "estrema animosità verbale" e da "patente scorrettezza", e che però - non integrando gli estremi degli atti arbitrari di cui all’art. 4 del decreto legislativo luogotenenziale 14 settembre 1944, n. 288 - rendevano applicabile in favore del privato solo l’attenuante prevista dall’art. 62, comma primo, numero 2, cod. pen., e non la causa di giustificazione della provocazione, operante esclusivamente per i delitti di ingiuria e diffamazione.
Ad avviso del giudice rimettente, l’impossibilità di applicare tale causa di giustificazione al delitto di cui all’art. 341 cod. pen. determinerebbe, a seconda che la persona offesa sia un privato o un pubblico ufficiale e, quindi, sia configurabile, rispettivamente, il delitto di ingiuria ovvero quello di oltraggio, una irragionevole disparità di trattamento, a fronte di un analogo comportamento provocatorio del soggetto passivo del reato.
Tali censure troverebbero conforto nella stessa giurisprudenza di questa Corte, in particolare nella sentenza n. 341 del 1994, ove é stata affermata l’irragionevolezza del diverso trattamento sanzionatorio tra i delitti di ingiuria e di oltraggio, con riferimento alla sproporzione per eccesso del minimo edittale previsto per il secondo reato, non più giustificabile dall’attuale bilanciamento di interessi <<tra tutela dell’onore e del prestigio del pubblico ufficiale (e del buon andamento dell’amministrazione) anche nei casi di minima entità e quello della libertà personale del soggetto agente>>.
2. La questione non é fondata, nei sensi di seguito precisati.
Sulla base della prospettazione del giudice rimettente, la questione di legittimità costituzionale implica l’esame dei rapporti tra le due cause di giustificazione della provocazione e della reazione agli atti arbitrari del pubblico ufficiale: é necessario in particolare verificare se effettivamente quest’ultima non ricorra quando il pubblico ufficiale abbia tenuto un comportamento "provocatorio" ma non "arbitrario" e se per porre rimedio alla conseguente denunciata violazione dell’art. 3 Cost. si debba necessariamente ricorrere ad un intervento integrativo di questa Corte sull’art. 599, secondo comma, cod. pen., sì da ricomprendervi anche il caso in cui il privato commetta un oltraggio nello stato d’ira determinato dal fatto ingiusto del pubblico ufficiale e subito dopo di esso.
In particolare, nel confronto tra gli elementi costitutivi delle due cause di giustificazione vengono in considerazione da un lato il "fatto ingiusto altrui", dall’altro gli "atti arbitrari".
Iniziando l’esame da questi ultimi, l’ordinanza di rimessione si basa sul presupposto che il comportamento provocatorio del pubblico ufficiale, definito in termini di "estrema animosità verbale" e di "patente scorrettezza", pur integrando gli estremi del fatto ingiusto, non rientra tra gli atti arbitrari rilevanti ai fini dell’applicazione della causa di giustificazione prevista dall’art. 4 del decreto legislativo luogotenenziale n. 288 del 1944. Se ne deve indurre che il giudice rimettente si sia implicitamente richiamato all’indirizzo, nettamente prevalente nella giurisprudenza di legittimità, che interpreta in termini assai restrittivi e rigorosi questo elemento della causa di giustificazione in esame.
In effetti, alla stregua di tale indirizzo il comportamento del pubblico ufficiale idoneo a scriminare la reazione del privato deve essere non solo illegittimo, cioé eccedere dalle funzioni conferite dalla legge, ma esprimere atteggiamenti aggressivi, vessatori, di sopraffazione, ovvero essere ispirato da ragioni di malanimo, prepotenza o capriccio, cioé denotare la pervicace intenzione di agire al di fuori delle proprie attribuzioni e di realizzare un vero e proprio sopruso nei confronti del privato. Può al riguardo parlarsi di concezione soggettiva dell’atto arbitrario, nel senso che si richiede che gli atti del pubblico ufficiale siano sorretti dalla dolosa consapevolezza dell’illegittimità e dell’arbitrarietà del proprio comportamento. Sulla base di questi presupposti, la prevalente giurisprudenza ritiene che comportamenti semplicemente inurbani, scorretti o sconvenienti non siano qualificabili come atti arbitrari, ed esclude di conseguenza in tali casi l’operatività della esimente.
Tale orientamento, sebbene prevalente, non é peraltro esclusivo. Alcune decisioni di legittimità, meno frequenti ma non isolate, nonchè la stragrande maggioranza delle sentenze di merito, costruiscono in maniera radicalmente diversa i rapporti tra illegittimità e arbitrarietà del comportamento del pubblico ufficiale.
