SENTENZA N. 484
ANNO 1995
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori Giudici:
- Avv. Mauro FERRI, Presidente
- Prof. Enzo CHELI
- Dott. Renato GRANATA
- Prof. Giuliano VASSALLI
- Prof. Francesco GUIZZI
- Prof. Cesare MIRABELLI
- Prof. Fernando SANTOSUOSSO
- Avv. Massimo VARI
- Dott. Cesare RUPERTO
- Dott. Riccardo CHIEPPA
- Prof. Gustavo ZAGREBELSKY
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 441, comma 1, del codice di procedura penale, promosso con ordinanza emessa il 4 febbraio 1995 dal Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Gela nel procedimento penale a carico di Ferrigno Antonio ed altri, iscritta al n. 179 del registro ordinanze 1995 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 14, prima serie speciale, dell'anno 1995. Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri; udito nella camera di consiglio del 18 ottobre 1995 il Giudice relatore Giuliano Vassalli.
Ritenuto in fatto
1. Il Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Gela dopo aver premesso di essere subentrato ad altro giudice nell'ufficio e di essere stato chiamato a celebrare l'udienza fissata per la definizione con rito abbreviato della posizione di alcuni imputati a seguito di stralcio operato nell'ambito di un complesso procedimento, osserva che, pur coincidendo di regola il giudice che ammette il rito abbreviato con quello che definisce il giudizio, possono nella pratica verificarsi "situazioni abnormi del tipo descritto", rispetto alle quali il quadro normativo non offre soluzioni adeguate. Più in particolare, il giudice a quo ritiene che la mancata previsione nell'art. 441, comma 1, del codice di procedura penale di un principio analogo a quello previsto dall'art. 525 dello stesso codice, e quindi di immutabilità del giudice che ha ammesso il rito abbreviato rispetto a quello davanti al quale le parti concludono, contrasti con gli artt. 3, 76 e 25 della Costituzione. Violato sarebbe, anzitutto, il principio di ragionevolezza e di uguaglianza, stante l'omogeneità delle situazioni poste a raffronto (rito abbreviato e dibattimento) e l'irragionevole discriminazione che subisce l'imputato giudicato con il rito abbreviato, in quanto per il medesimo non opera la garanzia di nullità assoluta prevista dall'art. 525 c.p.p. Si appaleserebbe poi, ad avviso del rimettente, un contrasto con l'art. 76 della Costituzione, in riferimento alla direttiva n. 53 della legge-delega n. 81 del 1987, in quanto la previsione ivi enunciata che consente al giudice di pronunciare sentenza di merito nell'udienza preliminare, deve necessariamente interpretarsi "come espressione di un principio che impone l'identità fra GUP, che ammette il rito, e giudice che delibera la sentenza di merito". Infine, la mancata previsione di un potere di revoca del "consenso" precedentemente espresso da giudice diverso (la revocabilità del "consenso", osserva, infatti, il giudice a quo, pure ammessa da qualche giudice di merito, sarebbe stata negata da questa Corte nella sentenza n. 318 del 1992) e la conseguente regressione del procedimento all'udienza preliminare, comprometterebbe anche l'art. 25 della Costituzione, inteso non soltanto quale garanzia posta a tutela dell'individuo, ma anche quale "espressione dell'autonomia, imparzialità e in dipendenza del giudice", che nella specie risulterebbe irragionevolmente compressa in quanto vinco lata "ad una precedente valutazione, dalla quale potrebbe legittimamente dissentire".
2. Nel giudizio è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, la quale, pur concludendo per la inammissibilità della questione, ha svolto considerazioni nel senso della non fondatezza. A parere della Avvocatura, infatti, non sussisterebbe alcun dubbio circa la applicabilità nel caso di specie del principio della immodificabilità del giudice, "nel senso che potrà farsi luogo al rito alternativo da parte del giudice differente, mutato nella sua fisicità, ma identico nella rappresentanza dello stesso ufficio giurisdizionale". Quanto, poi, alla censura relativa alla irrevocabilità del provvedimento ammissivo del rito adottato da altro giudice, l'Avvocatura ne rileva l'infondatezza sul presupposto che la immodificabilità del "consenso" è in linea "con la natura e la funzione deflattiva del rito in questione". D'altra parte, conclude l'Avvocatura, la revoca ritenuta inammissibile da questa Corte nella sentenza n. 318 del 1992 consentirebbe una regressione del rito alternativo a quello ordinario che contrasterebbe con il generale principio della non regressione del processo.
Considerato in diritto
1. Il Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Gela solleva questione di legittimità costituzionale dell'art. 441, comma 1, del codice di procedura penale nella parte in cui non stabilisce, analogamente a quanto prevede l'art. 525 c.p.p. per il dibattimento, l'immutabilità del giudice che ha accolto la richiesta di giudizio abbreviato rispetto a quello davanti al quale le parti sono chiamate a svolgere le rispettive conclusioni. A parere del giudice a quo una simile omissione comprometterebbe, anzitutto, il principio di uguaglianza sancito dall'art. 3 della Costituzione, in quanto per l'imputato giudicato con il rito abbreviato non opera, senza alcuna ragionevole giustificazione la garanzia di nullità assoluta prevista dall'art. 525 c.p.p. per chi è tratto a giudizio con il rito ordinario. Risulterebbe poi violato l'art. della Costituzione, giacchè l'enunciato della direttiva 53 della legge-delega 16 febbraio 1987, n. 81, è formulato in termini tali da imporre l'identità fra il giudice che ammette il rito e il giudice che delibera la sentenza di merito. Si profilerebbe, infine, un contrasto anche con l'art. 25 della Costituzione, in quanto, considerata l'irrevocabilità del provvedi mento che ammette il giudizio abbreviato, il diverso giudice chiamato a definire il rito sarebbe irragionevolmente vincolato ad una valutazione precedentemente fatta da altro giudice e rispetto alla quale, dunque, potrebbe anche legittimamente dissentire.
