Ordinanza n. 275 del 1996

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ORDINANZA N. 275

ANNO 1996

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori Giudici:

-     Avv. Mauro FERRI, Presidente

-     Prof. Enzo CHELI

-     Dott. Renato GRANATA

-     Prof. Giuliano VASSALLI

-     Prof. Cesare MIRABELLI

-     Prof. Fernando SANTOSUOSSO

-     Avv. Massimo VARI

-     Dott. Cesare RUPERTO

-     Dott. Riccardo CHIEPPA

-     Prof. Gustavo ZAGREBELSKY

-     Prof. Valerio ONIDA

-     Prof. Carlo MEZZANOTTE

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

nei giudizi di legittimità costituzionale dell'art. 2 della legge 31 maggio 1965, n. 575 (Disposizioni contro la mafia) come modificato dall'art. 22, comma 01, del decreto-legge 8 giugno 1992, n. 306 (Modifiche urgenti al nuovo codice di procedura penale e provvedimenti di contrasto alla criminalità mafiosa), convertito, con modificazioni, nella legge 7 agosto 1992, n. 356, promossi con n. 3 ordinanze emesse il 5 maggio 1995, il 28 aprile 1995 e il 22 settembre 1995 dal Tribunale di Napoli, rispettivamente iscritte ai nn. 488, 489 e 840 del registro ordinanze 1995 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn. 38 e 50, prima serie speciale, dell'anno 1995.

Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 12 giugno 1996 il Giudice relatore Gustavo Zagrebelsky.

RITENUTO che con ordinanza del 28 aprile 1995 (R.O. 489 del 1995) il Tribunale di Napoli ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell'art. 2 della legge 31 maggio 1965, n. 575 (Disposizioni contro la mafia), nel testo modificato, da ultimo, dall'art. 22, comma 01, del decreto-legge 8 giugno 1992, n. 306, convertito, con modificazioni, nella legge 7 agosto 1992, n. 356, in riferimento agli articoli 3 e 97 della Costituzione;

che la norma è censurata dal Tribunale nella parte in cui attribuisce la facoltà di promuovere il procedimento per l'applicazione di misure di prevenzione nei confronti di persone indiziate di appartenenza ad associazioni di tipo mafioso, al procuratore della Repubblica presso il tribunale nel cui circondario dimora la persona anziché al procuratore della Repubblica presso il tribunale del capoluogo del distretto in cui ricade il luogo di dimora del proposto;

che ad avviso del Tribunale rimettente l'anzidetta attribuzione del potere di impulso del procedimento di prevenzione al procuratore "circondariale" della Repubblica si rivelerebbe irragionevole e non coordinata con l'attribuzione - effettuata dal decreto-legge 20 novembre 1991, n. 367, convertito, con modificazioni, nella legge 20 gennaio 1992, n. 8 - al procuratore distrettuale della Repubblica delle funzioni di pubblico ministero nei procedimenti penali per i reati di criminalità organizzata (art. 51, comma 3-bis, cod. proc. pen.);

che tale differenziazione comporterebbe un pregiudizio sul piano dell'efficienza dell'azione della pubblica amministrazione - nella quale andrebbe inclusa anche l'amministrazione giudiziaria - in quanto gli elementi in base ai quali è possibile formulare la proposta per la misura preventiva emergerebbero proprio nel corso delle indagini preliminari relative ai reati di stampo mafioso e sarebbero quindi nella disponibilità del procuratore della Repubblica individuato ex art. 51, comma 3-bis, cod. proc. pen., il quale non sarebbe, d'altra parte, obbligato a trasmettere gli elementi di cui dispone al procuratore presso il tribunale circondariale, se non in limitate ipotesi;

che la denunciata discrasia normativa non troverebbe neppure adeguato bilanciamento nell'attribuzione del potere di impulso in argomento anche al Procuratore nazionale antimafia (ex art. 22, comma 01, del d.l. n. 306 del 1992, convertito in l. n. 356 del 1992, ulteriormente modificativo della norma impugnata), essendo tale potere, oltre che sistematicamente "spurio", comunque riferibile alle sole misure di prevenzione personali e non anche a quelle patrimoniali;

