SENTENZA N. 353
ANNO 1996
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori Giudici:
- Avv. Mauro FERRI, Presidente
- Prof. Luigi MENGONI
- Prof. Enzo CHELI
- Dott. Renato GRANATA
- Prof. Giuliano VASSALLI
- Prof. Francesco GUIZZI
- Prof. Cesare MIRABELLI
- Prof. Fernando SANTOSUOSSO
- Avv. Massimo VARI
- Dott. Cesare RUPERTO
- Dott. Riccardo CHIEPPA
- Prof. Gustavo ZAGREBELSKY
- Prof. Valerio ONIDA
- Prof. Carlo MEZZANOTTE
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nei giudizi di legittimità costituzionale degli artt. 46, comma 3, 47 e 49 del codice di procedura penale, promossi con ordinanze emesse il 12 dicembre 1995 dalla Corte d'appello di Trieste e il 9 gennaio 1996 dal Tribunale di Trieste, nei procedimenti penali a carico di Pahor Samo, rispettivamente iscritte ai nn. 140 e 208 del registro ordinanze 1996 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn. 9 e 11, prima serie speciale, dell'anno 1996.
Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio del 15 maggio 1996 il Giudice relatore Francesco Guizzi.
Ritenuto in fatto
1. -- Nel procedimento penale a carico di Pahor Samo la Corte d'appello di Trieste ha sollevato questione di legittimità costituzionale degli artt. 46, comma 3, 47 e 49 del codice di procedura penale. In precedenza, con atti del 9 marzo e del 5 ottobre 1993, l'imputato aveva proposto due istanze di rimessione del procedimento, rigettate dalla Corte di cassazione con sentenze del 5 maggio 1993 e 19 gennaio 1994; malgrado ciò, egli aveva reiterato l'istanza, sulla base di <fatti nuovi>, sollecitando il Collegio a promuovere il giudizio di legittimità costituzionale, conclusosi con la sentenza d'inammissibilità n.460 del 1995 di questa Corte. Avendo il Samo <confermato e ribadito> (all'udienza del 12 dicembre 1995) detta istanza, la Corte triestina ha quindi sollevato la presente questione.
Osserva il giudice a quo che la Corte di cassazione ha sempre escluso ogni possibilità di sindacato da parte del giudice di merito sull'ammissibilità dell'istanza, anche nel caso (come quello in esame) in cui vi sia una reiterazione della richiesta basata su motivi <solo apparentemente nuovi>. Sì che, considerando l'evidente uso strumentale della riproposizione, la Corte d'appello di Trieste ha sollevato - per contrasto con il principio di obbligatorietà dell'azione penale sancito dall'art.112 della Costituzione - questione di legittimità costituzionale dei citati articoli del codice di procedura penale, senza peraltro nascondere la finalità ulteriore di "sterilizzare", con l'incidente di costituzionalità, il termine prescrizionale del reato, in modo da evitare che l'imputato si sottragga al giudizio. E pur non ignorando il contenuto della citata sentenza n. 460, con specifico riguardo al principio costituzionale di obbligatorietà dell'azione penale, il Collegio rimettente rileva come l'accenno al bene (costituzionalmente protetto) dell'efficienza del processo penale, ivi evocato, dovrebbe indurre il giudice delle leggi a estendere la portata del richiamato principio oltre il momento dell'impulso processuale, fino alla soglia della sentenza.
Di qui, la lesione dell'art. 101, secondo comma, della Costituzione, poichè il giudice non sarebbe soggetto soltanto alla legge, ma anche alle iniziative dell'imputato; degli artt. 3 e 97, sia per intrinseca irragionevolezza, sia per violazione dei principi di uguaglianza e del buon andamento dell'amministrazione; e dell'art. 25, primo comma, per la possibilità, data all'imputato, di sottrarsi al giudice naturale con una tecnica elusiva finalizzata alla prescrizione dei reati.
2. -- E' intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura dello Stato, che - riportandosi all'atto d'intervento depositato in occasione del giudizio definito con la sentenza n. 460 del 1995 - ha concluso per l'inammissibilità o, in subordine, per l'infondatezza della questione.
Osserva l'Avvocatura che, spinto alle conseguenze estreme, il meccanismo della rimessione potrebbe determinare gli effetti negativi prospettati nell'ordinanza della Corte d'appello. Ma essi non discenderebbero dalla mancata attribuzione al giudice di merito del sindacato sull'istanza di rimessione, poichè nulla impedirebbe all'imputato - dopo la declaratoria di inammissibilità della prima richiesta - di riproporla sulla base di motivi anche solo apparentemente nuovi, in modo da impedire di emettere la sentenza. L'inconveniente segnalato potrebbe essere risolto stabilendo un sistema di preclusioni, o consentendo al giudice di merito la decisione del processo, in attesa della pronuncia sulla rimessione, oppure - nelle ipotesi di rigetto o di inammissibilità dell'istanza - non computando nei termini di prescrizione il periodo in cui il giudizio rimane sospeso.
