Sentenza n. 61 del 1996

 CONSULTA ONLINE 

SENTENZA N.61

ANNO1996

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori Giudici:

-     Avv. Mauro FERRI, Presidente

-     Prof. Luigi MENGONI

-     Prof. Enzo CHELI

-     Dott. Renato GRANATA

-     Prof. Giuliano VASSALLI

-     Prof. Cesare MIRABELLI

-     Prof. Fernando SANTOSUOSSO

-     Avv. Massimo VARI

-     Dott. Cesare RUPERTO

-     Dott. Riccardo CHIEPPA

-     Prof. Gustavo ZAGREBELSKY

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 5 del regio decreto-legge 27 novembre 1933, n. 1578 (Ordinamento delle professioni di avvocato e procuratore), convertito, con modificazioni, nella legge 22 gennaio 1934, n. 36, e dell'art. 82, terzo comma, del codice di procedura civile, promosso con ordinanza emessa il 28 ottobre 1994 dal Pretore di Monza nel procedimento civile vertente tra SO.DI.P. s.p.a. e Studios s.r.l., iscritta al n. 56 del registro ordinanze 1995 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 6, prima serie speciale, dell'anno 1995.

Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio dell'8 novembre 1995 il giudice relatore Riccardo Chieppa.

Ritenuto in fatto

1.-- Nel corso di un giudizio di opposizione ad atti esecutivi, il Pretore di Monza, fissata l'udienza di comparizione, rilevava che la creditrice procedente, Studios s.r.l., si era costituita mediante deposito di comparsa, nella quale si indicavano come difensori l'avvocato Catanese, del Foro di Firenze, e l'avvocato Moschettini del Foro di Milano. La costituzione in giudizio era stata effettuata da un avvocato del Foro di Firenze, in sostituzione dell'avvocato Catanese.

Dall'atto di costituzione risultava che il legale rappresentante della Studios s.r.l. aveva rilasciato la procura ad entrambi gli avvocati, Catanese e Moschettini, che la domiciliazione era presso il secondo di essi (l'avvocato Moschettini di Milano) e che la sottoscrizione era stata effettuata solo dal primo (l'avvocato Catanese di Firenze).

In udienza il difensore dell'opponente, la SO.DI.P. s.p.a., eccepiva la nullità della costituzione della parte avversaria, in quanto effettuata da un procuratore esercente extra districtum.

Il Pretore adito, con ordinanza del 28 ottobre 1994 (R.O. n. 56 del 1995), ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell'art. 5 del regio decreto-legge 27 novembre 1933, n. 1578, secondo il quale i procuratori legali possono esercitare la professione esclusivamente nell'ambito del distretto di corte d'appello in cui è compreso l'ordine circondariale al quale sono assegnati. In base al consolidato orientamento della Corte di cassazione, tale delimitazione territoriale è prescritta a pena di nullità dell'attività processuale.

Il giudice rimettente, dato atto che la Corte costituzionale si è già pronunciata nel senso dell'infondatezza della questione con le sentenze n. 54 del 1966 e n. 54 del 1977, ha rilevato che successivamente a tali pronunce sono intervenute nel nostro ordinamento importanti novità, introdotte dal diritto comunitario, che renderebbero necessario un riesame del problema.

In breve, la direttiva CEE del 22 marzo 1977, n. 249, alla quale è stata data attuazione in Italia con la legge 9 febbraio 1982, n. 31, consente agli avvocati comunitari di svolgere la professione forense in Italia, senza limitazioni territoriali. La sola condizione alla quale deve sottostare l'avvocato comunitario è quella di svolgere le proprie prestazioni "di concerto" con un avvocato o un procuratore italiano iscritto all'albo ed abilitato ad esercitare la professione dinanzi all'autorità giudiziaria adita. Ma, osserva il giudice a quo, l'obbligo di agire di concerto con un avvocato o un procuratore italiano abilitato è stato interpretato dalla Corte di giustizia (sentenze 25 febbraio 1988 e 10 luglio 1991) nel senso che l'avvocato comunitario deve soltanto eleggere domicilio presso un legale abilitato a svolgere la professione forense in loco, in modo che presso di lui possano avere luogo le comunicazioni e le notificazioni relative al procedimento giurisdizionale.

