Sentenza n.373 del 1994

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SENTENZA N. 373

ANNO 1994

REPUBBLICA ITALIANA

In nome del Popolo Italiano

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori Giudici

Prof. Gabriele PESCATORE Presidente

Avv. Ugo SPAGNOLI

Prof. Vincenzo CAIANIELLO

Avv. Mauro FERRI

Prof. Luigi MENGONI

Prof. Enzo CHELI

Dott. Renato GRANATA

Prof. Giuliano VASSALLI

Prof. Francesco GUIZZI

Prof. Cesare MIRABELLI

Prof. Fernando SANTOSUOSSO

Avv. Massimo VARI

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nei giudizi di legittimità costituzionale degli artt. 245 e 250 del decreto legislativo 28 luglio 1989, n. 271 (Norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del codice di procedura penale), promossi con n. 11 ordinanze emesse il 26 ed il 24 gennaio 1994 dal Tribunale di Venezia nei procedi menti di riesame nei confronti di M.R.ed altri, iscritte ai nn. da 162 a 172 del registro ordinanze 1994 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 14, prima serie speciale, dell'anno 1994.

Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio dell'8 giugno 1994 il Giudice relatore Francesco Guizzi;

Ritenuto in fatto

 

1. Con cinque ordinanze, pronunciate nel corso del procedimento per il riesame dei mandati di cattura emessi dal giudice istruttore nei confronti di M.R. e altri, il Tribunale di Venezia ha sollevato questione di legittimità costituzionale degli artt. 250 e 245 del decreto legislativo 28 luglio 1989, n. 271 (Norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del codice di procedura penale), nella parte in cui non prevedono l'applicabilità dell'art. 309 codice di procedura penale nei procedimenti che proseguono con il rito disciplinato dal codice abrogato. L'art. 309 consente, ai sensi dell'art. 127 codice procedura penale, di dare avviso dell'udienza in camera di consiglio al difensore dell'imputato e di depositare gli atti in cancelleria a disposizione delle parti fino al giorno dell'udienza. I procedimenti in questione, invece, proseguono con le norme del codice abrogato ai sensi dell'art. 242, comma 1, lett. c), delle disposizioni transitorie; norme che si applicano anche ai procedimenti incidentali relativi ai provvedimenti sulla libertà personale adottati in epoca successiva all'entrata in vigore del nuovo codice. Gli artt. 245 e 250 delle disposizioni transitorie, di cui al decreto legislativo n. 271 del 1989, non comprendono il già citato art.309 tra le norme di immediata vigenza riguardanti i procedimenti che proseguono con il vecchio rito.

2. Secondo il giudice a quo la disciplina applicabile al caso di specie, costituita dagli artt. 263 bis e 263 ter codice di procedura penale abrogato, violerebbe il diritto alla difesa, in quanto prevede la partecipazione del difensore all'udienza e non il suo accesso agli atti processuali, il cui deposito e la cui conoscibilità sono vietati. Di qui, la menomazione del diritto di difendersi sia attraverso la confutazione di ciò che risulta dagli atti sia attraverso la prova di ciò che non risulta. Essa, inoltre, farebbe sì che due fatti identici, commessi nello stesso periodo, a seconda che siano regolati dalla vecchia o dalla nuova disciplina dei procedimenti di riesame, sarebbero irragionevolmente trattati in modo difforme. Tanto più che l'inserimento di una misura cautelare in un procedimento regolato dalle norme del vecchio rito potrebbe dipendere da dati occasionali, quali le ragioni di connessione e le proroghe legislative (l'ultima delle quali scade il 31 dicembre 1994). Altra ipotesi di illegittimità costituzionale - ad avviso del rimettente - è possibile cogliere, poi, anche con riferimento all'art. 76 della Costituzione.

