Sentenza n. 189 del 1995

 CONSULTA ONLINE 

SENTENZA N.189

ANNO 1995

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori Giudici:

-     Prof. Antonio BALDASSARRE, Presidente

-     Prof. Vincenzo CAIANIELLO

-     Avv. Mauro FERRI

-     Prof. Luigi MENGONI

-     Prof. Enzo CHELI

-     Dott. Renato GRANATA

-     Prof. Giuliano VASSALLI

-     Prof. Francesco GUIZZI

-     Prof. Cesare MIRABELLI

-     Prof. Fernando SANTOSUOSSO

-     Avv. Massimo VARI

-     Dott. Cesare RUPERTO

-     Dott. Riccardo CHIEPPA

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 9 della legge 29 maggio 1982, n. 304 (Misure per la difesa dell'ordinamento costituzionale), promosso con ordinanza emessa il 6 giugno 1994 dal Tribunale di sorveglianza di Napoli sull'istanza proposta da Mallardo Giovanni, iscritta al n. S48 del registro ordinanze 1994 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 40, prima serie speciale, dell'anno 1994.

Udito nella camera di consiglio del 20 aprile 1995 il Giudice relatore Giuliano Vassalli.

Ritenuto in fatto

1. - Il Tribunale di sorveglianza di Napoli, chiamato a pronunciarsi in merito ad una istanza intesa ad ottenere la declaratoria di estinzione della pena principale e di quelle accessorie a seguito di concessione della liberazione condizionale a suo tempo disposta a norma dell'art. 8 della legge 29 maggio 1982, n. 304, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 27, terzo comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'art. 9 della medesima legge, nella parte in cui prevede la revoca della liberazione condizionale "in ogni tempo" ove si realizzino le condizioni che la norma stessa individua (commissione di un delitto non colposo per il quale la legge prevede la pena della reclusione superiore nel massimo a quattro anni ovvero se risulti che la liberazione condizionale è stata ottenuta a mezzo di dichiarazioni di cui sia stata giudizialmente accertata la falsità).

Dopo aver posto in risalto le notevoli peculiarità che caratterizzano - rispetto all'istituto previsto dall'art. 176 del codice penale - la liberazione condizionale "speciale" introdotta a favore dei condannati per fatti di eversione che abbiano beneficiato delle attenuanti della dissociazione o della collaborazione stabilite dagli artt. 2 e 3 della stessa legge n. 304 del 1982, il giudice a quo segnala anche le profonde diversità che separano nettamente fra loro il regime della revoca sancito dalla norma oggetto di impugnativa, rispetto alla disciplina che l'art. 177 del codice penale detta in tema di revoca della liberazione condizionale ed estinzione della pena. Diversità di disciplina, prosegue il giudice rimettente, che ha indotto la giurisprudenza a ritenere inapplicabile all'istituto previsto dalla legge speciale la libertà vigilata a norma dell'art. 230, primo comma, numero 2, del codice penale, proprio perché, non essendo prevista come causa di revoca la violazione dei relativi obblighi, l'eventuale inottemperanza della misura risulterebbe priva di qualsiasi sanzione.

Da ciò una "differenziazione ontologica" fra i due istituti posti a raffronto, giacché, mentre quello disciplinato dall'art. 176 del codice penale si atteggia nella prassi giudiziaria come misura alternativa diretta a favorire il reinserimento sociale, in quanto la reclusione è convertita in una misura limitativa della libertà personale (tale dovendosi infatti qualificare la libertà vigilata, anche alla luce della sentenza di questa Corte n. 282 del 1989), l'istituto previsto dalla legge speciale non assume certo le caratteristiche di misura alternativa, proprio perché non opera la sostituzione della pena con un'altra ma si limita a far cessare l'esecuzione della pena. Gli istituti, dunque, anche se nominalmente uguali, presentano una diversa natura, al punto da indurre il giudice a quo a ritenere la liberazione condizionale "speciale" più vicina alla sospensione condizionale della pena (o al nuovo istituto introdotto dall'art. 90 del d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309), in quanto si sarebbe "in presenza di una rinuncia da parte dello Stato all'esecuzione della condanna, che interviene nella fase esecutiva e non in quella di cognizione". Tenuto conto, quindi, di tale assimilazione "sul piano sistematico" e considerate le previsioni dettate in tema di estinzione del reato dall'art. 167 del codice penale (la cui disciplina generale è ripresa dall'art. 7 della legge n. 304 del 1982) e di estinzione della pena dall'art. 93 del d.P.R. n. 309 del 1990, la mancata previsione di un termine nell'art. 9 della legge n. 304 del 1982 determina, secondo il giudice a quo, una ingiustificata disparità di trattamento "tra condannati ammessi, sia pure con modalità e presupposti diversi, a fruire dello stesso beneficio".