Di conseguenza, mentre un avvocato o un procuratore di un altro paese della Comunità europea può esercitare il suo ministero in Italia in qualsiasi distretto di corte di appello, viceversa i procuratori italiani possono esercitare il ministero difensivo soltanto davanti al distretto al cui albo sono iscritti, a pena di nullità della attività processuale. Tale situazione normativa darebbe luogo ad una irragionevole discriminazione in danno dei professionisti italiani, con violazione dell'art. 3 della Costituzione, in quanto se l'avvocato straniero si ritiene idoneo ad agire in tutto il territorio senza nocumento né per l'interesse individuale del cliente ad un corretto svolgimento del diritto di azione e di difesa, né per l'interesse generale all'ordinato svolgimento dell'attività processuale, non si vedono ragioni che giustifichino l'attuale limitazione territoriale dell'attività dei procuratori italiani.

Il giudice a quo ritiene inoltre che le norme impugnate siano lesive del diritto al lavoro, tutelato dall'art. 4 della Costituzione, anche se, nella sentenza n. 54 del 1977, la Corte costituzionale ha affermato che rientra nella discrezionalità del legislatore regolare l'esercizio del diritto al lavoro nell'interesse generale. Ma, secondo l'autorità rimettente, se attualmente il legislatore ritiene che non sussistono interessi generali che giustifichino la limitazione territoriale dell'esercizio dell'attività professionale degli avvocati stranieri, nessuno specifico interesse potrebbe essere posto a base della limitazione che persiste in capo ai procuratori italiani.

Quanto alla violazione dell'art. 24 della Costituzione, il Pretore di Monza ha osservato che gli argomenti addotti dalla Corte costituzionale a sostegno della infondatezza della medesima questione, affrontata nelle sentenze n. 54 del 1966 e n. 54 del 1977, vale a dire l'idoneità della vicinanza del difensore al luogo del giudizio ad agevolare l'esercizio del diritto di difesa e l'ordinato svolgimento della giustizia, non appaiono sostenibili alla luce della più ampia libertà riconosciuta agli avvocati stranieri di esercitare la professione forense in tutto il territorio italiano.

Il giudice ha concluso con l'osservazione di alcuni cambiamenti di fatto, che comproverebbero la necessità di eliminare la limitazione territoriale all'esercizio della professione forense. In particolare ha sottolineato che: attualmente il difensore intra districtum, nominato congiuntamente a quello extra districtum, finisce per essere un difensore meramente fittizio, che si limita a depositare gli atti scritti dall'altro; che i tempi degli spostamenti sono sensibilmente diminuiti; che è intervenuta la legalizzazione degli atti trasmessi via fax. Alla luce di tutti questi cambiamenti, sembrerebbe sufficiente a soddisfare l'esigenza di celere comunicazione degli atti processuali imporre ai procuratori non iscritti all'albo del distretto di corte di appello alla quale afferisce il giudice adito la sola elezione del domicilio presso un difensore del luogo.

La censura di incostituzionalità, con riferimento ai medesimi parametri, viene spostata, in via subordinata, per il caso in cui la Corte costituzionale ritenga ragionevole che il principio di territorialità possa conservare un valore residuale nel senso della sua rilevanza come illecito disciplinare, sull'art. 82, terzo comma, del codice di procedura civile, il quale prevede che, salvi i casi in cui la legge dispone altrimenti, davanti al pretore, al tribunale e alla corte d'appello le parti debbono stare in giudizio col ministero di un procuratore legalmente esercente. La norma appare al giudice costituzionalmente illegittima se interpretata nel senso che nel concetto di "procuratore legalmente esercente" rientri anche la legittimazione territoriale.

