Sentenza n. 80

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SENTENZA N. 80

ANNO 1997

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori Giudici:

- Prof. Giuliano VASSALLI, Presidente

- Prof. Francesco GUIZZI

- Prof. Cesare MIRABELLI

- Avv. Massimo VARI

- Dott. Cesare RUPERTO

- Dott. Riccardo CHIEPPA

- Prof. Gustavo ZAGREBELSKY

- Prof. Valerio ONIDA

- Prof. Carlo MEZZANOTTE

- Avv. Fernanda CONTRI                             

- Prof. Guido NEPPI MODONA       

- Prof. Piero Alberto CAPOTOSTI "

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nei giudizi di legittimità costituzionale dell'art. 269, secondo comma, del codice di procedura civile, promossi con due ordinanze emesse il 19 febbraio 1996 ed il 18 marzo 1996 dal Pretore di Parma nei procedimenti civili vertenti tra A. Due s.r.l. di Squeri Donato e Progeco Engineering s.r.l. ed altra e tra Berchi s.r.l. e Spagni Nelson, iscritte ai nn. 436 e 510 del registro ordinanze 1996 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn. 21 e 23, prima serie speciale, dell'anno 1996.

  Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

  udito nella camera di consiglio del 12 febbraio 1997 il Giudice relatore Fernanda Contri.

Ritenuto in fatto

  1. -- Nel corso di un procedimento civile avente ad oggetto il pagamento di somme di denaro, il Pretore di Parma, con ordinanza del 19 febbraio 1996, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'art. 269, secondo comma, del codice di procedura civile, nella parte in cui non prevede che la chiamata in causa di un terzo ad opera del convenuto sia autorizzata dal giudice istruttore.

  Osserva il remittente che la normativa contenuta negli artt. 269 e 271 del codice di procedura civile, la quale non attribuisce al giudice alcun potere di delibazione in ordine alla sussistenza dei presupposti per la chiamata in causa del terzo quando questa sia effettuata dal convenuto e, per contro, sottopone ad autorizzazione la medesima istanza formulata dall'attore o dai terzi già chiamati, determina una ingiustificata disparità di trattamento fra le parti, in contrasto con gli artt. 3 e 24 della Costituzione.

  2. -- Nel giudizio é intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura dello Stato, che ha concluso per la infondatezza della questione.

  A parere dell'Avvocatura, non potrebbe in primo luogo escludersi un sindacato del giudice sulla chiamata in causa richiesta dal convenuto, allorchè, nel provvedere con decreto allo spostamento della prima udienza per consentire la citazione del terzo, rilevi il carattere pretestuoso dell'intento dichiarato dal convenuto. La diversità di trattamento risulta, poi, secondo l'Avvocatura, pienamente giustificata in relazione alla differente posizione delle parti: infatti, l'autorizzazione alla chiamata in causa richiesta dall'attore postula la verifica da parte del giudice che l'esigenza di chiamare il terzo sia effettivamente sorta a seguito delle difese del convenuto, e ciò al fine di impedire un ampliamento tardivo dei soggetti del giudizio. Inoltre, quella stessa possibilità che ha l'attore, in sede di instaurazione del procedimento, di chiamare in causa tutti i soggetti che ritenga necessari al giudizio é riconosciuta al convenuto al momento della sua costituzione, sì che non vi é motivo di prevedere un controllo del giudice.

  3. -- Con ordinanza emessa il 18 marzo 1996 nel corso di altro procedimento civile, il medesimo Pretore di Parma ha sollevato identica questione di legittimità costituzionale dell'art. 269, secondo comma, del codice di procedura civile.

  4. -- Anche in questo giudizio é intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, svolgendo argomentazioni identiche a quelle già indicate.

Considerato in diritto

  1. -- Con due distinte ordinanze il Pretore di Parma ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell'art. 269, secondo comma, del codice di procedura civile, nella parte in cui non prevede che la chiamata in causa di un terzo ad opera del convenuto sia autorizzata dal giudice istruttore.

  Poichè le due ordinanze sollevano una identica questione di legittimità costituzionale, i relativi giudizi devono riunirsi per essere decisi con un'unica sentenza.