D'altra parte, osserva ancora il rimettente, la possibilità di revocare in ogni tempo la liberazione condizionale non consente di individuare il momento a partire dal quale può calcolarsi il decorso del termine per ottenere la riabilitazione ed impedisce il decorso dei termini di prescrizione della pena. L'impossibilità, quindi, di conseguire la riabilitazione e, dunque, l'estinzione delle pene accessorie e degli altri effetti penali della condanna, contrasterebbe, secondo il giudice a quo, con l'art. 3 della Costituzione, in quanto si crea senza alcuna valida ragione "una categoria di condannati diversi", e con l'art. 27, terzo comma, della medesima Carta, giacché la riabilitazione "rappresenta il punto terminale del cammino del condannato verso il completo reinserimento sociale" e l'impossibilità di ottenere per suo tramite l'estinzione delle pene accessorie e di ogni altro effetto penale della condanna mantiene in vita una serie di vincoli che non tengono alcun conto del ravvedimento del condannato e del suo reinserimento sociale.

Considerato in diritto

1.-Il Tribunale di sorveglianza di Napoli dubita della legittimità costituzionale dell'art. 9 della legge 29 maggio 1982, n. 304 (Misure per la difesa dell'ordinamento costituzionale), nella parte in cui stabilisce che è possibile <in ogni tempo> la revoca della liberazione condizionale concessa ai sensi dell'art. 8 della stessa legge. A parere del giudice a quo, la revocabilità sine die del beneficio, sancita dalla norma oggetto di impugnativa al realizzarsi delle condizioni ivi previste, determina effetti confliggenti con gli artt. 3 e 27, terzo comma, della Costituzione, in quanto l'impossibilità di conseguire la riabilitazione, e con essa l'estinzione delle pene accessorie e degli effetti penali della condanna, da un lato <crea senza alcun giustificato e plausibile motivo una categoria di condannati diversi>, generando una disparità di trattamento tra persone ammesse a godere di benefici analoghi, dall'altro si pone in contrasto con il principio costituzionale della funzione rieducativa della pena, giacchè <lascia persistere una serie di limitazioni a prescindere dal ravvedimento e dal reinserimento sociale del condannato>.

2.-Sono note le ragioni di politica criminale che hanno ispirato la disciplina di particolare favore dettata dalla legge n. 304 del 1982; e sulla <logica> sottesa a tale provvedimento sono fin troppo eloquenti gli animati dibattiti svoltisi nel corso dei lavori parlamentari, dal cui serrato dipanarsi traspare con chiarezza la precisa scelta di introdurre un complesso di strumenti normativi eccezionali, volti ad assecondare la dissociazione dall'allora tristemente avvertito fenomeno della criminalità di tipo eversivo. La liberazione condizionale speciale si iscriveva appieno in quella logica, appalesandosi come strumento di natura squisitamente premiale che relegava sullo sfondo la funzione rieducativa che, al contrario, costituisce l'essenza dell'omonimo istituto ordinario. Come dottrina, giurisprudenza e lo stesso giudice a quo ammettono, infatti, alla liberazione condizionale prevista dalla normativa impugnata non si accompagna la libertà vigilata, rendendosi così evidente come il provvedimento liberatorio non sia volto al recupero <controllato> del condannato ma, assai più semplicemente, ad impedire la prosecuzione della esecuzione della pena. È significativo, a tale proposito, che nel disegno di legge di iniziativa governativa (n. 1562 presentato al Senato della Repubblica il 12 settembre 1981) fosse espressamente prevista, all'art. 11, la inapplicabilità della <disposizione di cui all'articolo 230, n. 2, del codice penale> e si motivasse tale scelta osservando come gli obblighi connessi alla libertà vigilata potevano costituire <un ostacolo di fatto ad un eventuale espatrio> quando, invece, si intendeva <non impedire che fra le misure adottabili nel corso del Programma per la protezione dei testimoni> si potesse <far ricorso anche all'espatrio>.