La Corte costituzionale - ricorda il Tribunale di Venezia - ha stabilito che il silenzio dell'art. 6 della legge delega, quanto a principi e criteri direttivi, non potrebbe intendersi come < una indiscriminata rimessione al legislatore delegato dell'apprezzamento del se e del come> raccordare gli istituti già esistenti alle norme del nuovo codice, mentre esse dovrebbero armonizzarsi con i principi e i criteri richiamati nell'art. 2 della medesima legge delega, < su cui il codice è stato costruito> (sent.n. 68 del 1991

). E nell'emanare le disposizioni transitorie - prosegue l'ordinanza - il legislatore delegato ha previsto la sopravvivenza degli artt.263 bis e 263 ter che sarebbero incompatibili con i canoni regolatori del nuovo codice contenuti, nella materia de qua, nell'art. 309 codice di procedura penale e riassumibili nel principio del contraddittorio da farsi ugualmente valere nel procedimento di riesame.

3. La questione sarebbe rilevante, in quanto il Tribunale dovrebbe decidere, in camera di consiglio, senza dare avviso al difensore d'ufficio (nei casi in cui manchi quello di fiducia) e senza che siano stati depositati gli atti in cancelleria, a disposizione della difesa. L'accoglimento consentirebbe di fissare la nuova udienza camerale per l'esame dei ricorsi, nel merito, con le forme dell'art. 309.

4. Con altre sei ordinanze di pari data, si è, altresì, eccepita l'incostituzionalità delle norme in esame anche con riferimento all'art.13 della Costituzione. La mancata previsione nell'art. 309 - riguardante il regime delle impugnazioni dei provvedimenti cautelari - inciderebbe < sull'inalienabile diritto alla libertà personale>.

5. É intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, concludendo per l'inammissibilità e, in linea subordinata, per l'infondatezza della questione.

Essa sarebbe inammissibile, perchè sollevata dalle parti private (e fatta propria dal collegio giudicante) a seguito del diniego del rilascio di copia degli atti trasmessi dal giudice istruttore al Tribunale per la decisione sull'istanza di riesame. Ma l'art. 309 codice procedura penale non riconoscerebbe alla difesa il diritto di estrarre copia degli atti depositati dal pubblico ministero: il tribunale rimettente - sostiene l'Avvocatura - avrebbe perciò potuto legittimamente negare la pretesa sulla base delle conformi disposizioni contenute nella vecchia e nella nuova disciplina.

Sotto il diverso profilo della conoscibilità degli atti depositati, la questione sarebbe invece rilevante, ancorchè manifestamente infondata, riguardando una materia che rientra nella discrezionalità del legislatore, il quale soltanto potrebbe stabilire il momento in cui una nuova disciplina processuale debba entrare in vigore: il che non comporterebbe disparità, trattandosi di casi ascrivibili al principio generale di successione della legge processuale nel tempo.

Non vi sarebbe, poi, neppure violazione del diritto di difesa, essendo questo comunque esercitabile dal difensore anche nella vigenza della precedente disciplina di cui all'art. 263-ter codice procedura penale.

Al difensore sarebbe infatti garantita la facoltà di depositare memorie e scritti a supporto delle tesi sulle quali si fonda la richiesta di riesame, e sarebbe consentito l'intervento in camera di consiglio al fine di illustrarla. Non è d'altronde un caso che la dottrina - valutando le innovazioni introdotte nell'art. 263-ter codice procedura penale dalla legge 5 agosto 1988, n. 330 - avrebbe superato i propri dubbi nei confronti della precedente disciplina del procedimento di riesame.

Considerato in diritto

 

1. Viene all'esame della Corte, per l'ipotizzato contrasto con gli artt.3, 13, 24, secondo comma, e 76 della Costituzione, la questione di legittimità costituzionale degli artt. 245 e 250 del decreto legislativo 28 luglio 1989, n. 271 (Norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del codice di procedura penale), nella parte in cui non prevedono l'applicabilità dell'art. 309 codice di procedura penale ai procedimenti, i quali - proseguendo con le regole stabilite dal codice abrogato - non consentono di dare avviso dell'udienza in camera di consiglio al difensore d'ufficio dell'imputato e, soprattutto, di depositare gli atti in cancelleria mettendoli a disposizione delle parti fino al giorno dell'udienza.

Le questioni sollevate con le undici ordinanze sono sostanzialmente identiche e, pertanto, vanno congiuntamente trattate e decise.