che, inoltre, il giudice a quo ravvisa nella disposizione denunciata un profilo di contrasto con il principio di eguaglianza, giacché l'accennata disciplina favorirebbe coloro che - quali possibili destinatari della proposta di applicazione della misura di prevenzione - dimorano in un circondario diverso da quello il cui capoluogo è anche capoluogo del distretto, correlativamente sfavorendo coloro per i quali i detti luoghi coincidono;

che è intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, il quale, sottolineando da un lato l'estraneità del parametro ex art. 97 della Costituzione all'ambito della funzione giurisdizionale, e rilevando dall'altro la consapevolezza della scelta legislativa censurata nonché la sua coerenza con il sistema normativo di riferimento, ha concluso per una declaratoria di infondatezza della questione;

che questioni analoghe a quella sopra detta sono state sollevate, con due distinte ordinanze del 5 maggio e del 22 settembre del 1995 (R.O. 488 e 840 del 1995), dal medesimo Tribunale di Napoli;

che nei relativi giudizi è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, tramite l'Avvocatura generale dello Stato, che, richiamando il precedente atto di intervento, ha concluso nel medesimo senso della infondatezza delle questioni così ulteriormente sollevate.

CONSIDERATO che le questioni prospettate sono sostanzialmente identiche, e che pertanto i relativi giudizi possono essere riuniti e decisi congiuntamente;

che con la censura, formulata nei riguardi della disposizione che individua gli organi cui è attribuito il potere di impulso del procedimento di prevenzione, il Tribunale rimettente richiede a questa Corte una pronuncia che sostituisca un ufficio del pubblico ministero a un altro quanto alla titolarità di detto potere, nell'assunto della maggiore, se non esclusiva, idoneità dell'ufficio del procuratore distrettuale della Repubblica (art. 51, comma 3-bis, cod. proc. pen.) a determinare l'avvio del procedimento in questione;

che, dunque, la prospettiva cui mira la questione di costituzionalità è quella della riunificazione, in capo al medesimo ufficio del procuratore della Repubblica presso il tribunale del capoluogo del distretto, della attribuzione delle funzioni di pubblico ministero nelle indagini preliminari e nei procedimenti di primo grado per i reati indicati nel citato art. 51, comma 3-bis, cod. proc. pen., e della attribuzione del potere di proposta per l'applicazione di misure di prevenzione ai sensi della legislazione antimafia;

che simile prospettiva potrebbe trovare ingresso in questa sede solo qualora potessero dirsi omogenee le rispettive funzioni che, come si è detto, il Tribunale rimettente chiede di accentrare in unico ufficio del pubblico ministero;

che, viceversa, l'anzidetta omogeneità non è ravvisabile, sotto diversi profili;

che, in particolare, in primo luogo manca una regola di necessaria coincidenza tra il pubblico ministero (distrettuale) che compie le indagini per i reati di criminalità organizzata e quello (sempre distrettuale) che, nell'ipotesi formulata dal rimettente, avvia il procedimento di prevenzione, giacché, dovendosi effettuare l'individuazione del procuratore della Repubblica nel processo penale di riflesso dalla individuazione del giudice competente, i criteri di determinazione della competenza territoriale (artt. 8, 9 cod. proc. pen.) e le modificazioni di questa in ragione della connessione (artt. 12, 16 cod. proc. pen.) ben possono portare alla individuazione di un pubblico ministero distrettuale per il reato "di mafia" diverso da quello (della "dimora") cui il giudice a quo chiede venga attribuita la facoltà di avviare il procedimento delineato dalle leggi n. 1423 del 1956 e n. 575 del 1965;

che, più in generale, devono essere sottolineate le profonde differenze, di procedimento e di sostanza, tra le due sedi, penale e di prevenzione: la prima ricollegata a un determinato fatto-reato oggetto di verifica nel processo, a seguito dell'esercizio dell'azione penale; la seconda riferita a una complessiva notazione di pericolosità, espressa mediante condotte che non necessariamente costituiscono reato e che sono localizzate attraverso il concetto di "dimora" della persona, e altresì verificate in un procedimento che, pur se giurisdizionalizzato, vede quali titolari dell'"azione" di prevenzione soggetti diversi, appartenenti all'amministrazione (Ministro dell'interno, con facoltà di delega ai prefetti, al direttore della direttore della direzione investigativa antimafia e ad altri organi dell'amministrazione della pubblica sicurezza; questore; nonché, in precedenza, Alto Commissario per il coordinamento della lotta contro la delinquenza mafiosa);