Sebbene esista un problema applicativo, la questione sarebbe erroneamente formulata: sia perchè non risulta censurata la norma che disciplina il termine di prescrizione dei reati, sia perchè si chiederebbe alla Corte una sentenza in una materia che attiene alla discrezionalità del legislatore.
3. -- Nel corso di altro procedimento penale, a carico dello stesso imputato, il Tribunale di Trieste ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell'art. 47 del codice di procedura penale per violazione degli artt. 3, 97, primo comma, e 101, primo comma, della Costituzione.
Per <pretesi nuovi motivi>, l'imputato aveva riproposto, ai sensi degli artt. 45 e ss. del codice di procedura penale, l'istanza di rimessione già formulata nel corso del dibattimento (alle udienze del 9 novembre 1992, 8 novembre 1993 e 11 gennaio 1995), per tre volte respinta o dichiarata inammissibile dalla Corte di cassazione.
Osserva il Tribunale che l'approssimarsi della prescrizione non discende tanto dalla mancanza d'una norma che attribuisca al giudice di merito il potere delibatorio sull'ammissibilità o fondatezza della questione, quanto dal rigido divieto di pronunciare sentenza <fino a che non sia intervenuta l'ordinanza che dichiara inammissibile o rigetta la richiesta>: divieto introdotto nel nuovo codice di procedura penale, con l'art. 47, e ignoto al codice abrogato nel 1989. Onde l'ineludibile contrasto di tale articolo con gli artt. 3, 97 e 101 della Costituzione.
4. -- Anche con riferimento a questo giudizio e' intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, concludendo come sopra.
Considerato in diritto
1. -- Viene riproposta all'esame di questa Corte la questione di legittimità costituzionale riguardante un aspetto del regime giuridico della rimessione dei procedimenti, nell'ambito del processo penale, già considerata dalla sentenza n. 460 del 1995. La Corte d'appello di Trieste dubita, in particolare, della legittimità costituzionale degli artt. 46, comma 3, 47 e 49 del codice di procedura penale, che favorirebbero il decorso del termine di prescrizione dei reati, consentendo all'imputato di riproporre (teoricamente ad libitum) una richiesta di rimessione del procedimento basata, anche solo in apparenza, su motivi nuovi. Le disposizioni menzionate sarebbero in contrasto con l'art. 112 della Costituzione, per lesione del principio di obbligatorietà dell'azione penale; con l'art. 101, secondo comma, poichè il giudice non sarebbe soggetto soltanto alla legge, ma anche alle iniziative dell'imputato; con gli artt. 3 e 97, sia per l'intrinseca irragionevolezza di detto meccanismo, sia per violazione dei principi di uguaglianza e di buon andamento dell'amministrazione;
e, infine, con l'art. 25, primo comma, per la possibilità data all'imputato di sottrarsi, con tecnica elusiva finalizzata alla prescrizione dei reati, al giudice naturale.
Per le medesime ragioni, il Tribunale della stessa città denuncia, in riferimento agli artt. 3, 97 e 101 della Costituzione, l'art. 47 del codice di procedura penale, nella parte in cui fa divieto di pronunciare sentenza <fino a che non sia intervenuta l'ordinanza della Cassazione che dichiara inammissibile o rigetta la richiesta>.
2. -- Prospettate le questioni in termini pressochè identici, sebbene i dati normativi non siano esattamente sovrapponibili, i giudizi vanno riuniti per essere congiuntamente trattati.
3. -- Già investita di analoga censura, questa Corte ha pronunciato, con la sentenza n. 460 del 1995, una declaratoria d'inammissibilità, rilevando l'imprecisa denuncia della normativa processuale e l'erronea indicazione del parametro nell'art. 112 della Costituzione, ma si e' detta nel contempo consapevole degli <inconvenienti lamentati dal giudice a quo> e, cioé, tanto della <possibilità di un uso distorto della riproposizione, a fini dilatori, della richiesta di rimessione>, quanto dell'obbligo <per il giudice di merito di fermarsi, ai sensi dell'art. 47, comma 1, del codice di rito, alle soglie della sentenza> (cfr. la citata sentenza n. 460 del 1995).
3.1. -- Individuata esattamente la norma, la questione e' fondata.
