SENTENZA N. 269
ANNO 1995
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori Giudici:
- Prof. Antonio BALDASSARRE, Presidente
- Prof. Vincenzo CAIANIELLO
- Avv. Mauro FERRI
- Prof. Luigi MENGONI
- Prof. Enzo CHELI
- Dott. Renato GRANATA
- Prof. Giuliano VASSALLI
- Prof. Cesare MIRABELLI
- Prof. Fernando SANTOSUOSSO
- Avv. Massimo VARI
- Dott. Cesare RUPERTO
- Dott. Riccardo CHIEPPA
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale del disposto coordinato degli artt. 61, 31 e 32 della legge 1° giugno 1939, n. 1089 (Tutela delle cose d'interesse artistico e storico), promosso con ordinanza emessa l'11 novembre 1993 dalla Corte di cassazione sui ricorsi riuniti proposti da Giovanni Verusio, Silvestro Pierangeli ed Ernst Beyeler contro il Ministero per i beni culturali ed ambientali ed altri, iscritta al n. 400 del registro ordinanze 1994 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 28, prima serie speciale, dell'anno 1994. Visti gli atti di costituzione di Giovanni Verusio, Silvestro Pierangeli ed Ernst Beyeler nonchè l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri; udito nell'udienza pubblica del 2 maggio 1995 il Giudice relatore Enzo Cheli; uditi gli avvocati Giuseppe Guarino per Giovanni Verusio, Angelo Clarizia per Silvestro Pierangeli, Pietro Guerra e Beniamino Caravita di Toritto per Ernst Beyeler e l'Avvocato dello Stato Piergiogio Ferri per il Presidente del Consiglio dei ministri.
Ritenuto in fatto
1.- La Corte di cassazione, sezioni unite civili, con ordinanza dell'11 novembre 1993, emessa nel corso del giudizio sui ricorsi riuniti proposti da Giovanni Verusio, Silvestro Pierangeli ed Ernst Beyeler contro il Ministero per i beni culturali ed ambientali ed altri, ai fini dell'annullamento della decisione del Consiglio di Stato n. 58 del 30 gennaio 1991, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 42 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale del disposto coordinato degli artt. 61, 31 e 32 della legge 1° giugno 1939, n. 1089 (Tutela delle cose d'interesse artistico e storico). L'ordinanza di rimessione premette che i ricorrenti nel giudizio a quo impugnano la decisione con la quale il Consiglio di Stato, confermando in sede di appello la precedente pronuncia del Tribunale amministrativo regionale del Lazio n. 224 del 26 gennaio 1990, ha respinto la domanda tendente ad ottenere l'annullamento del decreto del Ministro per i beni culturali e ambientali del 24 novembre 1988 n. 122749, con il quale è stato esercitato il diritto di prelazione sul dipinto "Il giardiniere" di Vincent Van Gogh - bene vincolato ai sensi della legge n. 1089 del 1939 - per il prezzo di lire 600.000.000, in relazione alla vendita del dipinto medesimo, per uguale prezzo, intervenuta nel 1977 tra il Verusio e il Pierangeli e da essi comunicata allo stesso Ministero con atto del 28 luglio 1977. Il decreto ministeriale impugnato risulta motivato sui presupposti seguenti: a) che tanto la suddetta denuncia di vendita del 28 luglio 1977, quanto la successiva comunicazione unilaterale del Pierangeli del 2 dicembre 1983 di aver acquistato il dipinto non in proprio ma in nome e per conto del Beyeler, sono atti che, sia singolarmente che nel loro complesso, non integrano una valida denuncia di alienazione di bene vincolato, ai sensi dell'art. 30 della legge n. 1089 del 1939, perchè non soddisfano i requisiti stabiliti dall'art. 57 del r.d. 30 gennaio 1913, n. 363, tutt'ora in vigore, per quanto concerne l'esatta descrizione delle condizioni dell'alienazione, l'individuazione dell'acquirente e la sottoscrizione delle parti contraenti; b) che, conseguentemente, come già comunicato dallo stesso Ministero con atto del 1° luglio 1988, non disponendo il Beyeler di un titolo di proprietà del dipinto legittimamente opponibile ai sensi e per gli effetti della legge n. 1089 del 1939, non può essere riconosciuto alcun valore alla successiva denuncia, del 3 maggio 1988, di vendita del dipinto stesso dal Beyeler alla Solomon R. Guggenheim Corporation; c) che, ai sensi dell'art. 61 della legge n. 1089 del 1939, in mancanza di una regolare denuncia dell'alienazione del bene vincolato, lo Stato può esercitare il diritto di prelazione di cui agli artt. 31 e 32 della legge stessa anche oltre l'ordinario termine di due mesi dalla presentazione della denuncia, senza limiti di tempo. La Corte di cassazione espone che il Consiglio di Stato, nel respingere la domanda dei ricorrenti, dopo aver ribadito la vigenza del r.d. 30 gennaio 1913 n. 363 anche dopo l'entrata in vigore della legge n. 1089 del 1939, ha ritenuto che, ai sensi dell'art. 61 di detta legge, in caso di mancata denuncia dell'alienazione (così come nell'equiparata ipotesi di denuncia priva dei requisiti essenziali previsti dal succitato regio decreto), l'Amministrazione possa esercitare in ogni tempo la prelazione, per la quale il termine di prescrizione decorre solo dal momento di una regolare denuncia.