La possibilità di revocare in ogni tempo la liberazione condizionale, pertanto, si correlava intimamente al carattere eminentemente premiale dell'istituto, così da fungere come adeguata remora a commettere altri delitti o a rendere false dichiarazioni collaborative per ottenere i benefici: un aspetto, quest'ultimo, che trovava poi un simmetrico complemento nella eccezionale revisione in peius prevista dall'art. 10 della stessa legge n. 304 del 1982, non a caso recepita più di recente, in tema di criminalità mafiosa, nell'art. 8, comma 3, del decreto- legge 13 maggio 1991, n. 152, convertito dalla legge 12 luglio 1991, n. 203. Una eventuale dichiarazione di illegittimità costituzionale, dunque, inciderebbe direttamente su una precisa scelta operata dal legislatore, facendo venir meno proprio quella funzione di remora che la revocabilità del beneficio deve assumere nel sistema: il tutto, per di più, aggravato dal fatto che si verrebbe a creare un istituto <nuovo> e tale da generare esso stesso conseguenze di assai dubbia ragionevolezza, dal momento che si assisterebbe al paradosso di far dipendere la possibilità di revoca della liberazione condizionale dalla circostanza, del tutto occasionale, che la sentenza la quale accerti la falsità delle dichiarazioni sia divenuta irrevocabile prima o dopo l'estinzione della pena in relazione alla quale il beneficio è stato concesso. D'altra parte, non si vede per quale ragione, stante proprio la peculiarità dell'istituto, il termine per la riabilitazione dovrebbe essere assimilato in toto a quello previsto per la riabilitazione ordinaria, ben potendo il legislatore prevedere una diversità di regime in funzione della eterogeneità delle situazioni, una delle quali -va aggiunto-connotata da quella <eccezionalità> tipica dei provvedimenti di emergenza, fra i quali va certamente iscritta la legge n. 304 del 1982.

D'altronde, è lo stesso rimettente a mostrarsi consapevole delle notevoli peculiarità che caratterizzano la liberazione condizionale <speciale> rispetto all'omonimo istituto disciplinato dall'art. 176 del codice penale, al punto da tentare ardite assimilazioni con altri istituti che per la verità presentano caratteristiche quanto mai variegate, quali la sospensione condizionale della pena che, pure, riceve disciplina anch'essa speciale ad opera dell'art. 7 della medesima legge n. 304 del 1982, ovvero la particolare ipotesi di sospensione dell'esecuzione della pena detentiva prevista dall'art. 90 del d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, in favore dei condannati tossicodipendenti che abbiano in corso un programma terapeutico di recupero. Tentativi, quelli accennati, che rivelano la sostanziale impossibilità di ricondurre all'interno di un fenomeno unitario istituti che per caratteristiche, disciplina positiva e ratio che li ispira, presentano connotazioni fra loro profondamente eterogenee e che pertanto si appalesano del tutto inidonei a fungere da adeguati tertia comparationis agli effetti della soluzione delle censure che il giudice a quo propone.

Ecco svelarsi, dunque, l'intima contraddittorietà che inficia la premessa stessa da cui ha tratto alimento la questione. Da un lato, infatti, si postula la <differenziazione ontologica> che separerebbe nettamente tra loro la liberazione condizionale ordinaria da quella speciale; dall'altro si enuncia un petitum meramente caducatorio che dovrebbe rendere omologhi i due istituti. In sostanza, nella prospettiva che il giudice a quo sembra coltivare, le due forme di liberazione condizionale manterrebbero inalterate le proprie caratteristiche, ma produrrebbero i medesimi effetti estintivi, attraverso la vanificazione del meccanismo della revoca in ogni tempo che costituisce proprio la connotazione più saliente della liberazione condizionale speciale. Ove accolta, pertanto, la soluzione che il rimettente sollecita darebbe vita ad una sorta di ibrido tertium genus del tutto nuovo nel panorama degli istituti positivamente disciplinati.

La pluralità delle possibili soluzioni, nessuna delle quali costituzionalmente imposta, determina, quindi, l'inammissibilità della questione, giacchè spetta soltanto al legislatore il potere di individuare un adeguato meccanismo correttivo che determini l'auspicabile effetto di non escludere da un importante strumento di emenda, quale è la riabilitazione, i condannati che si siano avvalsi della normativa oggetto di censura, specie nelle ipotesi in cui, come nel caso dedotto, si trovavano nelle condizioni per beneficiare della liberazione condizionale ordinaria.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell'art. 9 della legge 29 maggio 1982, n. 304 (Misure per la difesa dell'ordinamento costituzionale), sollevata, in riferimento agli artt. 3 e 27, terzo comma, della Costituzione, dal Tribunale di sorveglianza di Napoli con l'ordinanza in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 17/05/95.

Antonio BALDASSARRE, Presidente

Giuliano VASSALLI, Redattore

Depositata in cancelleria il 23/05/95.