che, alla luce dell'accennata diversità di funzione e di struttura dell'accertamento penale e dello strumento di prevenzione della pericolosità, il legislatore è variamente intervenuto a regolare i punti di possibile interferenza tra le due sedi, abbandonando originarie sovrapposizioni e, di seguito, regole atipiche di pregiudizialità, per pervenire, da ultimo, alla configurazione di ambiti di totale autonomia; salva l'opportuna disposizione di coordinamento e di economia investigativa contenuta nell'art. 23-bis, commi 1 e 2, della legge 13 settembre 1982, n. 646, menzionata del resto dal giudice a quo;

che, ulteriormente, è proprio nella linea di questa autonomia reciproca dei due ordini di giudizi che il legislatore è intervenuto (con l'art. 20 del decreto-legge 13 maggio 1991, n. 152, convertito, con modificazioni, nella legge 12 luglio 1991, n. 203) sull'impugnato art. 2 della legge n. 575 del 1965, ricollegando la competenza dell'organo abilitato alla proposta di prevenzione all'ambito circondariale in cui ricade la dimora del proposto, secondo una scelta, non censurabile in questa sede, di ulteriore accentuazione della vicinanza tra l'organo di investigazione e la persona che ne è oggetto, in funzione dell'efficienza degli accertamenti utili alla formulazione della proposta;

che, con detta scelta, il legislatore ha quindi consapevolmente mutato il precedente criterio di collegamento tra pubblico ministero proponente e giudice (del capoluogo di provincia) competente a decidere, rendendo altresì possibile la diversificazione tra il procuratore della Repubblica che avvia il procedimento e quello che svolge le funzioni di pubblico ministero davanti al tribunale decidente;

che, nell'ambito di tale quadro normativo, la richiesta sostituzione di un organo a un altro nella titolarità del potere di impulso del procedimento, per quanto osservato, non può dirsi sotto alcun profilo soluzione costituzionalmente imposta sul piano della ragionevolezza del sistema;

che, al contrario, l'introduzione della regola processuale richiesta dal giudice a quo, oltre a essere in antitesi con il quadro anzidetto, produrrebbe essa stessa effetti di complessiva disarmonia, poiché individuerebbe il solo procuratore distrettuale della Repubblica quale ufficio del pubblico ministero abilitato ad avviare il procedimento di prevenzione, e ciò anche in tutti quei casi nei quali, pur facendosi applicazione della legge n. 575 del 1965, non v'è connotato "mafioso" o comunque riferibile a contesti di criminalità organizzata nel senso indicato dall'art. 51, comma 3-bis cod. proc. pen. preso a norma di raffronto, vale a dire nelle ipotesi di pericolosità non qualificata richiamate dall'art. 19 della legge 22 maggio 1975, n. 152;

che, relativamente al profilo di contrasto con l'art. 97 della Costituzione, deve essere ribadita l'estraneità di detto parametro all'esercizio della funzione giurisdizionale, nel suo complesso e in relazione ai diversi provvedimenti che ne costituiscono espressione (da ultimo, ordinanze nn. 159, 147, 99 e sentenza n. 84 del 1996);

che le questioni sollevate devono perciò essere dichiarate manifestamente infondate, in riferimento a entrambi i parametri;

Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, secondo comma, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

riuniti i giudizi,

dichiara la manifesta infondatezza delle questioni di legittimità costituzionale dell'art. 2 della legge 31 maggio 1965, n. 575 (Disposizioni contro la mafia), sollevate, in riferimento agli articoli 3 e 97, primo comma, della Costituzione, dal Tribunale di Napoli, con le ordinanze indicate in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta,  l'11 luglio 1996.

Mauro FERRI, Presidente

Gustavo ZAGREBELSKY, Redattore

Depositata in cancelleria il 22 luglio 1996.