La stessa Corte ritiene anche corretta l'interpretazione assunta dal Consiglio di Stato in relazione sia al tenore letterale della disposizione del secondo comma dell'art. 61 della legge n. 1089 - per il quale, in caso di omessa o infedele denuncia, "resta sempre salva la facoltà del Ministro di esercitare il diritto di prelazione a norma degli artt. 31 e 32" - sia al fatto che la stessa disposizione non consente di individuare un momento iniziale per il decorso di un termine. Tuttavia, la Corte di cassazione dubita della legittimità costituzionale della norma così interpretata e solleva, pertanto, la presente questione, che ritiene rilevante e non manifestamente infondata. In punto di rilevanza, l'ordinanza di rimessione argomenta che l'eventuale pronuncia di incostituzionalità della normativa che consente l'esercizio della prelazione in ogni tempo farebbe venir meno il potere dell'Amministrazione di incidere in qualsiasi momento sul diritto soggettivo del privato, degradandolo ad interesse legittimo, con la conseguenza, rilevante nel giudizio a quo, di ricondurre le controversie riguardanti la tardività della prelazione ex art. 61 alla giurisdizione dell'autorità giudiziaria ordinaria. L'ordinanza precisa altresì che il suddetto effetto si produrrebbe sia nell'ipotesi di totale espulsione del secondo comma dell'art. 61, sia nell'ipotesi di declaratoria di incostituzionalità delle norme denunciate nella parte in cui non prevedono che, in presenza di violazione dei divieti o inosservanza delle condizioni e modalità di cui al primo comma dell'art. 61, il termine di due mesi, di cui all'art. 32, primo comma, decorra dalla data in cui l'Amministrazione abbia acquisito la conoscenza certa di tutti i dati dei quali è obbligatoria la comunicazione. Risulta, infatti, accertato nel giudizio a quo che il diritto di prelazione di cui si controverte è stato esercitato oltre due mesi dalla piena conoscenza da parte dell'Amministrazione competente di tutti gli elementi che la denuncia di vendita avrebbe dovuto contenere. La questione, nella stessa ordinanza, viene riconosciuta non manifestamente infondata, in relazione agli artt. 3 e 42 della Costituzione, sotto un duplice profilo. Il primo profilo è quello della illimitata compressione del diritto reale dell'alienante che - secondo il giudice a quo - sarebbe ingiustamente sottoposto ad un trattamento diverso da quello riservato ad ogni altro espropriato, essendo data facoltà all'Amministrazione di porre in essere l'atto ablativo in ogni momento, con correlativa incertezza, del pari illimitata nel tempo, circa l'effettivo assetto dei rapporti giuridici concernenti il bene. Invero, mentre tutte le leggi in tema di espropriazione per pubblica utilità assegnano all'espropriante rigorosi termini decadenziali, la prelazione ex art. 61 non solo non sarebbe sottoposta a decadenza, ma non incontrerebbe neppure il limite della prescrizione. Il secondo profilo di illegittimità sarebbe rilevabile - sempre secondo la Corte remittente - nella mancata garanzia per l'espropriato di un adeguato indennizzo, in quanto la corresponsione di una somma pari al prezzo contrattuale, prevista dalla normativa in esame, si conformerebbe alla sola ipotesi di prelazione esercitata nel breve termine di due mesi, ma non anche a quella di una prelazione che, essendo esercitabile senza limiti di decadenza, intervenga quando, per effetto del decorso di un lungo periodo di tempo, il prezzo contrattuale sia divenuto del tutto inadeguato. Con l'ulteriore conseguenza - sempre secondo il giudice a quo - di una irrazionale differenziazione tra la posizione di chi, avendo effettuato una denuncia irregolare, si vedrebbe corrispondere, come nel caso di specie, un indennizzo pari al prezzo denunciato, pur se divenuto nel tempo del tutto inadeguato, e la posizione di chi, avendo del tutto omesso la denuncia dell'alienazione, percepirebbe - nell'impossibilità per l'Amministrazione di accertare il prezzo contrattualmente stabilito - un indennizzo calcolato in base al valore attuale di mercato, ai