SENTENZA N. 28
ANNO 1995
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori Giudici:
- Prof. Francesco Paolo CASAVOLA, Presidente
- Prof. Gabriele PESCATORE
- Avv. Ugo SPAGNOLI
- Prof. Antonio BALDASSARRE
- Prof. Vincenzo CAIANIELLO
- Avv. Mauro FERRI
- Prof. Luigi MENGONI
- Dott. Renato GRANATA
- Prof. Giuliano VASSALLI
- Prof. Cesare MIRABELLI
- Prof. Fernando SANTOSUOSSO
- Avv. Massimo VARI
- Dott. Cesare RUPERTO
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 4, primo comma, della legge 30 dicembre 1986, n. 943 (Norme in materia di collocamento e di trattamento dei lavoratori extracomunitari immigrati e contro le immigrazioni clandestine), promosso con ordinanza emessa il 10 novembre 1993 dal Tribunale amministrativo regionale del Friuli-Venezia Giulia sul ricorso proposto da De Castro Carvalho Telma ed altro contro il Ministero degli Interni, iscritta al n. 209 del registro ordinanze 1994 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 17, prima serie speciale, dell'anno 1994.
Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio del 14 dicembre 1994 il Giudice relatore Ugo Spagnoli.
Ritenuto in fatto
1.- Nel giudizio promosso da Telma De Castro Carvalho e Odorico Erbino contro il Ministero degli interni, per l'annullamento del provvedimento con cui detto Ministero rigettava la domanda della ricorrente intesa ad ottenere il permesso di soggiorno per coesione familiare a favore del figlio minore Fabio Carvalho De Cerqueira, nonché della nota della Questura di Udine con la quale veniva comunicato il citato provvedimento ministeriale, il T.A.R. Friuli-Venezia Giulia-Trieste ha sollevato, in riferimento agli artt. 29 e 30 Cost., questione di legittimità costituzione dell'art. 4, primo comma, della legge 30 dicembre 1986, n. 943 (Norme in materia di collocamento e di trattamento dei lavoratori extracomunitari immigrati e contro le immigrazioni clandestine), nella parte in cui non consente il ricongiungimento di un figlio minore di un extracomunitario residente in Italia quale coniugato con un cittadino italiano, anche ove non svolga attività lavorativa retribuita.
In base al disposto di cui all'art. 4, primo comma, legge n. 943 del 1986, "I lavoratori extracomunitari legalmente residenti in Italia ed occupati hanno diritto al ricongiungimento con il coniuge nonché con i figli a carico non coniugati, considerati minori dalla legislazione italiana, i quali sono ammessi nel territorio nazionale e possono soggiornarvi per lo stesso periodo per il quale è ammesso il lavoratore e sempreché quest'ultimo sia in grado di assicurare ad essi normali condizioni di vita". Secondo il giudice a quo, la norma, ancorché contenuta in una legge finalizzata principalmente a disciplinare la posizione dei lavoratori extracomunitari in Italia, ha lo scopo ulteriore di favorire la riunificazione delle famiglie di detti lavoratori. Pertanto, costituisce attuazione dell'art. 29 Cost., che tutela la famiglia come società naturale fondata sul matrimonio. Tuttavia, ad avviso del giudice rimettente la limitazione della possibilità di ricongiungimento familiare ai soli lavoratori occupati in Italia contrasterebbe con lo stesso art. 29 Cost., in quanto consentirebbe di escludere da siffatto ricongiungimento chi, come la ricorrente, coniugata con un cittadino italiano, svolge l'attività lavorativa di casalinga, non retribuita, ma costituente indubbiamente un contributo al buon andamento della famiglia.
Sarebbe violato, peraltro, l'art. 30 Cost., che equipara i figli nati al di fuori del matrimonio a quelli cosiddetti legittimi, giacché la fattispecie impugnata precluderebbe il ricongiungimento alla madre di un figlio nato fuori del matrimonio.
2.- E' intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, concludendo per l'inammissibilità o, comunque per l'infondatezza della questione.
Secondo l'Avvocatura, al caso di specie non sarebbe applicabile la disposizione impugnata, bensì gli artt. 2 e 4 del decreto-legge 30 dicembre 1989, n. 416 (convertito, con modificazioni, nella legge 28 febbraio 1990, n. 39). In base al comma primo del citato art. 2 "I cittadini stranieri extracomunitari possono entrare in Italia per motivi di turismo, studio, lavoro subordinato o lavoro autonomo, cura, familiari e di culto". Mentre il citato art. 4 regola la durata del (permesso di) soggiorno, consentendo all'Amministrazione di calibrarla in relazione alla varietà delle esigenze, particolarmente di quelle familiari. Pertanto, la questione sarebbe inammissibile per irrilevanza, in quanto la disposizione impugnata non troverebbe applicazione nel giudizio a quo.
