SENTENZA N. 346
ANNO 1993
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
Presidente
Prof. Francesco Paolo CASAVOLA
Giudici
Prof. Gabriele PESCATORE
Avv. Ugo SPAGNOLI
Prof. Antonio BALDASSARRE
Prof. Vincenzo CAIANIELLO
Avv. Mauro FERRI
Prof. Luigi MENGONI
Prof. Enzo CHELI
Dott. Renato GRANATA
Prof. Francesco GUIZZI
Prof. Cesare MIRABELLI
Prof. Fernando SANTOSUOSSO
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nei giudizi di legittimità costituzionale dell'art. 38, primo comma, del regio decreto legge 30 marzo 1938, n. 680 (Ordinamento della Cassa di previdenza per le pensioni agli impiegati degli enti locali), dell'art. 7, secondo comma, della legge 22 novembre 1962, n. 1646 (Modifiche agli ordinamenti degli Istituti di previdenza presso il Ministero del tesoro) e dell'art. 3, secondo comma, della legge 8 marzo 1968, n. 152 (Nuove norme in materia previdenziale per il personale degli enti locali), promossi con ordinanze:
1) ordinanza emessa il 19 giugno 1992 dalla Corte dei Conti sul ricorso proposto da Boari Luciana, vedova De Palma, contro la Direzione Generale degli Istituti di Previdenza del Ministero del tesoro, iscritta al n. 101 del registro ordinanze 1993 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 11, prima serie speciale, dell'anno 1993;
2) ordinanza emessa il 1° dicembre 1992 dal Pretore di Roma nel procedimento civile vertente tra Davide Maria e l'I.N.A.D.E.L., iscritta al n. 129 del registro ordinanze 1993 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica, n. 14, prima serie speciale, dell'anno 1993.
Visti l'atto di costituzione di Davide Maria nonchè l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nell'udienza pubblica del 22 giugno 1993 il Giudice relatore Fernando Santosuosso;
uditi l'avv. Bruno Aguglia per Davide Maria e l'Avvocato dello Stato Mario Imponente per il Presidente del Consiglio dei ministri.
Ritenuto in fatto
1. Nel procedimento civile vertente tra Luciana Boari e la Direzione generale degli Istituti di previdenza del Ministero del Tesoro, in cui la ricorrente, in quanto vedova di Antonio De Palma, iscritto alla C.P.D.E.L. e deceduto in data 27 aprile 1983, chiedeva che venisse dichiarato illegittimo il provvedimento con il quale alla stessa era stato negato il diritto alla pensione di reversibilità ai sensi dell'art. 38, primo comma, del regio decreto legge 3 marzo 1938, n. 680, risultando la stessa separata legalmente per sentenza passata in giudicato all'atto del decesso del coniuge, la Corte dei conti, sezione terza giurisdizionale, con ordinanza emessa il 19 giugno 1992, e pervenuta alla Corte costituzionale il 23 febbraio 1993 (R.O. n. 101 del 1993), ha sollevato, in riferimento all'art. 3 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'art. 38, primo comma, del regio decreto legge 30 marzo 1938, n. 680 (Ordinamento della Cassa di previdenza per le pensioni agli impiegati degli enti locali) e dell'art. 7, secondo comma, della legge 22 novembre 1962, n. 1646 (Modifiche agli ordinamenti degli Istituti di previdenza presso il Ministero del tesoro), nella parte in cui, con la prima disposizione, viene escluso il diritto alla pensione indiretta (o di reversibilità) a favore della vedova di impiegato iscritto alla C.P.D.E.L. che sia separata legalmente per sentenza passata in giudicato pronunziata per di lei colpa, e nella parte in cui, stante il suddetto divieto, con la seconda disposizione viene riconosciuto soltanto il diritto alla corresponsione di un assegno alimentare, ove sussista lo stato di bisogno.