sensi del terzo comma dell'art. 31 della legge n. 1089, estensivamente applicato. La Corte remittente ritiene, infine, che ai dedotti profili di illegittimità non potrebbe opporsi un supposto carattere sanzionatorio della prelazione, sia in quanto tale carattere non si concilierebbe con la discrezionalità che è riconosciuta all'Amministrazione in ordine all'effettuazione della prelazione stessa, sia in quanto detta prelazione può essere disposta indipendentemente dall'applicazione delle sanzioni di cui all'art. 63 della legge n. 1089, sulla base di valutazioni afferenti al pubblico interesse e non quale conseguenza di una condanna penale.
2.- È intervenuto nel giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri sostenendo l'inammissibilità o comunque l'infondatezza della prospettata questione. Secondo l'interveniente, la questione sarebbe inammissibile in quanto nè il dispositivo nè la motivazione dell'ordinanza di rimessione consentirebbero una precisa ed univoca individuazione della norma sospettata di illegittimità costituzionale. Inoltre, la questione risulterebbe posta in termini alternativi tra la totale caducazione del- l'art. 61, secondo comma, e la sua parziale illegittimità nella parte in cui esso non prevede che la prelazione su atti non denunciati debba essere comunque esercitata entro due mesi dalla ottenuta conoscenza dell'alienazione da parte dell'Amministrazione. Risulterebbero così vulnerati - a giudizio dell'interveniente - sia il principio della certezza dell'oggetto del giudizio di costituzionalità, sia il principio che vieta di disarticolare l'effetto delle sentenze della Corte costituzionale dal loro contenuto dichiarativo. Nel merito, la questione è ritenuta infondata in considerazione della specificità del regime che regola il diritto di proprietà sui beni artistici notificati, ai sensi della legge n. 1089 del 1939, per il loro interesse particolarmente importante. In particolare, la prelazione storico-artistica non potrebbe essere direttamente equiparata ad altri vincoli alla proprietà, comportanti effetti espropriativi, in settori diversi quali l'urbanistica o la tutela paesaggistica. Nel caso in esame, infatti, la soggezione del proprietario al potere espropriativo si coniugherebbe con un obbligo di cooperazione nei confronti della pubblica amministrazione posto a carico del proprietario stesso, nella forma della denuncia dell'alienazione. Pertanto, la permanenza della soggezione al potere di prelazione, in caso di inadempimento da parte del proprietario all'obbligo di denuncia, sarebbe ragionevolmente correlata alla permanenza di detto inadempimento, con la conseguenza che solo il sopravvenire del dovuto adempimento potrebbe far cessare l'illimitatezza temporale dell'esercizio del potere di prelazione.
3.- Il Verusio, parte nel giudizio a quo, si è costituito nel presente giudizio per chiedere l'accoglimento della questione. L'interveniente premette di non condividere l'interpretazione dell'art. 61, secondo comma, accolta dalla Corte di cassazione, secondo la quale, a fronte di una mancata o incompleta denuncia, sarebbe riconosciuta allo Stato una facoltà di prelazione senza limiti di tempo. A suo giudizio, la normativa in questione implicherebbe comunque il rispetto del termine di due mesi dalla data di piena conoscenza della vendita non denunciata. In ogni caso, non potrebbe ritenersi legittimo un potere di espropriazione senza limiti di tempo, tanto più quando - come nel caso di specie - si sia in presenza non già di una omissione di denuncia bensì di denuncia contenente delle irregolarità. Risulterebbe, quindi, una ingiusta ed arbitraria disparità di trattamento tra chi abbia effettuato la denuncia, pur contenente alcune irregolarità, e chi abbia, invece, del tutto omesso la denuncia stessa. Quest'ultimo percepirebbe per effetto della prelazione un prezzo pari al valore attuale di mercato del bene, mentre il primo otterrebbe solo il valore riferito al contratto denunciato, pur a distanza di molti anni, come nel caso oggetto del giudizio a quo.
