Sentenza n. 238

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SENTENZA N.238

ANNO 1997

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori Giudici:

- Prof.    Giuliano VASSALLI, Presidente

- Prof.    Francesco GUIZZI              

- Prof.    Cesare MIRABELLI                        

- Prof.    Fernando SANTOSUOSSO                        

- Avv.    Massimo VARI                                

- Dott.   Cesare RUPERTO                            

- Dott.   Riccardo CHIEPPA                         

- Prof.    Gustavo ZAGREBELSKY                         

- Prof.    Valerio ONIDA                                

- Prof.    Carlo MEZZANOTTE                                 

- Avv.    Fernanda CONTRI                           

- Prof.    Guido NEPPI MODONA                           

- Prof.    Piero Alberto CAPOTOSTI             

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 304, comma 3, del codice di procedura penale, promosso con ordinanza emessa il 29 gennaio 1997 dalla Corte d'assise di Torino nel procedimento penale a carico di Alberga Nicola ed altri, iscritta al n. 69 del registro ordinanze 1997 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 9, prima serie speciale, dell'anno 1997.

Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 18 giugno 1997 il Giudice relatore Giuliano Vassalli.

Ritenuto in fatto

1. - Nel corso di un dibattimento a carico di numerosi imputati in stato di custodia cautelare per reati rientranti nella previsione dell'art. 407, comma 2, lettera a), del codice di procedura penale, dibattimento contrassegnato da plurime sospensioni dei termini di custodia cautelare, il Pubblico ministero, all'udienza del 17 gennaio 1997, nel richiedere una nuova sospensione dei detti termini, formulava apposita riserva nei confronti di tre imputati, per l'"insussistenza - secondo la propria valutazione - delle esigenze cautelari", avendo tali imputati offerto una collaborazione in grado di escludere le esigenze di cui all'art. 274, lettera c), del codice di procedura penale.

Nella stessa udienza la difesa dei medesimi imputati chiedeva la revoca della misura cautelare, provvedimento che veniva denegato dalla Corte d'assise sul presupposto della permanente esigenza della pericolosità sociale degli imputati esclusi dalla richiesta di sospensione.

Con ordinanza del 29 gennaio 1997, la Corte d'assise di Torino ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 101 della Costituzione, questione di legittimità dell'art. 304, comma 3, del codice di procedura penale, "nella parte in cui esclude poteri di ufficio del Giudice in tema di sospensione dei termini massimi di custodia cautelare, nella fase dibattimentale".

2. - Premette il giudice a quo che la richiesta del Pubblico ministero é "eccentrica rispetto ai presupposti di legge dell'istituto della sospensione": sia perchè uno dei presupposti é costituito dall'attualità dello stato custodiale in conseguenza del provvedimento di un giudice sia perchè, in caso di difformi valutazioni del pubblico ministero e del giudice in ordine alla pericolosità, dà per scontato che é il giudizio di una parte quello che deve prevalere, sia perchè la sospensione ha per unico obiettivo la permanenza in vinculis di imputati di gravi reati, giudicati pericolosi, in pendenza di dibattimenti particolarmente complessi.

Con la conseguenza - sempre ad avviso del giudice a quo - che davvero incomprensibile si rivela la necessità che il procedimento diretto alla sospensione debba essere attivato dal pubblico ministero, non potendo il giudice, di ufficio, accertare i presupposti richiesti dall'art. 304 del codice di procedura penale, presupposti tutti, peraltro, di agevole verifica.

Una situazione, dunque, profondamente diversa tanto dall'esercizio del potere cautelare quanto dall'istituto della proroga dei termini, entrambi iscrivibili alla fase delle indagini preliminari, fase nella quale il giudice esercita esclusivamente poteri di controllo sull'attività del pubblico ministero.

Un potere, quello attribuito ad una parte, che dà luogo a trattamenti processuali differenziati, nonostante l'identità delle situazioni poste a confronto; inserendosi erroneamente fra i presupposti condizionanti la sospensione "il comportamento processuale collaborativo" dell'imputato che può incidere soltanto sulle condizioni per la revoca della misura, condizioni che solo il giudice é tenuto a valutare.

In più l'inoperatività della sospensione per taluni degli imputati, in forza della richiesta del Pubblico ministero, comportando l'imminente decorrenza dei termini di custodia, verrebbe ad incidere, compromettendone l'osservanza, anche sul precetto di cui all'art. 101, secondo comma, della Costituzione.

3. - E' intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione venga dichiarata inammissibile per irrilevanza, data l'erroneità del presupposto interpretativo da cui muove il giudice a quo: quello cioé che il provvedimento di sospensione dei termini di custodia cautelare possa dar luogo a posizioni individuali differenziate. Tale assunto é smentito dalla costante interpretazione giurisprudenziale, potendo una simile differenziazione operare soltanto nei confronti di imputati ai quali i casi di sospensione non si riferiscono e che chiedono che si proceda nei loro confronti previa separazione dei processi.

