SENTENZA N. 365
ANNO 1994
REPUBBLICA ITALIANA
In nome del Popolo Italiano
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori Giudici
Prof. Gabriele PESCATORE Presidente
Avv. Ugo SPAGNOLI
Prof. Vincenzo CAIANIELLO
Avv. Mauro FERRI
Prof. Luigi MENGONI
Prof. Enzo CHELI
Dott. Renato GRANATA
Prof. Giuliano VASSALLI
Prof. Francesco GUIZZI
Prof. Cesare MIRABELLI
Prof. Fernando SANTOSUOSSO
Avv. Massimo VARI
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 35, primo comma, del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 636 (Disciplina del contenzioso tributario), promosso con ordinanza emessa il 26 novembre 1992 dalla Commissione tributaria centrale sul ricorso proposto da Fusco Giuseppe contro l'Ufficio distrettuale delle Imposte dirette di Roma, iscritta al n. 649 del registro ordinanze 1993 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n.44, prima serie speciale, dell'anno 1993.
Visto l'atto di costituzione di Fusco Giuseppe, nonchè l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nell'udienza pubblica del 5 luglio 1994 il Giudice relatore Massimo Vari;
uditi gli Avvocati Claudio Consolo e Alessandro Cogliati Dezza per Fusco Giuseppe e l'Avvocato dello Stato Franco Favara per il Presidente del Consiglio dei ministri.
Ritenuto in fatto
1.- Con ordinanza del 26 novembre 1992 (R.O. n. 649 del 1993), la Commissione tributaria centrale ha sollevato -nel giudizio pendente fra Fusco Giuseppe e l'Ufficio distrettuale delle Imposte dirette di Roma- questione di legittimità costituzionale dell'art. 35, primo comma, del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 636 (Disciplina del contenzioso tributario) -per come sostituito dall'art. 23 del d.P.R. 3 novembre 1981, n. 739-, relativamente all'inciso "al fine di conoscere i fatti rilevanti per la decisione", sotto il profilo dell'eccesso di potere legislativo in relazione agli artt. 3 e 53 della Costituzione.
2.- Premette l'ordinanza che il contribuente, nel ricorrere innanzi alla Commissione tributaria centrale, ha lamentato, prioritariamente, la violazione dell'art. 112 del codice di procedura civile da parte della Commissione tributaria di secondo grado, facendo carico a quest'ultima di "aver ritenuto non corretta la motivazione contenuta nell'atto di accertamento" e di averla quindi "sostituita in sede processuale" con conseguente "mutatio libelli in relazione alla natura del processo tributario, il quale avrebbe ad oggetto esclusivamente l'atto e la sua legittimità". Nella specie, l'Ufficio distrettuale delle imposte dirette di Roma aveva rideterminato i redditi del Fusco ai fini IRPEF ed ILOR, relativamente agli anni 1981 e 1982, sulla base del principio dell'accumulazione di risparmio quinquennale, mentre la Commissione tributaria di primo grado, con una pronunzia confermata dal giudice di secondo grado, al fine di ribadire la non veridicità della dichiarazione, era ricorsa ad altre argomentazioni, attinenti segnatamente alla impossibilità di individuare una chiara connessione fra gli investimenti e i disinvestimenti operati dal Fusco.
Il remittente, rammentato che, secondo non poche pronunce, il processo tributario potrebbe concludersi, accertata l'"inadeguatezza" della motivazione, solo con l'annullamento dell'atto, osserva come detto processo si distingua da quello amministrativo "per la profonda diversità dei relativi presupposti sostanziali"; differenza questa che, nella giurisprudenza di Cassazione, viene espressa nella formula del processo tributario non come processo di impugnazione-annullamento bensì come pro cesso di impugnazione-merito, che però lascia irrisolto il problema dei limiti entro i quali il giudice tributario possa conoscere del rapporto, riproponendo la questione della rilevanza della motivazione dell'atto ai fini di una piena cognizione.
Il problema, secondo l'ordinanza, troverebbe il suo punto di emersione nella definizione dei limiti dei poteri istruttori del giudice tributario, ai quali è dedicata la norma denunciata, "comunemente -anche se non pacificamente- interpretata nel senso che comunque non sia possibile acquisire prove su fatti diversi da quelli" indicati nella motivazione dell'atto di accertamento ai sensi dell'art. 42 del d.P.R. n. 600 del 1973.