4.- Anche il Pierangeli, parte nel giudizio a quo, si è costituito nel giudizio aderendo alle richieste formulate nell'ordinanza di rimessione.
5.- Infine, anche il Beyeler si è costituito in giudizio, sempre per chiedere l'accoglimento della questione. L'interveniente sostiene che la norma dell'art. 61 avrebbe un carattere sanzionatorio, ma che questo si esprimerebbe esclusivamente nella nullità di diritto del negozio non denunciato, senza ulteriori e diversi gravami a carico dei soggetti contraenti. In particolare, la prelazione richiamata da detto art. 61 non sarebbe istituto diverso da quello di cui agli artt. 31 e 32 della legge n. 1089 e dovrebbe, pertanto, attuarsi con le ordinarie forme previste da tali norme. Risulterebbe, quindi, del tutto ingiustificato l'assoggettamento del diritto dell'alienante al potere dell'Amministrazione di esercitare in ogni tempo la prelazione, non potendosi ritenere conforme ai principi dell'ordinamento che la circolazione di un bene possa essere sottoposta, senza vincoli temporali, alla possibile attivazione di un intervento ablatorio da parte dell'Amministrazione. Il principio della attivazione del potere dell'Amministrazione a decorrere dal momento della conoscenza dei presupposti del potere stesso sarebbe, del resto, presente in tutta la normativa in materia di espropriazione per pubblica utilità oltre che nella recente normativa comunitaria sulla restituzione dei beni illecitamente usciti dal territorio nazionale. L'interveniente insiste, infine, sul profilo della quantificazione dell'indennizzo che, secondo i principi costituzionali, non potrebbe comunque non essere determinata anche - pur se non esclusivamente - in riferimento al valore effettivo del bene al momento dell'esercizio della prelazione.
6.- In prossimità dell'udienza, sia il Presidente del Consiglio dei ministri sia le parti Verusio e Beyeler hanno presentato ampie memorie per sviluppare le tesi prospettate nei rispettivi atti di intervento e replicare alle deduzioni avversarie.
Considerato in diritto
1.- Con l'ordinanza in esame le sezioni unite civili della Corte di cassazione sollevano questione di legittimità costituzionale, per violazione degli artt. 3 e 42 della Costituzione, nei confronti del disposto coordinato degli artt. 61, 31 e 32 della legge 1° giugno 1939, n. 1089 (Tutela delle cose di interesse artistico e storico). L'art. 61 della legge in questione dispone, al primo comma, che "le alienazioni, le convenzioni e gli atti giuridici in genere, compiuti contro i divieti stabiliti dalla presente legge e senza l'osservanza delle condizioni e modalità da essa prescritte sono nulli di pieno diritto" e, al secondo comma, che "resta sempre salva la facoltà del Ministro (per i beni culturali e ambientali) di esercitare il diritto di prelazione a norma degli artt. 31 e 32". A loro volta, gli artt. 31 e 32 regolano le condizioni e le modalità per l'esercizio del diritto di prelazione, che, nell'ipotesi ordinaria - collegata all'avvenuta denuncia al Ministro dell'alienazione del bene da parte del proprietario - deve essere esercitata nel termine di due mesi dalla data della stessa denuncia (v. art. 32, primo comma, in relazione all'art. 30). Ad avviso della Cassazione le norme impugnate risulterebbero lesive degli artt. 3 e 42 della Costituzione sotto due profili e cioè: a) per l'"illimitata compressione del diritto reale dell'alienante, ingiustificatamente sottoposto ad un trattamento diverso da quello riservato ad ogni altro espropriato, essendo data facoltà all'amministrazione di porre in essere l'atto ablativo in ogni momento, con correlativa incertezza, del pari illimitata nel tempo, circa l'effettivo assetto dei rapporti giuridici concernenti il bene"; b) per la "mancata garanzia per l'espropriato di un adeguato indennizzo, in quanto la corresponsione di somme pari al prezzo contrattuale ben si attaglia alla sola ipotesi di prelazione esercitata nel breve lasso di due mesi, ma non anche a quella esercitabile in ogni tempo". Nel prospettare la questione, l'ordinanza muove da alcuni presupposti interpretativi, condivisi negli orientamenti prevalenti della giurisprudenza ordinaria ed amministrativa: in particolare, dalla considerazione che l'art. 61, secondo comma, consente, nei casi di omessa o irregolare denuncia, l'esercizio della prelazione senza limiti temporali e che la stessa prelazione storico-artistica, per i suoi caratteri differenziati dalla prelazione di diritto comune, va ricondotta nella categoria generale degli atti espropriativi (e questo tanto più quando la prelazione venga esercitata, come nel caso del secondo comma dell'art. 61, in relazione a negozi riconosciuti nulli).