Secondo il giudice a quo, la mancata estensione della disciplina, più garantista, dell'udienza camerale comporterebbe:

a) ingiustificata disparità di trattamento di situazioni identiche, anche in relazione a fatti commessi nello stesso periodo temporale, dipendendo la diversa disciplina (vecchio o nuovo rito per il riesame dei provvedimenti cautelari) da fatti accidentali, quali proroghe legislative o ragioni di connessione;

b) compressione del diritto alla libertà personale;

c) violazione del diritto di difesa dell'imputato, che non può altresì non estrinsecarsi nella facoltà di conoscere gli atti posti a base del provvedimento e di estrarne copia;

d) contrasto con l'art. 6 della legge delega, in relazione ai principi e criteri direttivi di cui all'art. 2 della medesima legge (riferimento alla sent. n. 68 del 1991).

2. La disciplina del riesame dei provvedimenti riguardanti la libertà personale dell'imputato ha conosciuto una rapida evoluzione legislativa.

Introdotta dalla legge 12 agosto 1982, n. 532, con chiaro riferimento all'istituto anglosassone dell'habeas corpus, la < richiesta di riesame> avanti il cosiddetto tribunale della libertà non consentiva tuttavia al difensore, sul piano procedurale, di interloquire nella pienezza del contraddittorio e di superare il muro del segreto istruttorio, ma permetteva soltanto di contestare gli indizi di colpevolezza come enunciati nel provvedimento < impugnato>. Con la legge 5 agosto 1988, n.330, fu prevista la possibilità, per il difensore, < di intervenire in camera di consiglio, per illustrare> la richiesta di riesame. Tale intervento doveva essere, però, preventivamente richiesto al presidente del tribunale, competente a fissare la data della trattazione entro cinque giorni dal ricevimento degli atti e a diramare gli avvisi, almeno due giorni prima, al difensore ed al pubblico ministero (che avevano facoltà di partecipare all'udienza camerale).

La disciplina testè richiamata è completamente superata dall'art.309, comma 8, del codice procedura penale del 1988. La nuova normativa, infatti, comporta sempre la trattazione nelle forme indicate dall'art. 127 dello stesso codice: la possibilità di audizione diretta delle parti e dei loro difensori (oltre che del pubblico ministero) e il deposito degli atti in cancelleria a loro disposizione fino al giorno dell'udienza. Il che permette all'imputato - diversamente dal passato - di avere diretta conoscenza degli elementi a suo carico e, quindi, di correlare a quelli la sua linea difensiva. Questa disciplina più garantista non si applica, però, a quei procedimenti che, ai sensi dell'art. 242, comma 1, lett.c), delle disposizioni transitorie, proseguono con le norme del codice abrogato, il che costituisce precipuo oggetto della menzionata censura di incostituzionalità.

3. La questione è inammissibile.

Per quanto possano apparire comprensibili le doglianze espresse dal giudice a quo, non si può prescindere dalla natura e funzione della disciplina transitoria che, in più occasioni, questa Corte ha ritenuto compatibile con la Costituzione. Tale disciplina, condizionata com'è dalle esigenze connesse al passaggio dal vecchio al nuovo ordinamento processuale, non irragionevolmente consente la ultrattività di norme che sono espressione di un sistema caratterizzato dalla segretezza istruttoria, dall'unicità del fascicolo processuale e da tutte quelle "anomalie" connaturate alla figura (scomparsa) del giudice istruttore.

L'eventuale accoglimento della questione non potrebbe condurre dunque questa Corte al meccanico trasferimento della disciplina del codice del 1988 ai procedimenti instaurati con il vecchio rito e contraddistinti dai suddetti elementi ostativi. Per soddisfare il petitum del giudice a quo sono infatti profilabili varie soluzioni, necessariamente appartenenti alla sfera di discrezionalità del legislatore, tutte volte a graduare, e modulare, sia l'intervento delle parti all'udienza camerale sia la conoscenza degli atti relativi al fascicolo processuale.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

riuniti i giudizi, dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale degli artt. 250 e 245 del decreto legislativo 28 luglio 1989, n. 271 (Norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del codice di procedura penale), sollevata, in relazione agli artt. 3, 13, 24, secondo comma, e 76 della Costituzione, dal Tribunale di Venezia con le ordinanze indicate in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 24 ottobre 1994.

Gabriele PESCATORE, Presidente

Francesco GUIZZI, Redattore

Depositata in cancelleria il 27 Luglio 1994.