Nella specie, quindi, trattandosi, fra l'altro, di provvedimento di sospensione, preceduto da altri provvedimenti dello stesso tipo, la mancata richiesta nei confronti di taluni degli imputati non sarà di ostacolo all'operatività della sospensione anche nei confronti di quelli per i quali la sospensione non é stata richiesta "senza necessità di instaurare un ulteriore sub-procedimento attivato da una nuova richiesta del p.m." e quali che possano essere le determinazioni del giudice a quo in ordine alla esistenza delle esigenze cautelari nei confronti di ciascun imputato.

Considerato in diritto

1. - La Corte d'assise di Torino dubita, in riferimento agli artt. 3 e 101 della Costituzione, della legittimità dell'art. 304, comma 3, del codice di procedura penale, "nella parte in cui esclude poteri d'ufficio del Giudice in tema di sospensione dei termini massimi di custodia cautelare nella fase dibattimentale".

Più in particolare, il giudice a quo nel corso del dibattimento a carico di numerose persone, in vinculis per reati compresi nella previsione dell'art. 407, comma 2, lettera a), del codice di procedura penale, e riguardo alle quali aveva, su richiesta del Pubblico ministero, con reiterati provvedimenti, disposto la sospensione dei termini di custodia per la "particolare complessità del dibattimento", di fronte ad una ulteriore richiesta di sospensione del Pubblico ministero che eccettuava dall'effetto sospensivo tre degli imputati per l'assenza nei loro confronti delle esigenze cautelari, ritenendosi vincolato a tale richiesta, ha sollevato la questione di legittimità sopra indicata.

Da ciò si evince che, pur sembrando l'ordinanza di rimessione investire l'art. 304, comma 3, nel suo integrale contenuto precettivo avente ad oggetto i poteri del giudice in presenza della richiesta di sospensione dei termini da parte del pubblico ministero, l'effettivo petitum perseguito risulta incentrato sulla illegittimità dell'ineludibile alternativa derivante dalla richiesta parziale, cui conseguirebbe o la corrispondente sospensione parziale dei termini ovvero il rigetto della domanda di sospensione.

E pur osservando che, alla stregua della giurisprudenza della Corte di cassazione, l'istituto della sospensione dei termini, fondandosi sul dato oggettivo della sospensione del dibattimento, non può che riferirsi "a tutti i soggetti partecipi, anche per le connessioni di vario tipo, insite nell'intreccio di incolpazioni correlate e accomunanti" senza che possa farsi luogo, nell'ipotesi prevista dai commi 2 e 3 dell'art. 304, "al riconoscimento di posizioni individuali differenziate"- nessun discrimine essendo possibile alla stregua della normativa denunciata - ritiene però di essere "impedita a pronunciarsi dall'inattività" del Pubblico ministero.

Nonostante ciò, l'ordinanza di rimessione afferma la rilevanza - donde una qualche contraddittorietà nei suoi enunciati - della questione sollevata solo nei confronti degli imputati relativamente ai quali il Pubblico ministero ha espressamente omesso di formulare la richiesta di sospensione, perchè con riferimento agli altri imputati il Pubblico ministero "é, invece, ancora in grado di determinarsi altrimenti, essendo l'istituto della sospensione applicabile in ogni momento del procedimento".

2. - La questione non é fondata.

Il presupposto interpretativo da cui muove il giudice a quo risulta, infatti, erroneo in quanto fondato su una non corretta lettura del disposto dell'art. 304, commi 2 e 3, del codice di procedura penale.

3. - Appare opportuno precisare come l'istituto della sospensione dei termini di custodia cautelare ha la sua genesi nelle diverse stesure dell'art. 272, settimo comma, dell'abrogato codice di rito, l'ultima delle quali, quella derivante dall'art. 1 della legge 17 febbraio 1987, n. 29, prevedeva che i termini di durata della custodia cautelare rimangono sospesi durante il tempo in cui l'imputato é sottoposto ad osservazione psichiatrica e, nella fase del giudizio, durante il tempo in cui il dibattimento é sospeso o rinviato per legittimo impedimento dell'imputato o per consentirne la partecipazione all'udienza quando in precedenza egli ha rifiutato di assistervi, ovvero a richiesta sua o del difensore, sempre che la sospensione o il rinvio non siano stati disposti per esigenze istruttorie ritenute indispensabili con espresse indicazioni nel provvedimento di sospensione o di rinvio. Come ulteriore ipotesi di sospensione veniva contemplata, infine, quella operante nella fase del giudizio, per il tempo in cui il dibattimento deve essere rinviato o sospeso, a causa della mancata presentazione, dell'allontanamento o della mancata partecipazione al dibattimento di uno o più difensori.