2.- Vanno in primo luogo esaminate le eccezioni di inammissibilità prospettate dalla difesa statale. Ad avviso dell'Avvocatura dello Stato, la questione sarebbe inammissibile per non avere esattamente individuato l'oggetto del giudizio (cioè la norma impugnata), nonchè per il fatto di aver enunciato due diverse soluzioni di accoglimento indicate in via alternativa. Nè l'una nè l'altra di tali eccezioni possono essere accolte. In primo luogo va rilevato che dal contenuto dell'ordinanza - e, in particolare, dalla connessione tra il dispositivo e la motivazione della stessa - l'individuazione dell'oggetto del giudizio emerge chiara senza dar luogo a dubbi. Tale oggetto investe, nel suo nucleo centrale, la previsione dell'esercizio del diritto di prelazione senza limiti temporali disciplinata nel secondo comma dell'art. 61, norma il cui contenuto risulta specificato e integrato - oltre che attraverso la connessione con il primo comma dello stesso articolo - dal richiamo espresso agli artt. 31 e 32. Il riferimento al "disposto coordinato" degli artt. 61 e 32, espresso nel dispositivo dell'ordinanza, anzichè rendere incerti, serve, pertanto, a completare e meglio definire i termini della questione. Nè assume maggiore valore l'eccezione relativa al presunto carattere alternativo della questione proposta. Tale carattere viene riferito al fatto che nell'ordinanza risulta prospettata la possibilità di un duplice esito del giudizio e cioè sia la caducazione totale del secondo comma dell'art. 61 sia la dichiarazione d'illegittimità delle norme denunciate nella parte in cui non prevedono che il termine stabilito dall'art. 32, primo comma, debba decorrere, nel caso di prelazione esercitata ai sensi dell'art. 61, dalla data in cui l'Amministrazione abbia acquisito la piena conoscenza dei dati dei quali è obbligatoria la denuncia. Tale prospettazione viene, peraltro, enunciata soltanto nella motivazione relativa alla rilevanza della questione, al fine di argomentare che la rilevanza stessa - collegata ad un giudizio sulla giurisdizione - sarebbe destinata a permanere anche nell'ipotesi di un accoglimento parziale della questione quale quella sopra richiamata. Si tratta, quindi, di una formulazione limitata ad un passaggio della motivazione, che non viene minimamente a incidere sul carattere unitario della questione proposta, quale si desume dal dispositivo dell'ordinanza il cui petitum risulta incentrato sulla dichiarazione d'illegittimità del "disposto coordinato" degli artt. 61, 31 e 32 della legge n. 1089 del 1939.
