Sentenza n. 407 del 1994

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SENTENZA N. 407

 

ANNO 1994

 

 

REPUBBLICA ITALIANA

 

In nome del Popolo Italiano

 

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

 

 

composta dai signori:

 

Presidente

 

Prof. Francesco Paolo CASAVOLA

 

Giudici

 

Prof. Gabriele PESCATORE

 

Avv. Ugo SPAGNOLI

 

Prof. Vincenzo CAIANIELLO

 

Avv. Mauro FERRI

 

Prof. Luigi MENGONI

 

Prof. Enzo CHELI

 

Prof. Giuliano VASSALLI

 

Prof. Francesco GUIZZI

 

Prof. Cesare MIRABELLI

 

Prof. Fernando SANTOSUOSSO

 

Avv. Massimo VARI

 

Dott. Cesare RUPERTO

 

ha pronunciato la seguente

 

SENTENZA

 

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 500, primo e quarto comma, del codice di procedura penale, promosso con ordinanza emessa il 12 luglio 1993 dal Tribunale di Torino nel procedimento penale a carico di Lalario Paolo, iscritta al n.608 del registro ordinanze 1993 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 42, prima serie speciale, dell'anno 1993.

 

Visto l'atto di intervento del _Presidente del Consiglio dei ministri;

 

udito nella camera di consiglio del 26 ottobre 1994 il Giudice relatore Mauro Ferri.

 

Ritenuto in fatto

 

1. Con ordinanza emessa il 12 luglio 1993, il Tribunale di Torino ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'art. 500, primo e quarto comma, del codice di procedura penale, in quanto non consente che possa essere oggetto di contestazione, e successiva acquisizione, il contenuto della denuncia presentata da un privato.

 

Premesso che il difensore dell'imputato aveva chiesto di poter contestare al denunciante-persona offesa, ai sensi dell'art. 500, primo comma, del codice di procedura penale, le dichiarazioni dal medesimo rese in sede di denuncia (al fine della eventuale acquisizione della stessa ex art. 500, quarto comma, del codice medesimo), e che il pubblico ministero si era opposto alla richiesta, il giudice a quo osserva che la norma impugnata, non consentendo di contestare, e quindi di acquisire a fini probatori, il contenuto di una denuncia, viola i principi di ragionevolezza, di uguaglianza e di non dispersione dei mezzi di prova enunciati da questa Corte con la sentenza n. 255 del 1992.

 

In particolare, sarebbe irragionevole, ad avviso del remittente, mettere su piani diversi le dichiarazioni rese dalla persona offesa alla polizia giudiziaria o al pubblico ministero e trasfuse nel relativo verbale, e quelle contenute in scritti o altri mezzi di rappresentazione del pensiero, depositate o inviate all'autorità giudiziaria o di polizia giudiziaria: in entrambe le ipotesi, infatti, il contenuto della denuncia è identico, essendo diverse soltanto le modalità di acquisizione e di documentazione.

 

A differenza, inoltre, del caso in cui la persona offesa, convocata dal pubblico ministero, confermi a verbale la denuncia precedentemente fatta pervenire all'autorità giudiziaria, qualora tale conferma non avvenga si viene a disperdere, senza alcuna valida ragione, un mezzo di prova altrimenti utilizzabile e si vanifica il fine primario della ricerca della verità, che deve sempre ispirare il giudice penale.

 

Infine, conclude il giudice a quo, risulta violato il diritto di difesa nei casi in cui, come quello in esame, il denunciante abbia reso dichiarazioni in contrasto con il contenuto della denuncia: nella specie, non è possibile al difensore far rilevare delle difformità tra le deposizioni rese in dibattimento dalla persona offesa e la denuncia dalla stessa a suo tempo inviata all'autorità giudiziaria.

 

2. É intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, concludendo per l'infondatezza della questione.

 

Osserva l'Avvocatura dello Stato che la denuncia, essendo destinata a fornire la notitia criminis, è atto che si forma al di fuori del procedimento ed è privo di funzione probatoria, per cui non è possibile metterla sullo stesso piano delle deposizioni testimoniali. Nè sussiste violazione del diritto di difesa, in quanto le parti si trovano in identica situazione di fronte ad un atto inutilizzabile.