2.-- E' intervenuto nel giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri con il patrocinio dell'Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata non fondata. Circa l'asserito contrasto con l'art. 3 della Costituzione, nella memoria si rileva che le norme impugnate, che apparentemente generano una discriminazione in danno dei procuratori italiani, sarebbero invece conformi al principio di ragionevolezza. La situazione degli avvocati stranieri e quella dei procuratori italiani sarebbero differenti, e ciò legittimerebbe la soggezione a diversi regimi normativi. In particolare, mentre gli avvocati stranieri svolgono in Italia la professione forense solo occasionalmente, o comunque temporaneamente, viceversa l'attività professionale degli avvocati italiani presenterebbe un carattere di stabilità, che giustificherebbe le restrizioni territoriali imposte dalle norme impugnate. A conferma della ragionevolezza della diversità di trattamento, l'Avvocatura ha ricordato, oltre alla giurisprudenza comunitaria che ha ritenuto inapplicabile agli avvocati stranieri la limitazione territoriale ne]l'esercizio della professione proprio in ragione della temporaneità della loro attività, anche il decreto legislativo 27 gennaio 1992, n. 115, di attuazione della direttiva CEE n. 89/48 del 1988, il quale prevede anche per gli avvocati stranieri che esercitano la professione forense in Italia in regime di stabilimento l'obbligo di iscrizione all'albo dei procuratori e, di conseguenza, li sottopone alle medesime restrizioni territoriali valevoli per i professionisti italiani.

Quanto alle censure sollevate in riferimento agli artt. 4 e 24 della Costituzione, l'Avvocatura si limita a richiamare la giurisprudenza della Corte costituzionale con la quale analoghe questioni sono già state dichiarate non fondate.

Considerato in diritto

1.-- Il Pretore di Monza ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell'art. 5 del regio decreto-legge 27 novembre 1933, n. 1578 (Ordinamento delle professioni di avvocato e procuratore), convertito, con modificazioni, nella legge 22 gennaio 1934, n. 36, il quale prevede che i procuratori legali possano esercitare la professione esclusivamente davanti agli uffici giudiziari del distretto di corte d'appello in cui è compreso l'ordine circondariale al quale sono assegnati (oltre che davanti al Tribunale amministrativo regionale competente nel distretto medesimo).

Secondo il rimettente, tale disposizione, nella interpretazione ormai uniforme della Corte di cassazione, secondo la quale la sottoscrizione della citazione da parte di procuratore esercente extra districtum comporta la nullità insanabile dell'atto, darebbe luogo, in contrasto con l'art. 3 della Costituzione, ad una irragionevole discriminazione tra i procuratori italiani, che subiscono la denunciata limitazione territoriale dell'attività professionale, e gli avvocati comunitari, che, in base alla direttiva CEE del 22 marzo 1977, n. 249, cui è stata data attuazione in Italia con la legge 9 febbraio 1982, n. 31, sarebbero invece assoggettati all'unica condizione di svolgere le proprie prestazioni "di concerto" con un avvocato o un procuratore italiano iscritto all'albo ed abilitato ad esercitare la professione dinanzi all'autorità giudiziaria adita.

Il giudice a quo ravvisa, inoltre, nella norma impugnata un vulnus al diritto al lavoro e alla difesa, garantiti, rispettivamente, dagli artt. 4 e 24 della Costituzione.

In via subordinata, per l'ipotesi in cui la Corte ritenga ragionevole che il principio della limitazione territoriale dell'attività professionale dei procuratori legali possa conservare un valore residuale nel senso della rilevanza sul piano disciplinare della sua inosservanza, il Pretore rimettente denuncia, in riferimento ai medesimi parametri costituzionali, l'art. 82, terzo comma, del codice di procedura civile, nella parte in cui, nel prevedere che, salvi i casi in cui la legge dispone altrimenti, davanti al pretore, al tribunale e alla corte d'appello le parti debbono stare in giudizio col ministero di un procuratore "legalmente esercente", fa rientrare nel concetto di "legale esercizio del ministero" anche la legittimazione territoriale.

2.-- Le questioni sono infondate con riferimento a ciascuno dei denunciati profili di illegittimità.

2.1.-- Richiede, anzitutto, una fondamentale precisazione il presupposto, sul quale il giudice a quo fonda l'asserito contrasto dell'art. 5 del r.d.l. n. 1578 del 1933 con l'art. 3 della Costituzione, relativo al differente regime normativo cui sarebbero sottoposti, da un lato, gli avvocati o i procuratori di un altro Stato della Comunità europea, liberi di prestare in Italia la propria attività in qualsiasi distretto di corte d'appello, dall'altro i procuratori italiani, che a pena di nullità, possono esercitare il ministero difensivo soltanto davanti al distretto al cui albo sono iscritti.