2. La questione è infondata nei termini che seguono. La situazione che il giudice a quo prospetta a fondamento delle dedotte censure indubbiamente presenta, come lo stesso remittente ha correttamente posto in risalto, caratteristiche quanto mai peculiari, al punto da rendere del tutto ragionevole la mancata previsione di una disciplina che altro scopo non avrebbe avuto se non quello di regolare una evenienza di eccezionalità tale da porsi al di fuori delle fisiologiche sequenze che contraddistinguono la dinamica del giudizio abbreviato. Tanto la direttiva n. 53 della legge di delega che le disposizioni dettate dal codice di rito, evidenziano, infatti, una marcata concentrazione funzionale e cronologica tra la fase in cui il giudice è chiamato a deliberare l'ammissibilità del rito e quella, immediatamente conseguenziale, in cui il giudizio abbreviato deve concretamente svolgersi, relegando, quindi, entro confini del tutto ipotetici l'eventualità che il giudice della prima fase possa non coincidere con quello della seconda. Ma quand'anche una simile eventualità abbia a realizzarsi, come è accaduto nel caso prospettato, il sistema offre si curi indici per risolvere i quesiti sollevati dal giudice a quo senza ricorrere alla declaratoria di illegittimità costituzionale che lo stesso sollecita. Il principio di immutabilità del giudice, che l'art. 525, comma 2, c.p.p. espressamente enuncia per la deliberazione della sentenza dibattimentale, ha ricevuto, infatti, interpretazione estensiva ad opera della giurisprudenza di legittimità. Si è così ritenuto che, attesa la portata che quel principio assume nel sistema, lo stesso trovi applicazione anche per le ordinanze adottate all'esito della procedura in camera di consiglio, negli incidenti di esecuzione e nel procedimento di sorveglianza, avuto riguardo alla necessità di soddisfare la generale esigenza che la decisione giurisdizionale, qualsivoglia forma venga ad assumere, sia emanata dal medesimo giudice che ha provveduto alla trattazione della procedura, intendendosi per tale l'esame delle acquisizioni probatorie funzionali alla decisione, ogni attività istruttoria destinata allo stesso scopo, nonchè l'assunzione delle richieste e conclusioni delle parti. Simili affermazioni hanno di recente trovato eco anche in relazione al giudizio abbreviato. Nel disattendere, infatti, una eccezione di illegittimità costituzionale del tutto analoga a quella che forma oggetto del presente giudizio, la Corte di cassazione ha avuto modo di affermare che nell'ipotesi in cui si realizzi una scissione tra il giudice che ammette il rito e quello che celebra il giudizio abbreviato, non si determina una violazione del principio del giudice naturale nè un contrasto con l'art. 101, secondo comma, della Costituzione, giacchè è "indispensabile soltanto che sia lo stesso giudice (inteso come persona fisica), che ha partecipato alla trattazione della causa, a pronunciare poi la sentenza". Da ciò si è tratto il corollario che "soltanto dal momento in cui viene disposto il rito abbreviato deve essere lo stesso giudice a presiedere tutta l'attività processuale che viene successivamente espletata... allo scopo di garantire uniformità di conoscenza di tutta la vicenda processuale", sicchè ove il giudice venga ad essere successivamente sostituito "è necessario procedere alla rinnovazione dell'intera attività compiuta dopo l'ammissione del rito medesimo" (Sez. I, 26 maggio 1995, n. 1128). Ma se l'identità del giudice deve essere preservata per tutto lo svolgimento del giudizio abbreviato fino alla decisione che lo conclude, trattandosi di pronuncia strutturalmente omologa a quella che viene adottata all'esito del dibattimento, anche la precedente fase che inerisce alla verifica dei presupposti di ammissibilità del rito non può non ricadere sotto la delibazione autonoma del magistrato che quel rito è poi chiamato a celebrare e definire. In altri termini, è proprio la stretta concatenazione funzionale che correla l'ammissione del giudizio ed il relativo svolgimento a rendere evidente come il giudice del rito alternativo non possa soffrire preclusioni di sorta a causa dell'apprezzamento da altri svolto circa la relativa ammissibilità. In proposito va considerato, fra l'altro, che la valutazione riguardante la possibilità di definire il processo con le forme proprie di quel rito si radica sul medesimo "stato degli atti" che viene posto, poi, a fondamento della sentenza di merito. Ove, pertanto, muti la persona del giudice dopo la pronuncia della ordinanza che ha ammesso il giudizio abbreviato, il nuovo giudice sarà libero di assumere le proprie determinazioni anche in punto di ammissibilità, così da saldare in capo al medesimo soggetto la celebrazione del rito e ciò che ne costituisce l'ineluttabile premessa, ad integrale soddisfacimento di un postulato di identità che, inespresso nel dato normativo, risulta invece chiaramente delineato dal sistema. Così ricostruito il quadro delle disposizioni coinvolte, le stesse sfuggono, quindi, alle censure delineate dal giudice a quo, proprio perchè il petitum che lo stesso mostra di perseguire trova adeguata soluzione, nel particolare caso dedotto, alla luce delle considerazioni dianzi esposte.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara non fondata, nei sensi di cui in motivazione, la questione di legittimità costituzionale dell'art. 441, comma 1, del codice di procedura penale, sollevata, in riferimento agli artt. 3, 76 e 25 della Costituzione, dal Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Gela con l'ordinanza in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il .6/11/95.
Mauro FERRI, Presidente
Giuliano VASSALLI, Redattore
Depositata in cancelleria il 10/11/95.