4. - L'art. 2, numero 61, della legge-delega 16 febbraio 1987, n. 81, dopo aver prescritto la previsione, per ciascuna fase processuale, di termini autonomi di custodia cautelare ed aver dettato le direttive in tema di proroga della custodia cautelare, introduceva nella sua terza sub-direttiva la "previsione che i termini di durata massima delle misure possano essere sospesi durante il dibattimento in relazione allo svolgimento e alla complessità dello stesso nonchè a differimenti processuali non imposti da esigenze istruttorie e determinati da fatti riferibili all'imputato o al suo difensore".

Alla detta direttiva venne data attuazione, per la parte concernente la sospensione dei termini di durata massima di custodia cautelare, con l'art. 304 del codice, contemplante, nella sua versione originaria, due ordini di provvedimenti di sospensione dei termini. L'uno, quello previsto dal comma 1, quasi estrapolato dall'art. 272, settimo comma, cod. proc. pen. 1930, dettato dall'intento di prevenire eventuali comportamenti dilatori diretti ad ottenere la scarcerazione (lettera a)), o di precludere che comportamenti anche pienamente legittimi dei difensori potessero anticipare la scarcerazione dell'imputato (lettera b)).

L'altro, previsto nei commi 2 e 3 dell'articolo e scaturente dall'ultima parte della sub-direttiva sopra ricordata, contemplava (e contempla tuttora, dato che il testo originario non é stato oggetto di modifiche di sorta) la possibilità di sospensione dei termini di durata massima della custodia cautelare, nella fase del giudizio, quando si tratti di reati indicati nell'art. 407, comma 2, lettera a) (una norma oggetto, peraltro, di plurime stesure rispetto al testo originario, dapprima ad opera dell'art. 6 del decreto-legge 8 giugno 1992, n. 306, convertito dalla legge 7 agosto 1992, n. 356, e successivamente ad opera dell'art. 21 della legge 8 agosto 1995, n. 332), nel caso di dibattimenti particolarmente complessi, durante il tempo in cui si sono tenute le udienze o si delibera la sentenza nel giudizio di primo grado o nel giudizio di impugnazione.

Alla diversità delle previsioni rispettivamente contemplate dal comma 1 e dai commi 2 e 3 dell'art. 304 fa da riscontro una differenziata disciplina processuale.

La sospensione prevista dall'art. 304, comma 1, consegue pressochè di diritto al verificarsi degli eventi da esso indicati e senza che venga richiesta alcuna iniziativa del pubblico ministero. Il relativo provvedimento viene così ad assumere i connotati dell'atto vincolato in presenza delle condizioni richieste dalla legge.

Per la sospensione prevista dall'art. 304, comma 2, invece, la quale deriva da situazioni oggettive che devono essere verificate da parte del giudice (particolare complessità del dibattimento), così da atteggiare il detto provvedimento come ascrivibile alla categoria di quelli a discrezionalità vincolata, la legge richiede l'apposita richiesta del pubblico ministero (comma 3 dell'articolo).

Rimasta, come si é visto, pressochè immutata la disciplina della sospensione su richiesta, una prima integrazione ha attinto il comma 1 dell'art. 304: l'introduzione della lettera b)-bis, poi divenuta c), ad opera dell'art. 4 del decreto-legge 1° marzo 1991, n. 60, convertito nella legge 22 aprile 1991, n. 133, che ha contemplato la sospensione durante la pendenza dei termini previsti dagli artt. 544, commi 2 e 3, quelli, cioé necessari per la stesura della motivazione della sentenza.

Le innovazioni di maggiore significato apportate al testo dell'art. 304 del codice di procedura penale attengono sempre alle ipotesi che si sono definite di sospensione vincolata. L'art. 15 della legge n. 332 del 1995 ha, infatti, da un lato, esteso il regime della sospensione dei termini (questa volta, ovviamente, di fase) all'udienza preliminare, se questa é sospesa o rinviata per taluno dei casi indicati dal comma 1, lettere a) e b). Ma la più significativa delle innovazioni é nella previsione che l'operatività dei casi di sospensione ora ricordati (quelli, cioé, previsti dall'art. 304, comma 1, lettere a) e b)), resta preclusa nei confronti dei coimputati "ai quali i casi di sospensione non si riferiscono e che chiedono che si proceda nei loro confronti previa separazione dei processi".

5. - Così riassunto il quadro normativo ora vigente in forza delle "novellazioni" conclusesi con la legge n. 332 del 1995, é possibile pervenire ad una prima essenziale conclusione: e cioé che la disciplina processuale delle ipotesi previste dal primo (e dal quarto) comma e di quelle previste dal secondo e dal terzo comma dell'art. 304 differiscono profondamente.