Tale presupposto è, infatti, alla luce di un attento esame del quadro normativo di riferimento, solo parzialmente da condividere.

L'art. 5 del r.d.l. n. 1578 del 1933 (nel testo sostituito dall'art. 4 della legge 24 luglio 1985, n. 406) stabilisce che "i procuratori legali possono esercitare la professione davanti a tutti gli uffici giudiziari del distretto in cui è compreso l'ordine circondariale presso il quale sono iscritti, nonché davanti al Tribunale amministrativo regionale competente, nel distretto medesimo".

La Corte di cassazione ha interpretato tale disposizione, in modo costante a partire dalla sentenza delle Sezioni unite n. 4641 del 1988, nel senso che il limite territoriale che essa comporta all'esercizio della professione di procuratore legale determina la nullità insanabile dell'atto di citazione sottoscritto dal procuratore extra districtum, salvo che la procura apposta in calce od a margine dell'atto sia stata conferita anche ad altro procuratore territorialmente competente e questi si sia poi regolarmente costituito in giudizio.

2.2.-- Giova, qui, sottolineare che la descritta disciplina normativa non si estende all'attività di avvocato.

La diversità delle funzioni di assistenza e difesa del cliente, proprie dell'avvocato, e di quelle di rappresentanza della parte in giudizio e di esercizio dello ius postulandi, prerogativa del procuratore, comporta l'osservanza delle regole specifiche di ciascuna delle due attività: sicché per l'avvocato, che non svolga anche funzioni procuratorie, e quando non vi sia necessità di rappresentanza in giudizio, ma solo facoltà di avvalersi di assistenza per la parte abilitata a sottoscrivere l'atto (v., per il processo amministrativo, art. 35 del r.d. 26 giugno 1924, n. 1054), non opera il cosiddetto principio di localizzazione. Invece, le modalità di svolgimento della professione di avvocato (distinta da quella di procuratore, anche se con essa cumulabile) restano regolate dall'art. 4 del citato r.d.l. n. 1578 del 1933, che, al primo comma, dispone che "gli avvocati iscritti in un albo possono esercitare la professione davanti a tutte le corti d'appello, i tribunali e le preture della Repubblica". Pertanto, il potere di rappresentanza nel giudizio civile di merito (stare in giudizio con il ministero di un procuratore legalmente esercente: art. 82, ultimo comma, del codice di procedura civile) può essere attribuito solo ad un procuratore (o avvocato-procuratore) iscritto ad un albo del distretto (cosiddetto principio della esclusività territoriale della rappresentanza processuale, non esclusivo del sistema vigente in Italia).

2.3.-- La normativa citata rivela, in ogni caso, come osservato da parte della dottrina, la tendenza ad una gestione "protezionistica" dell'attività forense, sulla quale, nel tempo, avrebbe profondamente inciso la disciplina comunitaria. Già il trattato di Roma, nel quadro generale della liberalizzazione delle professioni, all'art. 3 dispone la eliminazione, tra gli Stati membri, degli ostacoli che limitano la libertà di circolazione dei capitali, dei servizi e delle persone, mentre, agli artt. 52-66, regola la libertà di circolazione dei lavoratori non salariati nel mercato comune, affermando, per un verso, "il diritto dei cittadini di uno Stato membro di esercitare in modo continuo e permanente la propria attività indipendente in un altro Stato membro" (il cosiddetto diritto di stabilimento: artt. 52-58), per l'altro, la libertà di prestazione dei servizi (artt. 59-66), intesa come esercizio temporaneo ed occasionale di attività non salariata.

Ma la più compiuta definizione di detti concetti è dovuta alla attività di interpretazione del trattato ad opera della Corte di giustizia e alle direttive CEE.

Con riferimento alla professione forense, la prima direttiva emanata dal Consiglio è quella del 22 marzo 1977, n. 249, che limita, peraltro, il suo intervento, come emerge già dal preambolo, alla prestazione di servizi da parte degli avvocati, della quale tende a facilitare l'esercizio effettivo, ed impone di riconoscere come avvocati in tutti gli Stati membri coloro che sono abilitati ad esercitare le proprie attività professionali con la denominazione che la direttiva stessa elenca: per l'Italia, il riferimento è agli avvocati, con esclusione, quindi, dei procuratori.