Detta interpretazione, fondata sull'inciso "al fine di conoscere i fatti rilevanti per la decisione", sarebbe incostituzionale: a) sotto il profilo dell'irrazionalità e dell'eccesso di potere legislativo, per essere la piena cognizione del rapporto ammessa soltanto a favore del contribuente; b) per violazione degli artt. 3 e 53 della Costituzione, per risultare, di fatto, esclusa, in ragione dei "tempi medi di accertamento e di chiusura delle controversie", la possibilità di garantire l'adempimento dell'obbligo tributario, "intervenuta la sentenza di annullamento", in contrasto anche con il principio di eguaglianza sostanziale.
3.- Si è costituito in giudizio il Fusco, rappresentanto e difeso dagli avvocati Claudio Berliri e Claudio Consolo, per chiedere una declaratoria, "in via principale e con ordinanza", di manifesta infondatezza e, "in subordine, con sentenza", di infondatezza della questione proposta deducendo, tra l'altro, che:
a) è "sostanzialmente costante", in dottrina, e "assolutamente dominante", in giurisprudenza, un orientamento contrario alla possibilità di integrazione o rettifica, ad opera del giudice tributario, della originaria motivazione dell'atto di accertamento;
b) i parametri invocati risultano poco pertinenti, dal momento che "esprimono la loro carica precettiva" sul piano della normativa sostanziale tributaria e non su quello processuale;
c) il divieto della mutatio libelli e della sostituzione del giudice alla p.a. appaiono garantiti, più che dall'art. 35, dagli artt.16, 19 bis, 21 e 46 del d.P.R. n. 636 del 1972; in tal senso depongono anche gli artt. 112 e 115 del codice di procedura civile.
4.- É intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura dello Stato, che nel chiedere una declaratoria di inammissibilità ovvero di infondatezza della questione, osserva che:
a) la formulazione attuale dell'art. 35 del d.P.R. n.636 del 1972, dal quale sono state eliminate -a proposito dei fatti sui quali la Commissione ha poteri istruttori- le parole "dedotti in causa dalle parti", conferma, insieme al carattere "officioso" del processo tributario, anche l'ampiezza dei poteri istruttori del giudice;
b) l'asserito impedimento, per il giudice tributario, di "acquisire prove su fatti diversi da quelli indicati in motivazione", non è ravvisabile nella norma impugnata nè desumibile dall'inciso proposto all'esame: semmai impedimento vi fosse (e non v'è), esso deriverebbe dall'art.42, secondo comma, del d.P.R. n. 600 del 1973, che prevede l'indicazione nell'avviso di accertamento dei soli fatti e circostanze che "aprono la porta" all'accertamento sintetico e induttivo.
5.- In prossimità dell'udienza, la difesa della parte privata ha presentato una memoria con la quale, nell'insistere nella richiesta di declaratoria "di infondatezza o in subordine di inammissibilità", si deduce tra l'altro che la limitazione dei poteri istruttori alla finalità prevista nella norma impugnata risulta in sintonia con gli artt. 24, 103 e 113 della Costituzione e si nega, nel contempo, che il giudice tributario sia legittimato ad acquisire prove su fatti e circostanze non dedotti dalle parti.
6.- Anche l'Avvocatura ha presentato, in prossimità dell'udienza, un'ulteriore memoria nella quale, tra l'altro, si afferma che le parole "al fine di conoscere i fatti rilevanti per la decisione", contenute nell'art. 35, "non contraddicono alcun parametro costituzionale", essendo del tutto neutrali e coerenti con la logica di qualsiasi processo giurisdizionale.
Si deduce inoltre che:
a) "i parametri degli artt. 3 e 53 della Costituzione operano nei riguardi di tutte le disposizioni tributarie";
b) la violazione dell'art. 112 c.p.c., lamentata davanti alla Commissione remittente, "non sussiste in fatto" e dunque la questione di costituzionalità risulta "artificiosa", in quanto nella specie il giudice tributario ha utilizzato non fatti nuovi addotti dall'ufficio, ma prospetti e indicazioni fornite dallo stesso contribuente a sua difesa. Si osserva, altresì, che "non v'è alcuna norma nè costituzionale nè ordinaria che impedisca in via generale all'amministrazione o al giudice di correggere o meglio mettere a fuoco le argomentazioni in punto di fatto o in punto di diritto contenute nella motivazione di un avviso di accertamento". Nella specie la Commissione ha deciso la controversia utilizzando la "normale logica del giudice", senza attivare i propri poteri istruttori.
Considerato in diritto
1.- La Corte è chiamata a stabilire se l'art. 35, primo comma, del d.P.R.26 ottobre 1972, n.636 (Disciplina del contenzioso tributario), per come sostituito dall'art.23 del d.P.R. 3 novembre 1981, n. 739 (Revisione della disciplina del contenzioso tributario), contrasti con gli artt. 3 e 53 della Costituzione, "relativamente all'inciso al fine di conoscere i fatti rilevanti per la decisione".
