Sentenza n. 27 del 1995

 CONSULTA ONLINE 

SENTENZA N. 27

ANNO 1995

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori Giudici:

-        Prof. Francesco Paolo CASAVOLA Presidente

-        Prof. Gabriele PESCATORE

-        Avv. Ugo SPAGNOLI

-        Prof. Antonio BALDASSARRE

-        Prof. Vincenzo CAIANIELLO

-        Avv. Mauro FERRI

-        Prof. Luigi MENGONI

-        Prof. Enzo CHELI

-        Dott. Renato GRANATA

-        Prof. Giuliano VASSALLI

-        Prof. Francesco GUIZZI

-        Prof. Cesare MIRABELLI

-        Prof. Fernando SANTOSUOSSO

-        Avv. Massimo VARI

-        Dott. Cesare RUPERTO

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 555, comma 2, del codice di procedura penale, in relazione all'art. 414 del medesimo codice promosso con ordinanza emessa il 17 febbraio 1994 dal Pretore di Brescia - sezione distaccata di Breno - nel procedimento penale a carico di Fostera Giovanni iscritta al n. 270 del registro ordinanze 1994 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 21, prima serie speciale, dell'anno 1994.

Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 9 novembre 1994 il Giudice relatore Ugo Spagnoli.

Ritenuto in fatto

1.- Investito del giudizio in ordine a una imputazione per la quale era stato in un primo tempo emesso provvedimento di archiviazione, cui aveva fatto seguito l'emissione del decreto di citazione a giudizio in assenza della autorizzazione alla riapertura delle indagini prevista dall'art. 414 cod. proc. pen., il Pretore di Brescia, sezione distaccata di Breno, ha sollevato, in riferimento all'art. 24 Cost., questione di legittimità costituzionale dell'art. 555, comma 2, cod. proc. pen., in relazione all'art. 414 citato, nella parte in cui "non consente di rilevare o eccepire la nullità del decreto di citazione nel caso di mancata autorizzazione alla riapertura delle indagini preliminari".

Espone il giudice a quo che l'imputazione per la quale era stata esercitata l'azione penale, relativa a una fattispecie perseguibile a querela di parte, era la stessa per la quale era stata a suo tempo disposta l'archiviazione; e che il pubblico ministero, a seguito di sollecitazione della parte lesa (estrinsecatasi formalmente in un nuovo atto di querela, peraltro tardivo), aveva provveduto a nuova iscrizione, per l'identico fatto, nel registro delle notizie di reato e proceduto a ulteriori indagini preliminari, conclusesi con l'emissione del decreto di citazione a giudizio, senza curarsi di richiedere preventivamente al giudice per le indagini preliminari l'autorizzazione prescritta dall'art. 414 cod. proc. pen..

Tale anomalia procedurale, a parere dell'organo remittente, non è adeguatamente sanzionata, essendo solo possibile ritenere l'inutilizzabilità degli atti delle nuove indagini a norma dell'art. 191 cod. proc. pen.; ma non potendosi impedire l'efficacia dell'atto di esercizio dell'azione penale, cui, pertanto, fa seguito inevitabilmente la fase del giudizio.

In tal modo verrebbe elusa la funzione di controllo attribuita al giudice per le indagini preliminari dall'art. 414 cod. proc. pen., consentendosi al pubblico ministero di esercitare liberamente l'azione penale senza che siano previamente rimossi dall'organo giurisdizionale gli effetti del decreto di archiviazione.

Ne deriva, secondo il Pretore, la menomazione del diritto di difesa, non essendo possibile all'imputato, in mancanza di specifiche previsioni normative, di eccepire davanti al giudice del dibattimento l'invalidità del decreto di citazione a giudizio.

2.- E' intervenuto nel giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, concludendo per l'inammissibilità e, in subordine, per l'infondatezza della questione.

Osserva in primo luogo l'Avvocatura dello Stato che il remittente è incorso in un'evidente aberratio ictus, poiché, stando alla prospettazione della questione, il contrasto con l'art. 24 Cost. deriverebbe non dalla norma impugnata, ma dall'art. 414 cod. proc. pen., in quanto non contemplante una sanzione processuale per l'inosservanza da parte del pubblico ministero del dovere di richiedere l'autorizzazione al giudice ai fini della riapertura delle indagini.

Nel merito, il diritto di difesa sarebbe pienamente tutelato, sia che si ritenga, come sostiene il giudice a quo e parte della giurisprudenza, che gli atti di indagine non preceduti da autorizzazione del giudice per le indagini preliminari siano inutilizzabili, poiché in tal caso l'imputato sarebbe tratto a giudizio sulla base dei soli elementi raccolti nella fase conclusasi con l'archiviazione, sia che si configuri l'autorizzazione alla riapertura delle indagini come condizione di procedibilità, in mancanza della quale si imporrebbe il proscioglimento dell'imputato con la relativa formula.

Considerato in diritto

1.- E' stata sollevata la questione del contrasto con l'art. 24 Cost. dell'art. 555, comma 2, cod. proc. pen., in relazione all'art. 414 del medesimo codice, nella parte in cui "non consente di rilevare o eccepire la nullità del decreto di citazione nel caso di mancata autorizzazione alla riapertura delle indagini preliminari", per la menomazione del diritto di difesa conseguente alla impossibilità per l'imputato, in mancanza di specifiche previsioni normative, di eccepire davanti al giudice del dibattimento l'invalidità del decreto di citazione a giudizio.