Entrambe le ordinanze censurano, invero correttamente (la Corte d'appello solo in parte qua), l'art. 47, comma 1, del codice di procedura penale, vale a dire la disposizione che rende possibile il lamentato abuso della rimessione.
Pur non trattandosi di un nuovo istituto, quello introdotto dal codice di procedura penale del 1988 e' uno strumento processuale che contiene una rilevante novità: mentre nella precedente disciplina si stabiliva, con l'art. 57, che il procedimento per rimessione non sospendeva l'istruzione o il giudizio (salvo ordinanza di sospensione della Corte di cassazione), in quella attuale si e' invece inserito il divieto di <pronunciare sentenza fino a che non sia intervenuta l'ordinanza che dichiara inammissibile o rigetta la richiesta>.
Sotto il vigore del vecchio codice furono rare, significativamente, le decisioni della Corte di cassazione al riguardo e, fra le poche, nessuna mise in discussione il potere del giudice di merito di pronunciare la sentenza. La conseguenza naturale di questo mancato divieto consisteva nella non "dannosità" di qualsivoglia reiterazione dell'istanza di rimessione (in caso d'una precedente richiesta dichiarata inammissibile o infondata dalla Cassazione), perchè non preclusiva della decisione del giudizio di merito.
Nel pur apprezzabile disegno di razionalizzazione del processo davanti al iudex suspectus, il legislatore ha voluto che - pendente il giudizio di rimessione - l'effetto sospensivo si produca automaticamente, e al momento della decisione del processo operi una preclusione per il giudice del dibattimento.
L'innovazione risponde all'esigenza d'un razionale contemperamento dei principi di economia processuale e di terzietà del giudice: e' infatti la regola che non si sospenda il processo, in seguito all'istanza di rimessione, mentre e' a fondamento dell'istituto il potere di decidere conferito al giudice che e' estraneo agli interessi in gioco. Ma nell'innovare non si e' tenuto conto degli eventuali abusi derivanti dalla riproposizione della richiesta su cui la Cassazione si sia già espressa con una declaratoria di inammissibilità o di rigetto.
Ciò e' quanto testimoniano le ordinanze dei Collegi triestini, nelle quali si sottolinea l'uso scopertamente dilatorio della richiesta avanzata ex artt. 46 e ss. del codice di procedura penale e finalizzata ad allontanare nel tempo la decisione di merito, con l'effetto d'una probabile prescrizione dei reati e di un inevitabile riflesso negativo sul precario stato di efficienza dell'amministrazione giudiziaria.
3.2. -- La questione sollevata dalle due ordinanze, che denunciano l'effetto irrazionale dell'art. 47, comma 1, in relazione all'uso distorto della reiterazione dell'istanza di rimessione ex art. 49 del codice di procedura penale, e' fondata alla luce dell'art. 3 della Costituzione.
L'equilibrio fra i principi di economia processuale e di terzietà del giudice e' infatti solo apparente nella ponderazione codicistica, posto che il possibile abuso processuale determina la paralisi del procedimento, tanto da compromettere il bene costituzionale dell'efficienza del processo, qual e' enucleabile dai principi costituzionali che regolano l'esercizio della funzione giurisdizionale, e il canone fondamentale della razionalità delle norme processuali.
Pienamente libero nella costruzione delle scansioni processuali, il legislatore non può tuttavia scegliere, fra i possibili percorsi, quello che comporti, sia pure in casi estremi, la para lisi dell'attività processuale, perchè impedendo sistematicamente tale attività, mediante la riproposizione dell'istanza di rimessione, si finirebbe col negare la stessa nozione del processo e si contribuirebbe a recare danni evidenti all'amministrazione della giustizia.
Occorre, allora, rimuovere la fonte di tali rischi, dichiarando l'illegittimità costituzionale dell'art. 47, comma 1, del codice di procedura penale, nella parte in cui fa divieto al giudice di pronunciare la sentenza fino a che non sia intervenuta l'ordinanza che dichiara inammissibile o rigetta la richiesta.
A parte il parametro inadeguato, costituito dall'art. 112, già oggetto di esame nella sentenza n. 460 del 1995, gli altri (artt. 25 e 101 della Costituzione) restano assorbiti nelle considerazioni esposte sopra.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
riuniti i giudizi, dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 47, comma 1, del codice di procedura penale, nella parte in cui fa divieto al giudice di pronunciare la sentenza fino a che non sia intervenuta l'ordinanza che dichiara inammissibile o rigetta la richiesta di rimessione.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 14/10/96.
Mauro FERRI , Presidente
Francesco GUIZZI, Redattore
Depositata in cancelleria il 22/10/96.