Ad avviso del giudice remittente la norma denunciata, interpretata "comunemente, anche se non pacificamente" nel senso che alle Commissioni tributarie sarebbe precluso di "acquisire prove su fatti diversi da quelli che devono essere indicati nella motivazione dell'avviso di accertamento, ai sensi dell'art. 42 del d.P.R. n. 600 del 1973", si presterebbe ad un duplice ordine di censure:
a) sotto il profilo della irrazionalità e dell'eccesso di potere legislativo, "atteso che la cognizione piena del rapporto (tributario) è pacificamente ammessa a favore del contribuente, il quale può introdurre nel processo nuovi fatti, con le relative prove";
b) per violazione degli artt. 3 e 53 della Costituzione, "perchè la combinazione dei tempi medi di accertamento e di chiusura delle controversie esclude di fatto, ma con certezza statistica, la possibilità di garantire l'adempimento dell'obbligo tributario, una volta che sia intervenuta la sentenza di annullamento per difetto di motivazione, violando in tal modo anche il principio di eguaglianza sostanziale".
2.- La questione è inammissibile.
Dispone la norma denunciata che "la Commissione tributaria, al fine di conoscere i fatti rilevanti per la decisione, ha tutte le facoltà di accesso, di richiesta di dati, di informazioni e chiarimenti, conferite agli uffici tributari dalle singole leggi di imposta".
La Commissione tributaria centrale, investita di un ricorso nel quale il contribuente, fra i motivi di impugnazione, deduceva la violazione dell'art. 112 del codice di procedura civile, sotto il profilo dell'ultrapetizione da parte del giudice di secondo grado, per aver questi sostituito, in sede processuale, la motivazione dell'atto di accertamento ritenuta "non corretta", ritiene che la questione portata al suo esame debba essere inquadrata nel più ampio problema dell'identificazione dell'oggetto del processo tributario.
Trattasi, invero, di problema che, come ricorda la stessa ordinanza, ha dato occasione, in dottrina e in giurisprudenza, ad un ampio dibattito, nel quale sono venuti emergendo due indirizzi: quello secondo il quale il processo tributario va considerato come giudizio di impugnazione dell'atto, circoscritto, perciò, alla verifica della legittimità dello stesso, avuto riguardo, tra l'altro, all'adeguatezza della motivazione; e quello secondo il quale esso ha per oggetto il rapporto obbligatorio di imposta, nell'ambito del quale il giudice deve accertare i presupposti della pretesa dell'amministrazione, assunti a fondamento del provvedimento impugnato.
Con una prospettazione non priva di problematicità ma, in fondo, adesiva all'opzione ermeneutica proposta dallo stesso contribuente, il remittente ritiene che la tesi secondo la quale il giudice, una volta verificata la illegittimità dell'atto sub specie di difetto di motivazione, potrebbe solo pronunziarne l'annullamento, induce a vagliare la norma denunciata sotto il profilo della compatibilità con i principi di cui agli artt. 3 e 53 della Costituzione.
In termini di generale orientamento, la Corte potrebbe limitarsi a ricordare come essa stessa abbia avuto occasione, già da tempo, di prendere posizione sul tema affermando che il ricorso del contribuente, ancorchè formalmente diretto all'atto impositivo, investe in realtà la sussistenza e l'entità dell'obbligazione tributaria, sicchè la pronunzia del giudice consiste fondamentalmente nell'accertamento dell'obbligazione stessa e, in via conseguenziale, della legittimità degli atti posti in essere dall'amministrazione finanziaria per provvedere alla riscossione coattiva dell'imposta (sentenze n. 63 del 1982 e n. 313 del 1985).
A sua volta la Corte di cassazione, con indirizzo ormai consolidato, ritiene che il giudizio tributario è costruito, formalmente, come giudizio di impugnazione dell'atto, ma tende all'accertamento sostanziale del rapporto, nel senso che l'atto è il veicolo di accesso al giudizio di merito, al quale si perviene per il tramite dell'impugnazione dell'atto. Secondo detta giurisprudenza, l'impugnazione concerne quindi la legittimità formale e sostanziale del provvedimento con la precisazione, peraltro, che al giudizio di merito sul rapporto non è dato pervenire quando ricorrano determinati vizi formali dell'atto stesso, in presenza dei quali il giudice deve arrestarsi alla sua invalidazione.
Il mero richiamo di tali precedenti non sembra tuttavia idoneo a risolvere compiutamente la questione, dovendosi a tal fine tener conto del rapporto di necessaria correlazione, nel processo innanzi a questa Corte, tra il quesito così come formulato dal giudice a quo e la decisione richiesta.