Peraltro la questione sarebbe comunque infondata. L'art. 4, primo comma, legge n. 943 del 1986, tutelando la condizione familiare del lavoratore (in attuazione della convenzione n. 143 dell'O.I.L., ratificata con legge n. 158 del 1981, che prevede una tutela differenziata "per i lavoratori che emigrano da un paese verso l'altro, in vista di un'occupazione, altrimenti che per proprio conto", in ragione della peculiarità degli immigrati per motivi di lavoro, rispetto agli altri immigrati) è in armonia con l'art. 29 e non viola l'art. 30 Cost. perché non fa alcuna differenza tra figli, anche se nati fuori dal matrimonio, come, invece, deduce l'ordinanza di rimessione.
Considerato in diritto
1.- La questione di legittimità costituzionale dell'art. 4 comma primo della legge 30 dicembre 1986, n. 943 è stata sollevata dal Tribunale amministrativo regionale del Friuli-Venezia Giulia nel corso di una controversia promossa da una cittadina brasiliana, cui era stata negata da parte del Ministero degli interni l'autorizzazione all'ingresso in Italia del figlio naturale, minore di età, e residente in Brasile. La richiesta era stata avanzata dalla madre, sposata con un cittadino italiano, per consentire al figlio di vivere con lei, presso la sua abitazione coniugale, ed era stata respinta in quanto la richiedente, essendo casalinga, "non svolgeva attività lavorativa e pertanto non si trovava nelle condizioni di cui all'art. 4 della legge n. 943 del 1986 che consente il ricongiungimento familiare dei figli minori" ai "lavoratori extracomunitari residenti in Italia e occupati".
I giudici remittenti, accogliendo l'eccezione di incostituzionalità sollevata dalla ricorrente, hanno ritenuto che la citata norma, escludendo la possibilità di ricongiungimento familiare agli stranieri extracomunitari residenti e sposati in Italia, che svolgono l'attività non retribuita di casalinga, confliggesse con l'art. 29 della Costituzione che tutela la famiglia come società naturale fondata sul matrimonio e con l'art. 30 della stessa Carta che equipara i figli nati fuori del matrimonio ai figli legittimi.
2.- Va, in primo luogo, disattesa l'eccezione di inammissibilità per irrilevanza prospettata dall'Avvocatura generale dello Stato, secondo la quale, l'esistenza nell'ordinamento vigente di una disposizione che consente che l'amministrazione rilasci il permesso di soggiorno per motivi "familiari" (art. 2 decreto-legge n. 416 del 1989, come convertito nella legge n. 39 del 1990) renderebbe inutile l'estensione dell'applicabilità, al caso di specie, della disposizione impugnata.
Al riguardo è da osservare che è del tutto diversa la ratio del permesso di soggiorno per motivi di famiglia da quella del ricongiungimento familiare. Mentre il primo dei due istituti in questione ha natura temporanea e rinnovabile solo a discrezione dell'amministrazione, il ricongiungimento è configurato come un diritto del lavoratore immigrato ed è legato alle sorti di costui, in quanto - come afferma la norma impugnata - perdura "per lo stesso periodo per il quale è ammesso il lavoratore e sempreché quest'ultimo sia in grado di assicurare ad essi normali condizioni di vita".
3.- Il giudice a quo, sollevando incidente sull'art. 4 della legge n. 943 del 1986, ha implicitamente respinto la ipotesi interpretativa, avanzata nel corso del giudizio dalla ricorrente, secondo la quale la sua situazione di casalinga dovrebbe essere equiparata ai fini del ricongiungimento, a quella di un lavoratore extracomunitario residente in Italia e occupato.
L'esclusione di una siffatta ipotesi interpretativa, però, non può essere condivisa da questa Corte.
4.- La normativa in parola, infatti - come del resto nota anche il giudice a quo - pur essendo ricompresa in una legge di tutela delle condizioni del lavoratore subordinato extracomunitario, acquista una sua autonoma rilevanza nel momento in cui fa riferimento all'istituto della ricongiunzione familiare, nel quale si considerano e si proteggono diritti - quali quelli della famiglia ed in particolare del minore - tutelati dalla Costituzione e riconosciuti da una molteplicità di atti internazionali (a partire dalla Dichiarazione dei diritti dell'uomo del 1948).