 

Considerato in diritto

 

1. Il Tribunale di Torino solleva, in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'art. 500, primo e quarto comma, del codice di procedura penale, nella parte in cui non consente che, per contestare il contenuto della deposizione testimoniale, le parti possano servirsi del contenuto della denuncia a suo tempo presentata per iscritto dal testimone all'autorità giudiziaria, con successiva eventuale acquisizione al fascicolo per il dibattimento: in particolare, nella fattispecie, la norma impugnata, ad avviso del remittente, impedisce al difensore dell'imputato di far rilevare, in sede di controesame, delle difformità tra la deposizione resa dal denunciante in dibattimento e quanto da lui dichiarato nella denuncia inviata all'autorità giudiziaria.

 

Ciò determina, secondo il giudice a quo, in primo luogo la violazione del principio di ragionevolezza, per ingiustificata dispersione di un mezzo di prova (sent. n. 255 del 1992), in quanto la possibilità di contestazione viene a dipendere soltanto dalle modalità di acquisizione e di documentazione della denuncia, la quale, se è presentata oralmente o se, pur inviata per iscritto, è successivamente confermata dinanzi all'autorità giudiziaria, viene recepita in un verbale, con la conseguenza di poter poi essere oggetto di contestazione ai sensi della norma impugnata.

 

La denunciata preclusione comporterebbe, in secondo luogo, la violazione dell'art. 24 della Costituzione, poichè, in tutti i casi in cui il con tenuto della deposizione testimoniale sia in contrasto con quello della denuncia, il divieto per il difensore di far rilevare tale difformità costituisce lesione del diritto di difesa.

 

2. La questione non è fondata.

 

Il Tribunale remittente muove dalla implicita, ma evidente, premessa secondo cui la possibilità di far rilevare difformità tra la deposizione dibatti mentale del teste e qualsiasi altra precedente acquisizione (anche di provenienza dal medesimo soggetto) trovi il suo unico strumento nell'art. 500 del codice di procedura penale, per cui, quando il ricorso a tale norma debba ritenersi inammissibile - come avviene, ad avviso del giudice a quo, nella fattispecie - la menzionata facoltà resterebbe radicalmente esclusa.

 

Tale tesi non è condivisibile.

 

L'art. 500 disciplina le "contestazioni" nell'esame testimoniale con riferimento alle "dichiarazioni precedentemente rese dal testimone e contenute nel fascicolo del pubblico ministero", attribuendo al giudice, in presenza di determinate condizioni, la possibilità di valutarle come prova dei fatti in esse affermati.

 

Ma è evidente che la norma in esame - la quale mira essenzialmente ad individuare un meccanismo di recupero al fascicolo dibattimentale di determinati atti di indagine - non incide sull'ordinario esercizio del potere di domanda delle parti, potere che, come afferma anche la relazione al progetto preliminare, "deve esplicarsi in tutta la sua latitudine, utilizzando perciò ogni precedente acquisizione".

 

Deve, pertanto, ritenersi che non è affatto impedito al difensore dell'imputato, sia pure al solo scopo - che del resto in sede di controesame è quello per lui essenziale - di influire sulla valutazione dell'attendibilità del teste, di porre all'esaminando domande intese ad evidenziare un contrasto tra la deposizione dibattimentale e qualsiasi altra risultanza, diversa da quelle indicate nell'art.500, ivi compreso, quindi, il contenuto della denuncia dal medesimo a suo tempo redatta.

 

In conclusione, l'ordinamento processuale consente, sia pure con effetti limitati, ciò che il giudice remittente ritiene invece radicalmente precluso: ne consegue che la questione, poggiando su un erroneo presupposto interpretativo, va dichiarata non fondata.

 

PER QUESTI MOTIVI

 

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 500, primo e quarto comma, del codice di procedura penale, sollevata, in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione, dal Tribunale di Torino con l'ordinanza in epigrafe.

 

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 10 novembre 1994.

 

Francesco Paolo CASAVOLA, Presidente

 

Mauro FERRI, Redattore

 

Depositata in cancelleria il