  2. -- Ad avviso del giudice remittente, la norma denunciata contrasterebbe con gli artt. 3 e 24 della Costituzione, per la irragionevole e ingiustificata disparità di trattamento operata tra le parti del processo in relazione alla chiamata in causa del terzo, la quale può essere liberamente effettuata dal convenuto senza necessità di autorizzazione del giudice, mentre la medesima istanza formulata dall'attore é sottoposta al sindacato di ammissibilità del giudice.

  3. -- La questione é infondata.

  L'art. 269, secondo comma, del codice di procedura civile pone a carico del convenuto, che intenda chiamare un terzo in causa, l'onere di farne dichiarazione nella comparsa di risposta e di chiedere contestualmente al giudice istruttore lo spostamento della prima udienza allo scopo di consentire la citazione del terzo, stabilendo che il giudice provveda con decreto a fissare la data della nuova udienza.

  La forma stessa di decreto, che caratterizza il provvedimento, mediante il quale il giudice, senza necessità di contraddittorio, fissa la data della nuova udienza, certamente dimostra che in questo momento, nel quale non viene sentito l'attore, non può essere esercitato alcun potere valutativo intorno all'esistenza dei presupposti della chiamata in causa. Tuttavia, contrariamente a quanto ritenuto dal giudice remittente, non é priva di ragionevolezza la previsione della insindacabile facoltà per il convenuto, all'atto della sua prima difesa, di estendere l'ambito soggettivo del processo, ove si consideri che l'attore per primo ha facoltà di convenire in giudizio qualunque soggetto, senza limitazioni di sorta e senza necessità, ovviamente, di autorizzazione alcuna.

  Per verificare che sia garantita alle parti un'identità di trattamento, la comparazione dei poteri ad esse attribuiti deve essere eseguita con riferimento ad uno stesso momento processuale, il quale, nella fattispecie, é da individuarsi nell'atto in cui ciascuna parte espone introduttivamente le proprie ragioni: in questo momento le parti devono essere poste in grado di compiere le medesime attività con eguali poteri. Ed in effetti, nell'indicato momento, la posizione dell'attore, che può liberamente scegliere i soggetti da convenire in giudizio, é del tutto corrispondente a quella del convenuto, cui é esattamente e correlativamente riconosciuta la facoltà di chiamare in causa qualsivoglia terzo, al quale ritenga comune la causa o dal quale pretenda essere garantito.

  Una volta così definito il thema decidendum, qualunque altra istanza difensiva non può non essere sottoposta al controllo del giudice, al quale é rimessa sia la valutazione della utilità processuale, sia il controllo della tempestività della richiesta, particolarmente incisivo nell'attuale regime di preclusioni.

  Ed é proprio in tale successiva fase che si colloca la domanda dell'attore di chiamare in causa un terzo, chiamata che, a norma del terzo comma dell'art. 269 del codice di procedura civile, può essere autorizzata dal giudice solo se l'interesse dell'attore alla chiamata sia sorto a seguito delle difese svolte dal convenuto nella comparsa di risposta.

  Lo spirito informatore delle nuove disposizioni processuali, quale risulta, particolarmente, dallo schema delle preclusioni delineato negli artt. 163 e seguenti del codice di procedura civile, giustifica che la proposizione di una domanda ulteriore nei confronti di una nuova parte del processo, nella quale si sostanzia la chiamata in causa ad opera dell'attore, sia sottoposta ad autorizzazione del giudice, che dovrà verificare se l'estensione del contraddittorio sollecitata dall'attore derivi effettivamente e necessariamente dalle difese del convenuto e non sia invece uno strumento surrettizio per modificare impropriamente la domanda originariamente proposta.

  Ricondotta la questione nei termini delineati, é di tutta evidenza come le parti siano poste in una situazione di perfetta parità, essendo loro attribuite le medesime facoltà in relazione al medesimo momento processuale, cui deve farsi riferimento nella comparazione.

  Onde l'infondatezza dei dedotti profili di illegittimità costituzionale.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

riuniti i giudizi,

  dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 269, secondo comma, del codice di procedura civile, sollevata, in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione, dal Pretore di Parma con le ordinanze indicate in epigrafe.

  Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 24 marzo 1997.

Giuliano VASSALLI, Presidente

Fernanda CONTRI, Redattore

Depositata in cancelleria il 3 aprile 1997.