A parte la necessaria richiesta del pubblico ministero che contrassegna la sospensione da ultimo ricordata, la ratio a fondamento di essa risulta designata esclusivamente da due presupposti: la particolare complessità del dibattimento ed il rientrare i reati contestati nella previsione dell'art. 407.

Ma se, per un verso, può senz'altro dubitarsi della effettiva coerenza della scelta legislativa di trasferire l'apprezzamento di simili presupposti in capo al pubblico ministero al punto da averlo configurato alla stregua di titolare esclusivo del potere di iniziativa in ordine al provvedimento di sospensione, considerata, da un lato, la specifica e già segnalata natura "oggettiva" di quei parametri di valutazione e, dall'altro, la circostanza che gli stessi ruotano attorno alle esigenze connesse alla gestione di una fase ormai riservata all'organo del dibattimento, resta il fatto - assorbente agli effetti del presente giudizio - che una volta compiuto un simile apprezzamento e, dunque, esercitato il potere di richiesta, tale potere finisce per assumere connotazioni ontologicamente "inscindibili" proprio perchè ancorato al processo nella sua globalità e non a singole posizioni cautelari. Qualsiasi diverso enunciato che pretendesse di circoscrivere la portata della richiesta del pubblico ministero a parte degli imputati o a parte delle imputazioni, finirebbe quindi ineluttabilmente per introdurre - come il caso di specie é emblematico esempio - parametri e finalità del tutto eterogenei rispetto alla funzione dell'istituto, con evidente compromissione delle esigenze che il legislatore ha inteso salvaguardare.

6. - Tutto ciò risulta, del resto, confermato dalla giurisprudenza della Corte di cassazione, costante nel ritenere che la sospensione di cui all'art. 304, commi 2 e 3, presuppone la difficoltà del dibattimento nel suo complesso e fa astrazione dalle posizioni dei singoli imputati.

Questa linea é stata ulteriormente ribadita con la introduzione dell'art. 304, comma 5, ad opera dell'art. 15 della legge n. 332 del 1995 che - nel consentire per i casi previsti dal comma 1, lettere a) e b), del medesimo articolo l'inapplicabilità della sospensione nei confronti degli imputati ai quali i casi di sospensione non si riferiscono e che chiedono che si proceda nei loro confronti previa separazione dei processi - ha tracciato un ulteriore decisivo discrimine tra le due ipotesi di sospensione.

Così potendosi ripetere relativamente alla sospensione disciplinata dai commi 2 e 3 dell'art. 304, per un verso, che la facoltà consentita al giudice dal comma 2 dell'art. 304 cod. proc. pen., non può comportare, ove effettivamente esercitata, distinzioni individuali fra imputati nel processo, semprechè raggiunti da imputazioni fra quelle di cui all'art. 407, comma 2, lett. a), attenendo alla obiettiva complessità particolare del dibattimento e cioé ad una situazione collettiva (o cumulativa) comune a tutti i soggetti partecipi, anche per le condizioni di connessione di vario tipo insite nell'intreccio di incolpazioni correlate ed accomunanti, cosicchè il richiamo al dato obiettivo della complessità del dibattimento é ostativo al riconoscimento di posizioni individuali differenziate; per un altro verso, che il tema della sospensione prescinde da quello delle esigenze cautelari il cui venir meno potrà essere fatto valere dagli imputati soltanto con il chiedere la revoca della misura.

7. - Si deve, dunque, concludere nel senso che la stessa richiesta di sospensione del pubblico ministero che contenga limitazioni all'operatività della sospensione stessa, deviando così dal quadro normativo predisposto dall'art. 304, commi 2 e 3, é da ritenere del tutto estranea alla disciplina legislativa. Tale illegittimità, peraltro, mentre non é in grado di viziare (in base al principio utile per inutile non vitiatur) la domanda nel suo complesso, consente al giudice di provvedere secondo il modello legislativo, in tal modo pervenendo, nei sensi previsti dall'art. 304, comma 2, alla sospensione dei termini di custodia cautelare senza l'apposizione di condizioni o di limitazioni di sorta.

Così interpretata, la norma denunciata si sottrae agli addebiti di illegittimità costituzionale formulati dal giudice a quo.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 304, comma 3, del codice di procedura penale, sollevata, in riferimento agli artt. 3 e 101 della Costituzione, dalla Corte d'assise di Torino con l'ordinanza indicata in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 19 giugno 1997.

Presidente: Giuliano VASSALLI

Redattore: Giuliano VASSALLI

Depositata in cancelleria il 13 luglio 1997.