Il giudice a quo rimette all'esame della Corte una norma che concerne i poteri istruttori del giudice tributario sul presupposto che essa rappresenti il punto di emersione del problema della delimitazione dell'oggetto del processo.
La Corte, dubitando della premessa dalla quale muove il remittente, deve ricordare che il dibattito sul tema in questione ha avuto come principale punto di riferimento il complesso sistematico degli articoli del d.P.R. n.636 del 1972 che riguardano il contenuto del ricorso, l'integrazione dei motivi di esso, la rinnovazione dell'atto impugnato, il rinvio alla disciplina del codice di procedura civile (artt. 16, 19 bis, 21 e 39). Tra queste disposizioni, particolare rilievo risulta conferito all'art. 21, il quale stabilisce che il giudice, ove riscontri "un vizio di incompetenza o che comunque non attiene all'esistenza o all'ammontare del credito tributario", deve sospendere il giudizio ed assegnare un termine all'amministrazione per rinnovare l'atto viziato; ma, al tempo stesso, esclude che possa "provvedersi a rinnovazione dell'atto impugnato quando il vizio consiste in difetto di motivazione".
Nel dibattito sul processo tributario come giudizio di annullamento dell'atto ovvero di accertamento dell'obbligazione tributaria, non è stato, tuttavia, trascurato anche l'argomento dei poteri istruttori del giudice, che ha dato anch'esso luogo ad opposti punti di vista. Da un lato si è sostenuto, infatti, che l'art. 35, orientando i poteri istruttori del giudice verso i fatti "rilevanti ai fini della decisione", null'altro esprimerebbe se non la sua strumentalità rispetto alle esigenze del giudizio, nel collegamento dell'ambito delle indagini istruttorie al dato della rilevanza, secondo un criterio già dell'art. 187 del codice di procedura civile.
Dall'altro, si è sottolineata la caratterizzazione in senso inquisitorio dei poteri istruttori, derivante dal fatto che la norma in questione riconosce al giudice tributario "tutte le facoltà di accesso, di richiesta di dati, di informazioni e chiarimenti, conferite agli uffici tributari dalle singole leggi di imposta".
Tuttavia, pure nella stretta connessione fra le due tematiche qui in esame, la Corte è dell'avviso che esse non risultino sovrapponibili nelle loro implicazioni processuali. Lo confermano, d'altra parte, quella giurisprudenza e quella dottrina che tendono a distinguere, nella disamina della problematica generale di cui trattasi, il profilo dei poteri istruttori del giudice tributario, talora rimarcandone l'ampiezza in senso inquisitorio, da quello dell'ambito della sua cognizione.
Ne consegue che l'art. 35 del d.P.R. n. 636, in quanto dedicato all'istruzione nel processo tributario, non rappresenta la sedes materiae per la soluzione del problema del quale era stato investito il giudice a quo, chiamato a decidere -come sopra si è ricordato- dell'eventuale violazione dell'art. 112 del codice di procedura civile, per avere la decisione innanzi a lui impugnata sostituito la motivazione dell'atto di accertamento, e non dell'eventuale violazione della norma sui poteri istruttori della commissione tributaria.
Invero, per quanto l'art. 35 assuma rilievo, sul piano esegetico, come dato da utilizzare nella ricostruzione del sistema generale del processo tributario, esso non può, per ciò stesso, dare ingresso ad una questione di costituzionalità quando, innanzi al giudice a quo, si discuta non dell'estensione dei poteri istruttori del giudice tributario bensì del sindacato dal medesimo esercitato sulla motivazione dell'atto di accertamento e quindi la norma denunciata risulti irrilevante ai fini del decidere.
A riprova dell'inammissibilità della questione proposta, sotto il non conferente aspetto dei poteri istruttori, sta lo stesso petitum dell'ordinanza, che, nel censurare la norma relativamente all'inciso "al fine di conoscere i fatti rilevanti per la decisione", sollecita una caducazione parziale della disposizione che, a ben riflettere, non potrebbe condurre al risultato auspicato dal giudice remittente.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell'art. 35, primo comma, del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 636 (Disciplina del contenzioso tributario), sollevata, in riferimento agli artt. 3 e 53 della Costituzione, dalla Commissione tributaria centrale, relativamente all'inciso "al fine di conoscere i fatti rilevanti per la decisione", con l'ordinanza in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 19/07/94.
Francesco Paolo CASAVOLA, Presidente
Massimo VARI, Redattore
Depositata in cancelleria il 27 Luglio 1994.