Osserva il giudice remittente che mentre al coniuge separato legalmente per sua colpa, benchè titolare di assegno alimentare, è negato il diritto alla pensione di reversibilità, salvo, ove sussista lo stato di bisogno, la corresponsione di un assegno pari al 20 per cento della pensione diretta, a colui che sia invece divorziato e già titolare dell'assegno di mantenimento, è consentito il conseguimento, a domanda, ex art. 9, secondo comma, della legge 1° dicembre 1970, n. 898, introdotto dalla legge 6 marzo 1987, n. 74, della pensione di reversibilità sia pure a determinate condizioni. L'acquisito carattere di automaticità che viene ad assumere il diritto alla pensione nel caso di divorzio, in quanto non soggetto al verificarsi di concrete situazioni di bisogno, sarebbe irrazionale in quanto teso a privilegiare situazioni irreversibili del matrimonio (quali sono quelle che ne determinano lo scioglimento) rispetto alla semplice separazione (nella quale il rapporto è ancora in vita), ed inoltre in quanto creerebbe un incentivo in capo al coniuge separato per colpa a chiedere il divorzio, e così a rendere definitiva quella crisi che, invece, il legislatore mira a sanare e comporre (art. 157 del codice civile).
Come ulteriore motivo di contrasto della normativa impugnata con l'art. 3 della Costituzione, la Corte dei conti rileva l'intrinseca irrazionalità del valore preclusivo riconosciuto alle vicende personali -che hanno condotto alla separazione le gale- rispetto a un diritto che è, di regola, causalmente ricollegabile a fatti oggettivi.
2. Nel corso del procedimento tra Maria Davide e l'I.N.A.D.E.L., nel quale la ricorrente, coniuge separata per sua colpa in forza di sentenza passata in giudicato, di Raffaele Paolini, deceduto in attività di servizio, ha chiesto la condanna dell'Istituto convenuto al pagamento dell'indennità premio di fine servizio in forma indiretta, il Pretore di Roma ha sollevato, con ordinanza emessa il 1° dicembre 1992 (R.O. n. 129 del 1993), questione di legittimità costituzionale dell'art. 3 della legge 8 marzo 1968, n. 152 (Nuove norme in materia previdenziale per il personale degli enti locali), nella parte in cui esclude che l'indennità premio di fine servizio in forma indiretta spetti alla vedova separata legalmente con sentenza passata in giudicato per sua colpa. Rileva il giudice a quo che la Corte costituzionale ha già ritenuto sussistente in fattispecie sovrapponibili la violazione degli artt. 3 e 38 della Costituzione da parte di norme di pari contenuto relative all'indennità di buonuscita (sentenza n. 213 del 1985) ed alla pensione di reversibilità (sentenza n. 286 del 1987).
3. Nel giudizio davanti a questa Corte si è costituita Maria Davide, ricorrente nel procedimento instaurato davanti al Pretore di Roma, chiedendo che sia dichiarata l'illegittimità costituzionale della disposizione in oggetto in riferimento agli artt. 3 e 38 della Costituzione.
Osserva al riguardo la parte che la norma in questione costituisce un residuo ancora in vigore della legislazione antecedente all'introduzione della legge n. 150 (rectius: n. 151) del 1975 in cui aveva rilevanza il concetto della "colpa" nella separazione personale dei coniugi, mentre ciò sarebbe stato profondamente modificato a seguito dell'entrata in vigore del nuovo diritto di famiglia che ha abolito il concetto di "colpa".
A seguito di tale innovazione legislativa, si sarebbe dispiegato l'intervento della Corte costituzionale che ha già eliminato disposizioni analoghe alla presente con le richiamate sentenze n.213 del 1985 e n. 286 del 1987.
4. Nel giudizio relativo all'ordinanza del Pretore di Roma è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata infondata e riservando si di illustrare in seguito le ragioni a sostegno di tale richiesta.
In prossimità dell'udienza, la difesa erariale ha depositato una memoria illustrativa, in cui ha rilevato come il richiamo operato dal giudice remittente alla sentenza n. 286 del 1987 di questa Corte risulti inconferente, riferendosi detta decisione ad una acclarata disparità di trattamento in relazione alla pensione di reversibilità, come tale connessa allo stato di bisogno e quindi alla natura alimentare della stessa.