3.- Nel merito, la questione non è fondata. Per quanto concerne l'asserita lesione dell'art. 3 della Costituzione, l'ordinanza, muovendo dal riconoscimento del carattere di "provvedimento espropriativo" della prelazione storico-artistica - tanto più se esercitata, ai sensi dell'art. 61, secondo comma, della legge n. 1089, nel caso di nullità del negozio di trasferimento del bene -, contesta la disparità di trattamento che il soggetto colpito da tale misura viene a subire rispetto a tutti gli altri soggetti sottoposti a procedimenti espropriativi. Ad avviso del giudice a quo , chi subisce la prelazione in questione, oltre a percepire un "indennizzo calcolato in modo del tutto diverso da quanto previsto in materia di espropriazione e senza possibilità di revisione in sede amministrativa o giudiziaria", è sottoposto, in relazione ai limiti temporali, ad "un trattamento ingiustificatamente deteriore rispetto a colui che sia assoggettabile all'ordinario procedimento espropriativo": e questo in relazione al fatto che "mentre tutte le leggi in tema di espropriazione per pubblica utilità assegnano all'espropriante rigorosi termini decadenziali, la prelazione ex art. 61 non solo non è sottoposta a decadenza, ma non soggiace nemmeno al limite della prescrizione" (che potrebbe decorrere soltanto a seguito di regolare denuncia). Un ulteriore profilo di disparità viene, poi, denunciato ponendo a confronto la situazione di chi abbia effettuato una denuncia irregolare, tenuto a percepire il prezzo denunciato - che, per il tempo decorso al momento della prelazione, potrebbe risultare del tutto inadeguato - con quella di chi, invece, abbia omesso di fare la denuncia, che, in assenza di un prezzo denunciato, potrebbe - ad avviso del giudice a quo - percepire un indennizzo calcolato ai sensi dell'art. 31, terzo comma, della legge 1089 (in base cioè al valore attuale di mercato): con un conseguente, ingiustificato trattamento più favorevole concesso al soggetto responsabile dell'inadempienza più grave. Tali argomentazioni non possono essere condivise, perchè trascurano di considerare il carattere del tutto peculiare del regime giuridico fissato per le cose di interesse storico e artistico dalla legge 1089 del 1939 e, nell'ambito di tale regime, dell'istituto della prelazione storico-artistica: un regime che trova nell'art. 9 della Costituzione il suo fondamento e che si giustifica nella sua specificità in relazione al fine di salvaguardare beni cui sono connessi interessi primari per la vita culturale del paese. L'esigenza di conservare e di garantire la fruizione da parte della collettività delle cose di interesse storico e artistico - che siano state sottoposte a notifica ai sensi dell'art. 3 della legge n. 1089 - giustifica, di conseguenza, per tali beni l'adozione di particolari misure di tutela che si realizzano attraverso poteri della pubblica amministrazione e vincoli per i privati differenziati dai poteri e dai vincoli operanti per altre categorie di beni, sia pure gravati da limiti connessi al perseguimento di interessi pubblici. Questo porta ad escludere la comparabilità delle procedure ablative connesse al settore della tutela artistica e storica con le ordinarie procedure espropriative previste per beni di diversa natura. Ciò vale, in particolare, per la prelazione storico- artistica, che, pur manifestando - quanto meno nel caso contemplato dal secondo comma dell'art. 61 - una sostanza ablativa, è istituto ben distinto dagli ordinari provvedimenti di natura espropriativa. Basti solo considerare che, a differenza di quanto accade nelle ordinarie procedure espropriative, la prelazione viene a collegarsi ad una iniziativa (trasferimento a titolo oneroso) che non è attivata dalla parte pubblica, bensì dalla parte privata, titolare del bene: e questo nonostante che la stessa prelazione, ove sia esercitata in conseguenza della violazione di un preciso obbligo imposto al privato (denuncia del trasferimento), venga chiaramente a configurarsi come istituto in cui prevale, sul profilo negoziale, il profilo autoritativo. Non sussiste, dunque, alcun elemento che consenta di comparare, sotto il profilo della violazione del principio di eguaglianza, le modalità della prelazione storico-artistica - e, in particolare, le modalità temporali del suo esercizio - con quelle proprie degli ordinari istituti espropriativi. Nè può valere il richiamo, operato nella ordinanza sempre sotto il profilo della violazione dell'art. 3 della Costituzione, alla disparità di trattamento tra i soggetti che hanno effettuato una denuncia irregolare e quelli che non hanno fatto alcuna denuncia. Tale disparità non sussiste, per chè la corretta lettura della disciplina posta in tema di prelazione (e, in particolare, nell'art. 31, primo comma) induce a ritenere che anche per questa seconda categoria di soggetti il prezzo da erogare non possa essere altro che quello pattuito all'atto del trasferimento e non quello corrispondente al valore venale del bene all'atto della prelazione . Il prezzo in questione, ove non conosciuto, andrà, pertanto, individuato attraverso l'adozione di idonei mezzi di prova, riferiti al valore del bene in relazione alle condizioni esistenti nel mercato all'atto del trasferimento.