Per quanto riguarda, in particolare, le attività relative alla rappresentanza e difesa in giudizio, o dinanzi alle autorità pubbliche (distinte da tutte le altre autorità), la direttiva, nel prescrivere che esse debbano essere esercitate nel rispetto delle regole professionali dello Stato membro ospitante (fatti salvi gli obblighi cui sono soggette nello Stato di provenienza) e nelle stesse condizioni previste per gli avvocati stabiliti nello Stato ospitante, esclude ogni condizione di residenza o di iscrizione ad un'organizzazione professionale nello stesso Stato (art. 4).

Quale limite alla liberalizzazione delle attività in questione, l'art. 5 della direttiva prevede, invece, che i singoli Stati possano imporre agli avvocati di essere "introdotti", secondo le regole o consuetudini locali, presso il presidente della giurisdizione ed, eventualmente, presso il presidente dell'Ordine degli avvocati, nonché di agire "di concerto" con un avvocato o con un procuratore o un avoué che eserciti dinanzi alla giurisdizione adita.

La direttiva sulla libera prestazione di servizi ha ricevuto attuazione in Italia con la legge 9 febbraio 1982, n. 31 -- il cui campo di applicazione è espressamente limitato all'esercizio delle attività professionali dell'avvocato con carattere di temporaneità (art. 2) -- che obbliga all'osservanza delle norme vigenti nell'ordinamento italiano ad eccezione, tra l'altro, di quelle riguardanti il requisito della iscrizione in un albo degli avvocati (art. 4), e, all'art. 6, riprende la prescrizione della concertazione di cui al citato art. 5 della direttiva n. 249 del 1977, anche se non risulta con sufficiente chiarezza la portata di tale obbligo.

Ma ciò che soprattutto rileva in questa sede è che la delimitazione territoriale dell'esercizio della professione forense (esclusa, come si è sottolineato, solo con riferimento alla prestazione temporanea di servizi), riappare invece in maniera chiara nel caso di accesso alla professione, cioè di "stabilimento" dell'avvocato in Italia.

Tale ipotesi è prevista e regolata anche dalla direttiva CEE n. 89/48 del 21 dicembre 1988, relativa "ad un sistema generale di riconoscimento dei diplomi di istruzione superiore che sanzionano formazioni professionali di una durata minima di tre anni". Essa espressamente afferma, nel preambolo, che il sistema generale di riconoscimento dei diplomi di istruzione superiore "non è destinato né a modificare le norme professionali, applicabili a chiunque eserciti una professione in uno Stato membro, né a sottrarre i migranti all'applicazione di tali norme", e che si limita a prevedere misure appropriate, volte ad assicurare che il migrante si conformi alle norme professionali dello Stato membro ospitante.

L'art. 2 della direttiva chiarisce, poi, che essa si applica al professionista "stabile", cioè a qualunque cittadino di uno Stato membro che intenda esercitare, come lavoratore autonomo o subordinato, una professione regolamentata in uno Stato membro ospitante.

La direttiva in questione è stata attuata con il decreto legislativo 27 gennaio 1992, n. 115, il cui art. 13 dispone che il decreto di riconoscimento in Italia dei titoli di formazione professionale acquisiti nella Comunità europea attribuisce al beneficiario il diritto di accedere alla professione e di esercitarla, "nel rispetto delle condizioni richieste dalla normativa vigente ai cittadini italiani, diverse dal possesso della formazione e delle qualifiche professionali".

Nè la situazione ha subito modifiche per effetto della recente sentenza della Corte di giustizia delle Comunità europee del 30 novembre 1995 (causa 55/94), la quale ha, anzi, precisato che, allorché l'accesso ad una attività specifica, o il suo esercizio, è subordinato, nello Stato membro ospitante, a determinate condizioni, il cittadino di un altro Stato membro che intende esercitare tale attività deve, di regola, soddisfarle.

2.4 -- L'articolato quadro normativo innanzi descritto dà ragione della infondatezza della questione sollevata dal Pretore di Monza in riferimento all'art. 3 della Costituzione.