Nel caso in esame, invece, si ha riguardo all'indennità premio di fine servizio, la quale, per disciplina descritta nello stesso art. 3 della legge 152 del 1968 (terzo e quarto comma), ha natura e contenuto diversi dalla pensione di reversibilità: di conseguenza, i principi affermati in relazione alla pensione non sono estensibili ad una indennità definita quale "premio di servizio".
Viene richiamata a sostegno di tale conclusione la sentenza n. 213 del 1985 di questa Corte, in cui si afferma che al coniuge separato "non può spettare il diritto alle indennità in caso di morte, qualora la separazione gli fosse stata addebitata ed egli non godesse di alimenti a carico del lavoratore".
Considerato in diritto
1. La Corte dei conti dubita della legittimità costituzionale del combinato disposto di cui agli artt. 38, primo comma, del regio decreto legge 30 marzo 1938, n. 680 (Ordinamento della Cassa di previdenza per le pensioni agli impiegati degli en ti locali), e 7, secondo comma, della legge 22 novembre 1962, n.1646 (Modifiche agli ordinamenti degli Istituti di previdenza presso il Ministero del tesoro), nella parte in cui viene escluso il diritto a pensione indiretta (o di reversibilità) a favore della vedova di impiegato iscritto alla C. P.D.E.L. che sia separata legalmente per sentenza passata in giudicato pronunziata per di lei colpa, riconoscendo alla stessa soltanto il diritto alla corresponsione di un assegno alimentare, ove sussista lo stato di bisogno.
2. Dal Pretore di Roma è stata sollevata questione di legittimità costituzionale dell'art. 3 della legge 8 marzo 1968, n. 152 (Nuove norme in materia previdenziale per il personale degli Enti locali), nella parte in cui esclude che l'indennità premio di fine servizio in forma indiretta spetti alla vedova di dipendente di ente locale separata legalmente con sentenza passata in giudicato per sua colpa.
Rileva il giudice a quo che la Corte costituzionale "ha già ritenuto sussistente in fattispecie sovrapponibili la violazione degli art. 3 e 38 della Costituzione da parte di norme di pari contenuto relative all'indennità di buonuscita (sentenza 213 del 1985) ed alla pensione di reversibilità (sentenza 286 del 1987)".
Data l'analogia, le questioni possono, unificati i giudizi, essere decise con unica sentenza.
3. Quanto alla prima questione, sollevata dalla Corte dei conti, va in primo luogo osservato come non sia possibile attenersi esclusivamente all'argomento -che pur in diverse occasioni è stato richiamato- secondo cui il trattamento di reversibilità ha la funzione di assicurare la continuità dei mezzi di sostentamento che il titolare della pensione era obbligato a fornire al coniuge: tale garanzia condurrebbe, tra l'altro, alla conseguenza che la misura della pensione sia comunque proporzionata all'ammontare dell'assegno già goduto dal superstite prima della morte del coniuge.
Nè ci si può limitare, per l'accoglimento della questione, all'argomento sul quale fa leva l'ordinanza di rimessione, e cioè al tertium comparationis rappresentato dalla situazione normativa cui è assoggettato il coniuge divorziato rispetto a quello separato. Se infatti è vero, da un lato, che con l'art. 9 della legge 1° dicembre 1970, n. 898, come modificato dalla legge 6 marzo 1987, n. 74, il legislatore ha operato una scelta favorevole al coniuge divorziato riconoscendo al superstite, in caso di morte dell'ex-coniuge, il diritto alla pensione di reversibilità, purchè non passato a nuove nozze e sempre che sia titolare dell'assegno di cui all'art. 5 della stessa legge, va tuttavia rilevato che tra la situazione del coniuge divorziato e quella del separato permangono notevoli differenze, sia con riguardo ai presupposti generativi delle due situazioni, sia riguardo agli effetti delle stesse, sia infine relativamente ai parametri cui riferirsi per la determinazione dell'an e del quantum dell'assegno di divorzio rispetto a quanto spettante al coniuge separato.