4.- Infondata si presenta anche la censura formulata con riferimento all'art. 42 della Costituzione. Tale censura, nell'ordinanza di rimessione, viene prospettata in relazione all'assenza di un "adeguato indennizzo per l'espropriato", dal momento che l'esercizio della prelazione senza limiti temporali non potrebbe non condurre alla conseguenza di alterare il rapporto tra prezzo erogato (riferito alla data dell'alienazione non denunciata o irregolarmente denunciata) e valore di mercato del bene (riferito alla data dell'esercizio della prelazione). Ora, non si può certo dubitare del fatto che l'esercizio della prelazione a distanza di molto tempo dalla alienazione possa determinare - in conseguenza sia della svalutazione monetaria che della rivalutazione del bene sul mercato - uno scarto anche elevato tra prezzo corrisposto e valore reale del bene "espropriato" con conseguente danno economico per il venditore sottoposto a prelazione tardiva (e questa è, del resto, l'ipotesi che, in concreto, ricorre nella fattispecie che ha dato luogo al giudizio a quo): ma da tale premessa non si può anche trarre la conseguenza che l'odinanza di rimessione intende affermare in ordine alla illegittimità costituzionale della prelazione storico-artistica di cui al secondo comma dell'art. 61 della legge n. 1089 del 1939 per inadeguatezza dell'indennizzo. In proposito due sono i profili che vanno rilevati. Il primo attiene, ancora una volta, alla peculiarità dell'istituto della prelazione storico-artistica che - pur manifestando, nell'ipotesi di cui al secondo comma dell'art. 61, una sostanza ablativa - viene, come sopra si accennava, a differenziarsi sensibilmente dagli istituti connessi agli ordinari procedimenti espropriativi. Questo punto induce, in primo luogo, a sottolineare la difficoltà di operare una piena assimilazione - quale quella operata nell'ordinanza di rinvio - tra prezzo della prelazione e indennità di esproprio. Si aggiunga che il prezzo della prelazione - quand'anche potesse ritenersi assimilabile alla indennità di esproprio, in quanto riferito ad un atto dichiarato "nullo di pieno diritto" - risulta pur sempre collegato ad un elemento negoziale rimesso alla libera contrattazione delle parti, elemento che, almeno nella normalità dei casi (riferibili all'esercizio della prelazione entro un arco temporale contenuto), non può assumere le connotazioni di un compenso, oltre che ridotto rispetto al valore reale del bene, del tutto irrisorio e simbolico e, pertanto, lesivo dei criteri desumibili in tema di indennizzo dall'art. 42 della Costituzione. Il secondo profilo attiene alla stessa natura della prelazione storico-artistica prevista dal secondo comma dell'art. 61, che la legge n. 1089 del 1939 viene a inquadrare nel Capo III, dedicato alle sanzioni. In proposito, il punto decisivo che va rilevato è che il danno economico che i con traenti vengono a subire in conseguenza dell'esercizio ritardato della prelazione da parte dell'Amministrazione non è altro che la conseguenza diretta dell'inadempimento realizzato dagli stessi contraenti a seguito della mancata presentazione di una denuncia regolare: inadempimento suscettibile di dar luogo ad una situazione di illiceità, che può essere, peraltro, rimossa in ogni momento da parte del privato mediante la presentazione tardiva della stessa denuncia. I rischi che in conseguenza dell'omessa o dell'irregolare denuncia (equiparate negli effetti ai sensi dell'art. 57 del r.d. 30 gennaio 1913, n. 363, richiamato dall'art. 73 della legge n. 1089) possono determinarsi ai fini della conservazione del bene al patrimonio culturale nazionale vengono, d'altra parte, a giustificare il particolare rigore della disciplina in esame: rigore che conduce a sanzionare l'inadempienza del privato non solo sul piano delle norme penali (art. 63), ma anche su quello delle norme di natura civilistica, attraverso la previsione della nullità (necessaria) dell'atto di alienazione compiuto in violazione delle prescrizioni in tema di denunzia (art. 61, primo comma) e della prelazione (eventuale) del bene pur in presenza di un negozio nullo. Nè - a differenza di quanto si afferma nell'ordinanza di rimessione - il carattere sanzionatorio di quest'ultima misura può ritenersi in contrasto con il suo esercizio discrezionale, dal momento che la misura stessa viene a operare su di un piano che non può essere equiparato a quello proprio delle sanzioni penali e delle sanzioni amministrative.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale del disposto coordinato degli artt. 61, 31 e 32 della legge 1° giugno 1939, n. 1089 (Tutela delle cose di interesse artistico e storico), sollevata, in relazione agli artt. 3 e 42 della Costituzione, con l'ordinanza indicata in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 14/06/95.
Antonio BALDASSARRE, Presidente
Enzo CHELI, Redattore
Depositata in cancelleria il 20/06/95.