Attraverso varie decisioni relativamente recenti, che si integrano tra loro e costituiscono un coerente superamento della precedente giurisprudenza, la Suprema Corte ha sostenuto: che può essere invocata l’esimente dell’atto arbitrario ogniqualvolta il pubblico ufficiale abbia agito in modo aggressivo, vessatorio o comunque privo di quei requisiti di convenienza e urbanità in cui si esprimono le esigenze fondamentali di ogni civile convivenza; che é arbitrario l’atto del pubblico ufficiale che, pur essendo sostanzialmente legittimo, venga compiuto con modalità scorrette, offensive e comunque sconvenienti, in quanto la convenienza e l’urbanità dei modi, esplicitamente imposte a determinate categorie di pubblici ufficiali, debbono ritenersi doverose anche in difetto di esplicita disposizione legislativa; che l’atteggiamento villano non può comunque essere consentito al pubblico ufficiale e che la scorrettezza e la sconvenienza delle modalità di esercizio di una attività conforme sotto il profilo sostanziale alle norme di legge si traducono in un eccesso dai limiti delle attribuzioni del pubblico ufficiale. Attraverso questo indirizzo giurisprudenziale risulta superata anche la concezione soggettiva dell’atto arbitrario, in quanto non si fa più cenno al requisito della dolosa consapevolezza in capo al pubblico ufficiale della illegittimità e della arbitrarietà del proprio comportamento.
Logicamente conseguente a questa impostazione é la sua proiezione sui rapporti tra le due cause di giustificazione della reazione agli atti arbitrari e della provocazione, puntualmente colta attraverso l’affermazione che la prima non é altro che una speciale ipotesi di provocazione, qualificata dallo status di pubblico ufficiale di colui che la pone in essere.
3. Dei due contrapposti indirizzi giurisprudenziali, il primo, fatto proprio dal giudice rimettente, determinerebbe il denunciato contrasto con l’art. 3 Cost.; il secondo, invece, consentirebbe di superare il prospettato vizio di costituzionalità, in quanto il caso oggetto del presente giudizio rientrerebbe nella sfera di applicazione dell’art. 4 del decreto legislativo luogotenenziale n. 288 del 1944, alla stregua di una interpretazione che appare agevolmente sostenibile e compatibile con gli ordinari canoni ermeneutici.
Militano in primo luogo a favore dell’interpretazione più lata dell’esimente della reazione ad atti arbitrari ragioni di ordine storico-politico. Presente nel codice penale Zanardelli del 1889, la causa di giustificazione venne abolita dal codice penale del 1930, in nome di una malintesa tutela del prestigio e della "infallibilità" degli agenti della pubblica autorità, per essere poi reintrodotta, ancor prima della fine della guerra di Liberazione, dal decreto legislativo luogotenenziale 14 settembre 1944, n. 288, unitamente ad altre significative modifiche dell’ordinamento penale, ritenute coessenziali al passaggio dal regime autoritario al nuovo ordinamento democratico e alla nuova impostazione dei rapporti tra autorità e cittadino.
Le vicende storiche della causa di giustificazione della reazione agli atti arbitrari del pubblico ufficiale sono dunque sintomatiche della diversa disciplina dei rapporti tra cittadino e autorità rispettivamente negli ordinamenti liberal-democratici e nei regimi totalitari: in particolare, riflettono le garanzie e le forme di tutela che i primi riconoscono ai privati in caso di comportamenti abusivi dei pubblici ufficiali. Rientra perciò nei poteri-doveri dell’interprete tenere conto dello sviluppo storico dell’istituto che egli é chiamato ad applicare, attribuendogli il significato più consono alla struttura complessiva dell’ordinamento vigente, alla luce dei principi e dei valori espressi dalla Costituzione.
Non paiono di ostacolo a tale interpretazione nè la formulazione letterale della norma, nè considerazioni di ordine sistematico.
Il doppio richiamo, contenuto nell’art. 4 del decreto legislativo luogotenenziale in esame, all’eccesso dai limiti delle proprie attribuzioni e agli atti arbitrari del pubblico ufficiale non impone, infatti, di costruire l’arbitrarietà come un quid pluris diverso e ulteriore rispetto all’eccesso dalle attribuzioni, riferito, sotto il profilo oggettivo, alle modalità di esercizio delle funzioni e sorretto, sotto l’aspetto soggettivo, dalla dolosa consapevolezza dell’illegittimità e dell’arbitrarietà del proprio comportamento. Anche alla stregua della stessa interpretazione letterale delle espressioni usate dall’art. 4, può ragionevolmente sostenersi che arbitrarietà ed eccesso dalle attribuzioni esprimono il medesimo fenomeno, sotto il profilo, rispettivamente, delle modalità con cui il pubblico ufficiale ha dato esecuzione all’atto illegittimo e della illegittimità dell’atto in sè considerato; altrettanto plausibile é concludere, sulla scia della interpretazione prospettata dalla giurisprudenza di legittimità minoritaria, che il comportamento scorretto, incivile, inurbano, sconveniente del pubblico ufficiale rende di per sè la sua condotta estranea alle funzioni e, quindi, illegittima.