Analogamente, va rilevato come anche la situazione in cui viene a trovarsi il coniuge separato per colpa (o con addebito) sia diversa rispetto a quella del coniuge separato senza colpa: quest'ultima viene anzi, ed opportunamente, equiparata -quanto a rilevanti aspetti della disciplina- a quella della vedova non separata, come è stato riconosciuto dalla sentenza n. 213 del 1985 di questa Corte.
Senonchè, altre precedenti pronunce di questa Corte (sentenze nn. 286 del 1987, 1009 del 1988, 450 del 1989), pur tenendo presenti le rilevate differenze -che conducono ad escludere, quale tertium comparationis relativamente al caso di specie, la disciplina prevista per il divorzio- hanno tuttavia dichiarato il contrasto con gli artt. 3 e 38 della Costituzione delle disposizioni di legge che negavano il diritto alla pensione di reversibilità in capo al coniuge superstite separato per propria colpa (o con addebito) ancorchè questi risultasse titolare del diritto agli alimenti a carico del coniuge defunto, in quanto "tra la posizione del coniuge divorziato che sia titolare dell'assegno alimentare di cui all'art. 5 e la situazione del coniuge separato che sia titolare dell'assegno alimentare di cui all'art.156, terzo comma, del codice civile, si può ragionevolmente riconoscere un'analogia, la quale comporta che pure al secondo, come al primo, debba essere attribuito il diritto alla pensione di reversibilità" (sentenza n. 1009 del 1988). Nelle richiamate occasioni, questa Corte ha proceduto ad espungere dall'ordinamento disposizioni relative principalmente a dipendenti del settore privato soggetti a regimi previdenziali collegati all'INPS, e ad alcune categorie di lavoratori autonomi.
La questione ora sollevata riguarda invece il combinato disposto degli artt.38, primo comma, del regio decreto legge 30 marzo 1938, n. 680 e 7, secondo comma, della legge 22 novembre 1962, n. 1646, relativi al trattamento pensionistico erogato dalla Cassa di previdenza per le pensioni agli impiegati degli enti locali.
Tale disciplina è almeno in parte diversa rispetto a quella esaminata in precedenza da questa Corte: mentre infatti nelle circostanze cui si riferivano le pronunce richiamate le disposizioni impugnate escludevano del tutto il trattamento pensionistico per il coniuge separato per propria colpa, nelle disposizioni ora impugnate è invece prevista, in uno con l'esclusione del diritto alla pensione, la spettanza di un assegno alimentare pari al 20 per cento della pensione diretta.
Alle ragioni di differenziazione fanno tuttavia riscontro motivi di analogia rispetto alle situazioni allora considerate, trattandosi pur sempre di vedove separate per colpa o con addebito che godevano già di assegno alimentare a carico del defunto coniuge.
Di fronte a tali contrapposte ragioni, questa Corte ritiene che sia costituzionalmente necessario accordare prevalenza ai consistenti aspetti di assimilazione rispetto a quelli di differenziazione, cosicchè la normativa risultante quale effetto delle precedenti pronunce costituisce un tertium comparationis ineludibile rispetto al caso di specie, che per coerenza rende illegittimo, in riferimento agli artt. 3 e 38 della Costituzione, il trattamento pensionistico previsto dalla disciplina impugnata in questo giudizio.
Circa il già citato rilievo della parte qui costituita - relativamente al venir meno del concetto di responsabilità della separazione personale- va osservato che, pur avendo la riforma del diritto di famiglia del 1975 mantenuto la diversità delle situazioni fra separazione con o senza addebito e delle relative conseguenze patrimoniali, la parità di trattamento delle stesse può giustificarsi limitatamente allo stato della legislazione previdenziale, così come risulta anche dalla giurisprudenza costituzionale.
Quanto al principio, contenuto anche in precedenti pronunce di questa Corte, secondo cui il trattamento di reversibilità avrebbe la funzione di assicurare la continuità dei mezzi di sostentamento che il titolare della pensione era obbligato a fornire al coniuge prima della morte, e da cui dovrebbe dedursi come conseguenza un livello di assistenza uguale a quello precedente, va considerato che l'eventuale differenza del risultato economico riconosciuto alla vedova separata rispetto all'assegno anteriormente goduto trova giustificazione nel fatto che il trattamento pensionistico è un diritto che si acquista a seguito del fatto sopravvenuto della morte dell'ex- coniuge.