L'art. 4, primo comma, della legge n. 943 del 1986 attribuisce al lavoratore immigrato un vero e pro prio diritto al ricongiungimento della sua famiglia, diritto che implica l'ammissione e il soggiorno del coniuge e dei figli minori nel territorio italiano; costoro, inoltre, una volta legalmente residenti in Italia non possono essere privati del permesso di soggiorno nel caso in cui il lavoratore immigrato perda il posto di lavoro (art. 11 comma terzo della legge).
La specificità della legge si esprime pertanto nella garanzia di una esigenza - la convivenza del nucleo familiare - che si radica nelle norme costituzionali che assicurano protezione alla famiglia e in particolare, nell'ambito di questa, ai figli minori.
Il diritto e il dovere di mantenere, istruire ed educare i figli, e perciò di tenerli con sè, e il diritto dei genitori e dei figli minori ad una vita comune nel segno dell'unità della famiglia sono infatti diritti fondamentali della persona che perciò spettano in via di principio anche agli stranieri contemplati dalla legge qui in esame.
Naturalmente, questi diritti possono essere assoggettati ai limiti derivanti dalla necessità di realizzarne un corretto bilanciamento con altri valori dotati di pari tutela costituzionale, come del resto avviene nel caso di specie in cui l'esigenza del ricongiungimento familiare viene collegata alla condizione che lo straniero immigrato sia in grado di assicurare ai propri familiari "normali condizioni di vita".
Così individuate le finalità della norma in esame, e i valori cui essa si ispira, non può, anche per un'ulteriore e decisiva considerazione, ritenersi accettabile l'interpretazione che restringe i destinatari dell'istituto del ricongiungimento familiare ai soli immigrati extracomunitari titolari di lavoro subordinato, escludendone chi svolge lavoro familiare.
Infatti, anche il lavoro effettuato all'interno della famiglia, per il suo valore sociale ed anche economico, può essere ricompreso, sia pure con le peculiari caratteristiche che lo contraddistinguono, nella tutela che l'art. 35 della Costituzione assicura al lavoro "in tutte le sue forme".
Si tratta di una specie di attività lavorativa che è già stata oggetto di svariati riconoscimenti per il suo rilievo sociale ed anche economico, anche per via degli indiscutibili vantaggi che ne trae l'intera collettività e, nel contempo, degli oneri e delle responsabilità che ne discendono e gravano - ancora oggi - quasi esclusivamente sulle donne (anche per estesi fenomeni di disoccupazione).
Così si può ricordare, per esempio, l'art. 230 bis del codice civile che, apportando una specifica garanzia al familiare che, lavorando nell'ambito della famiglia o nell'impresa familiare, presta in modo continuativo la sua attività, mostra di considerare in linea di principio il lavoro prestato nella famiglia alla stessa stregua del lavoro prestato nell'impresa.
Il valore del lavoro familiare è stato poi alla base della risoluzione del Parlamento europeo 13 gennaio 1986 e della pronunzia di questa Corte n. 78 del 1993 (con la quale è stato affermato il diritto alla rivalutazione dei contributi versati per la previdenza a favore delle casalinghe), mentre le esigenze di tutela di chi presta lavoro familiare sono state oggetto di ripetute iniziative parlamentari nel corso di varie legislature con riferimento ad aspetti - connessi alle prestazioni lavorative - di natura previdenziale, infortunistica e di protezione della maternità.
In sostanza, il rilievo assunto dall'attività lavorativa all'interno della famiglia, non può non comportare la conseguenza che tale attività debba essere assimilata alle forme di "occupazione" che la legge qui contestata richiede per l'attivazione dell'istituto del ricongiungimento familiare.
Pertanto, la disposizione impugnata, nel caso di specie, deve intendersi nel senso che anche la cittadina extracomunitaria che presti - nel nostro Paese - lavoro nella propria famiglia deve essere ricompresa nel novero dei lavoratori che hanno diritto al ricongiungimento con figli minori che risiedono all'estero.
La diversa interpretazione della norma impugnata postulata dal giudice a quo, non solo apparirebbe insostenibile alla luce delle esposte considerazioni, ma, soprattutto, sarebbe lesiva delle norme costituzionali che assicurano protezione alla famiglia, ai minori e al lavoro.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara non fondata, nei sensi di cui in motivazione, la questione di legittimità costituzionale dell'art. 4, primo comma, della legge 30 dicembre 1986, n. 943 (Norme in materia di collocamento e di trattamento dei lavoratori extracomunitari immigrati e contro le immigrazioni clandestine), in riferimento agli artt. 29 e 30 della Costituzione, sollevata dal T.A.R. Friuli-Venezia Giulia-Trieste con l'ordinanza indicata in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 12 gennaio 1995.
Francesco Paolo CASAVOLA, Presidente
Ugo SPAGNOLI, Relatore
Depositata in Cancelleria il 19 gennaio 1995.