La presunta discriminazione in danno dei procuratori legali italiani, dovuta alla limitazione territoriale della loro attività, in realtà non esiste.

Come già chiarito, la liberalizzazione della professione, voluta dalla direttiva n. 249 del 1977, si applica in Italia, per espresso disposto della direttiva stessa e della relativa legge di attuazione, solo agli iscritti nell'albo degli avvocati, con esclusione dei procuratori legali, che sono, nel sistema attualmente vigente nel nostro Paese, gli unici a subire la limitazione di cui si tratta.

Ciò posto, la insussistenza di una discriminazione meritevole di censura sul piano della legittimità costituzionale si ricava dalla non omogeneità delle situazioni poste a confronto. Infatti, il solo caso di esclusione della limitazione territoriale dell'attività procuratoria -- come tale, applicabile anche all'avvocato italiano, allorché si trovi a svolgere funzioni di quel tipo -- è quello di attività temporanea, in relazione al quale non può validamente compiersi una operazione di comparazione con lo svolgimento di attività professionale in Italia, per la diversità delle situazioni di fatto e di diritto di cui si tratta. Infatti, nella fattispecie considerata, la comparazione va posta non con l'ipotesi di avvocato comunitario temporaneamente esercente in Italia (prestazione di servizi), svincolato dalla territorialità, ma con quella, differente -- e che con la prima è in rapporto di reciproca esclusione -- di avvocato comunitario stabilmente esercente in Italia in base al c.d. "diritto di stabilimento", soggetto alla disciplina nazionale che comprende, tra l'altro, il principio della territorialità e l'obbligo della iscrizione in apposito albo in Italia.

3.-- Le suesposte considerazioni inducono, altresí, ad escludere la lesione degli altri parametri invocati dal giudice a quo.

Quanto all'art. 4 della Costituzione, questa Corte ne ha già escluso la violazione ad opera della norma impugnata, affermando che la garanzia del diritto al lavoro non deve essere intesa nel senso che non consenta al legislatore ordinario di regolarne l'esercizio (sentenza n. 54 del 1977).

Anche il presunto vulnus all'art. 24 è stato escluso dalla stessa sentenza, come già lo era stato dalla sentenza n. 54 del 1966, alla stregua del rilievo che la limitazione territoriale della competenza del procuratore legale agevola l'esercizio del diritto ponendo a disposizione della parte un professionista idoneo a svolgere con la necessaria tempestività l'attività processuale di competenza, spesso collegata al rispetto di termini perentori e a rappresentare al giudice con la necessaria immediatezza ogni esigenza della difesa.

Non ignora la Corte che un vasto movimento d'opinione, che ha trovato eco, tra l'altro, in numerose proposte legislative, tende ad innovare tale disciplina, avuto anche riguardo ai progressi tecnologici nel frattempo intervenuti, che hanno profondamente modernizzato le comunicazioni e reso, perciò, meno ineludibile la necessità di un rappresentante intra districtum, salve le esigenze di elezione di domicilio. Tuttavia, la soluzione di siffatto problema, come di quello, ad esso in qualche modo collegato, che coinvolge l'essenza stessa della distinzione professionale tra avvocati e procuratori, sfugge ad ogni sindacato di legittimità costituzionale, rientrando nella discrezionalità di scelte legislative.

4.-- Le conclusioni cui la Corte è sin qui pervenuta rendono superfluo l'esame delle censure in riferimento all'art. 82, terzo comma, del codice di procedura civile, prive, del resto, di valenza autonoma.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 5 del regio decreto-legge 27 novembre 1933, n. 1578 (Ordinamento delle professioni di avvocato e procuratore), convertito, con modificazioni, nella legge 22 gennaio 1934, n. 36, sollevata, in riferimento agli artt. 3, 4 e 24 della Costituzione, dal Pretore di Monza, con l'ordinanza in epigrafe;

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 82, terzo comma, del codice di procedura civile, sollevata, in riferimento agli artt. 3, 4 e 24 della Costituzione, dal Pretore di Monza con la stessa ordinanza.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 22 febbraio 1996.

Mauro FERRI, Presidente

Riccardo CHIEPPA, Redattore

Depositata in cancelleria il 28 febbraio 1996.