Va, pertanto, riconosciuto che, come per le ipotesi decise con le pronunce 286 del 1987, 1009 del 1988 e 450 del 1989, anche nel presente caso, spetti alla vedova separata per colpa (o con addebito) il diritto a pensione: di conseguenza, va dichiarata l'illegittimità costituzionale del combinato disposto di cui agli art. 38, primo comma, del regio decreto legge 30 marzo 1938, n. 680, e 7, secondo comma, della legge 22 novembre 1962, n.1646, nella parte in cui esclude il diritto a pensione a favore della vedova di impiegato iscritto alla C.P.D.E.L. che sia separata legalmente per sentenza passata in giudicato pronunziata per di lei colpa, allorchè a questa fosse stato riconosciuto il diritto agli alimenti verso il coniuge deceduto, riconoscendo alla stessa soltanto la corresponsione di un assegno alimentare ove sussista lo stato di bisogno.
4. La questione sollevata dal Pretore di Roma deve essere dichiarata inammissibile.
Osserva infatti questa Corte come nell'ordinanza di rimessione il giudice a quo ometta di indicare direttamente i parametri costituzionali che si ritengono violati, ed anche la motivazione sul punto della non manifesta infondatezza si limita ad un apodittico rinvio a precedenti pronunce di questa Corte (sentenze nn. 213 del 1985 e 286 del 1987), le quali invece risultano in gran parte inconferenti con il caso di specie.
Con la prima, infatti, (sentenza n. 213 del 1985), relativa all'indennità di cui agli artt. 2118 e 2120 del codice civile, è stata respinta la questione di legittimità costituzionale sulla base del rilievo per cui deve escludersi che il "coniuge di cui si ragiona nel primo comma dell'art. 2122 comprenda anche il vedovo o la vedova cui sia stata addebitata la separazione (o nei cui confronti fosse stata pronunciata -prima della riforma del di ritto di famiglia- la separazione per colpa)"; mentre la seconda (sentenza n. 286 del 1987) aveva come oggetto disposizioni riguardanti la pensione di reversibilità, istituto che presenta caratteri e finalità non completamente assimilabili all'indennità premio di fine servizio, il cui contrasto con le disposizioni costituzionali avrebbe dovuto pertanto essere direttamente motivato.
A ciò si aggiunga che il Pretore omette del tutto di motivare su un aspetto decisivo in ordine alla rilevanza, relativamente cioé alla spettanza in capo alla ricorrente del giudizio principale del diritto agli assegni alimentari, presupposto ritenuto necessario, in forza della costante giurisprudenza di questa Corte, al fine di estendere il diritto alla reversibilità di trattamenti previdenziali a favore del coniuge separato per colpa.
La questione sollevata dal Pretore di Roma va pertanto dichiarata inammissibile.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara l'illegittimità costituzionale del combinato disposto di cui agli artt. 38, primo comma, del regio decreto legge 30 marzo 1938, n. 680 (Ordinamento della Cassa di previdenza per le pensioni agli impiegati degli enti locali), e 7, secondo comma, della legge 22 novembre 1962, n. 1646 (Modifiche agli ordinamenti degli Istituti di previdenza presso il Ministero del tesoro), nella parte in cui esclude il diritto a pensione a favore della vedova di impiegato iscritto alla C.P.D.E.L. che sia separata legalmente per sentenza passata in giudicato pronunziata per di lei colpa, allorchè a questa fosse stato riconosciuto il diritto agli alimenti verso il coniuge deceduto, riconoscendo alla stessa soltanto il diritto alla corresponsione di un assegno alimentare ove sussista lo stato di bisogno;
dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell'art.3 della legge 8 marzo 1968, n. 152 (Nuove norme in materia previdenziale per il personale degli enti locali), sollevata dal Pretore di Roma con l'ordinanza indicata in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 20/07/93.
Francesco Paolo CASAVOLA, Presidente
Fernando SANTOSUOSSO, Redattore
Depositata in cancelleria il 28/07/93.