Questa interpretazione é avvalorata dalla legislazione (v. ad esempio l’art. 13 del d.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3, nonchè l’impianto ispiratore della legge 7 agosto 1990, n. 241) che a vario titolo impone norme di comportamento ai pubblici impiegati o delinea principi generali dell’azione amministrativa, volti ad impostare in un contesto di lealtà e di reciproca fiducia e collaborazione i rapporti tra cittadino e pubblica amministrazione. Si può pertanto concludere che l’arbitrarietà da un lato non implica un quid pluris rispetto alla "illegittimità", dall’altro é sufficiente a qualificare come eccedenti dalle proprie attribuzioni comportamenti posti in essere in esecuzione di pubbliche funzioni di per sè "legittime", ma connotati da difetto di congruenza tra le modalità impiegate e le finalità per le quali é attribuita la funzione stessa, a causa della violazione degli elementari doveri di correttezza e civiltà che debbono caratterizzare l’agire dei pubblici ufficiali.
4. L’interpretazione conforme a Costituzione si pone non solo in linea con le ragioni storico-politiche che hanno indotto il legislatore a reintrodurre sin dal 1944 nell’ordinamento penale la causa di giustificazione della reazione agli atti arbitrari, ma si innesta su interventi di questa Corte volti a rendere altre norme contenute nel capo del codice penale relativo ai delitti dei privati contro la pubblica amministrazione compatibili con l’assetto dei rapporti tra autorità e cittadino propri di un ordinamento democratico. Valga per tutti il richiamo alla sentenza n. 341 del 1994, che ha dichiarato costituzionalmente illegittima la misura minima edittale di sei mesi di reclusione prevista dall’art. 341 cod. pen., rilevando, tra l’altro, che tale sanzione appare <<come il prodotto della concezione autoritaria e sacrale dei rapporti tra pubblici ufficiali e cittadini tipica di quell’epoca storica e discendente dalla matrice ideologica allora dominante, concezione che é estranea alla coscienza democratica instaurata dalla Costituzione repubblicana, per la quale il rapporto tra amministrazione e società non é un rapporto di imperio, ma un rapporto strumentale alla cura degli interessi di quest’ultima>>.
5. Alla stregua delle considerazioni sinora esposte, emerge una sostanziale coincidenza tra l’illegittimità-arbitrarietà del comportamento del pubblico ufficiale che ha dato causa alla reazione oltraggiosa del privato e il fatto ingiusto altrui di cui all’art. 599, comma secondo, cod. pen. Al riguardo, é significativo che la giurisprudenza di legittimità definisca il fatto ingiusto altrui come qualsiasi comportamento contrario alle regole sociali che improntano la convivenza civile, a prescindere dalla sua contrarietà a norme giuridiche, adottando espressioni in cui é dato cogliere una significativa assonanza con la scorrettezza, la sconvenienza, l’aggressività che connotano in termini di arbitrarietà il comportamento del pubblico ufficiale contrastante con gli specifici doveri attinenti allo svolgimento delle sue attribuzioni.
D’altro canto la struttura della causa di giustificazione della reazione agli atti arbitrari implicitamente richiama - quantomeno nella specifica ipotesi della reazione oltraggiosa del privato - i requisiti dello stato d’ira e della conseguente immediatezza della reazione: poichè il comportamento del pubblico ufficiale deve avere "dato causa" alla reazione del privato, la reazione si accompagna per lo più ad uno stato di concitazione e di alterazione, assimilabile ad una risposta ab irato. E’ dato dunque riscontrare un rapporto di "causalità psichica" tra il comportamento del pubblico ufficiale e la reazione del privato, non diverso dal rapporto tra il fatto ingiusto e lo stato d’ira richiamato dall’art. 599, comma secondo, cod. pen.; rapporto che trova conferma nella stessa struttura del delitto di oltraggio, ove si richiede che l’offesa all’onore o al prestigio del pubblico ufficiale avvenga "in presenza di lui e a causa o nell’esercizio delle sue funzioni".
Ove debba essere applicata al delitto di oltraggio, la causa di giustificazione della reazione agli atti arbitrari del pubblico ufficiale ricalca dunque la struttura della provocazione, dalla quale si differenzia per gli elementi specializzanti della qualità di pubblico ufficiale della persona offesa e della conseguente specificità del fatto ingiusto su cui si innesta la reazione, individuato in relazione alle funzioni del soggetto passivo e ai doveri di correttezza, di convenienza e di urbanità che debbono connotare i rapporti tra i pubblici ufficiali ed i privati.
Così delineati i rapporti tra provocazione e reazione agli atti arbitrari, risulta evidente che la presente questione di legittimità costituzionale deve essere risolta mediante una interpretazione, diversa da quella prospettata dal giudice rimettente, idonea a superare i denunciati vizi di incostituzionalità.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara non fondata, nei sensi di cui in motivazione, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 599, comma secondo, del codice penale, sollevata, in riferimento all’art. 3 della Costituzione, dal Pretore di Latina, con l’ordinanza in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 20 aprile 1998.
Presidente: Renato GRANATA
Redattore: Guido NEPPI MODONA
Depositata in cancelleria il 23 aprile 1998.