Ad avviso del giudice remittente, l'ordinamento non contempla alcuna sanzione processuale per il caso in cui il pubblico ministero abbia esercitato l'azione penale in ordine al medesimo fatto per il quale sia stata precedentemente disposta l'archiviazione, senza previamente richiedere e ottenere l'autorizzazione alla riapertura delle indagini prescritta dall'art. 414 cod. proc. pen..

Né, a sanzionare tale condotta contraria alla legge processuale, potrebbe ritenersi sufficiente la conseguenza della inutilizzabilità degli atti di indagine, perché ciò non avrebbe alcun formale effetto sull'atto dell'esercizio dell'azione penale, in mancanza di una previsione di nullità che si ricolleghi a tale ipotesi.

2.- Va rigettata l'eccezione di inammissibilità dell'Avvocatura generale dello Stato, che ha sostenuto che la norma da sottoporre a censura avrebbe dovuto essere quella recata dall'art. 414 cod. proc. pen., in quanto non contemplante una sanzione processuale per l'inosservanza da parte del pubblico ministero del dovere di richiedere l'autorizzazione al giudice ai fini della riapertura delle indagini.

Nella prospettiva del giudice remittente, infatti, l'omessa previsione normativa concerne proprio la nullità che, nella ipotesi dedotta, dovrebbe inficiare l'atto di esercizio dell'azione penale; atto che, trattandosi di procedimento pretorile, si estrinseca nel decreto di citazione a giudizio regolato appunto dall'art. 555 cod. proc. pen., norma, dunque, correttamente sottoposta a censura.

3.- Va premesso che, diversamente dal previgente ordinamento processuale, il nuovo codice di rito penale assegna una efficacia (limitatamente) preclusiva al provvedimento di archiviazione.

Ciò è reso esplicito proprio dal citato art. 414, in base al quale, dopo l'archiviazione, l'inizio di un nuovo procedimento è subordinato a un provvedimento autorizzatorio del giudice.

Tale provvedimento ha dunque l'effetto di rendere possibile il riaprirsi di un procedimento per il fatto già archiviato e, all'esito di esso, l'eventuale esercizio dell'azione penale, che, in difetto dell'autorizzazione, sarebbe precluso.

Ora, la caratteristica indefettibile di ogni ipotesi di preclusione è quella di rendere improduttivi di effetti l'atto o l'attività preclusi; ed è naturalmente compito del giudice quello di sancire tale inefficacia.

4.- Se si prende ad esempio il caso più eminente di preclusione, quello del giudicato, può rilevarsi che, qualora sia iniziato un secondo giudizio per il medesimo fatto, il giudice ha il dovere di pronunciare sentenza (a seconda delle fasi processuali, di proscioglimento o di non luogo a procedere), "enunciandone la causa nel dispositivo" (art. 649, comma 2, cod. proc. pen.).

Ma anche nel caso in esame, nel quale parimenti deve ritenersi precluso l'esercizio dell'azione penale, in quanto riguardante il medesimo fatto già oggetto di un provvedimento di archiviazione, in carenza di autorizzazione del giudice a riaprire le indagini, è la instaurabilità di un nuovo procedimento e, quindi, la "procedibilità" a essere impedita; sicché se il presupposto del procedere manca, il giudice non può che prenderne atto, dichiarando con sentenza, appunto, che "l'azione penale non doveva essere iniziata" (cfr. artt. 529, 469, 425, nonché, sia pure in termini formalmente non identici, art. 129, cod. proc. pen.).

E' quanto si verifica, ancora, qualora sia esercitata l'azione penale per un fatto per il quale sia stata pronunciata sentenza di non luogo a procedere nell'udienza preliminare, in mancanza della revoca giudiziale prevista dagli artt. 434-437 cod. proc. pen.. Anche in questa ipotesi la regola della declaratoria dell'effetto preclusivo, sub specie di sentenza di improcedibilità dell'azione penale, è da ritenere espressa in termini generali dalle disposizioni sopra menzionate, dovendosi pertanto reputare ininfluente che il nuovo codice, a differenza di quanto comunemente si affermava con riferimento a quello abrogato (art. 90 cod. proc. pen. del 1930), non consideri specificamente tale situazione nell'ambito dell'istituto del ne bis in idem (v. artt. 649, comma 1, e 648, comma 1, cod. proc. pen.).

5.- Giova sottolineare che il petitum perseguito dal giudice a quo (sanzione di nullità dell'atto di esercizio dell'azione penale) appare del tutto inadeguato a risolvere l'"anomalia" procedimentale da cui ha tratto le mosse la presente questione di costituzionalità. Invalidato l'atto di impulso processuale, residuerebbe un procedimento eternamente in vana attesa di definizione giudiziale: esso non potrebbe mai risolversi in sede processuale, ma nemmeno essere nuovamente archiviato, se non altro perché il giudice, ai fini di un nuovo provvedimento di archiviazione, non potrebbe delibare atti di indagine espletati contra legem.

6.- Poiché, invece, l'ordinamento, sistematicamente considerato, appresta già un rimedio atto a sanzionare processualmente l'esercizio dell'azione penale per un fatto già oggetto di un provvedimento di archiviazione, in mancanza dell'autorizzazione giudiziale ai sensi dell'art. 414 cod. proc. pen., la questione deve essere dichiarata non fondata.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 555, comma 2, del codice di procedura penale, in relazione all'art. 414 del medesimo codice, sollevata, in riferimento all'art. 24 della Costituzione, dal Pretore di Brescia, sezione distaccata di Breno, con l'ordinanza in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 12 gennaio 1995.

Francesco Paolo CASAVOLA, Presidente

Ugo SPAGNOLI, Redattore

Depositata in cancelleria il 19 gennaio 1995.