SENTENZA N. 286
ANNO 1993
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
Presidente
Prof. Francesco Paolo CASAVOLA
Giudici
Prof. Giuseppe BORZELLINO
Dott. Francesco GRECO
Prof. Gabriele PESCATORE
Avv. Ugo SPAGNOLI
Prof. Antonio BALDASSARRE
Avv. Mauro FERRI
Prof. Luigi MENGONI
Prof. Enzo CHELI
Dott. Renato GRANATA
Prof. Giuliano VASSALLI
Prof. Francesco GUIZZI
Prof. Cesare MIRABELLI
Prof. Fernando SANTOSUOSSO
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 669, primo comma, del codice di procedura penale, promosso con ordinanza emessa il 29 ottobre 1992 dalla Corte di assise di appello di Cagliari nel procedimento di esecuzione promosso da Isa Giuliano, iscritta al n. 33 del registro ordinanze 1993 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 7, prima serie speciale, dell'anno 1993.
Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio del 26 maggio 1993 il Giudice relatore Giuliano Vassalli.
Ritenuto in fatto
l. Con ordinanza del 24 maggio 1990, la Corte di assise di appello di Cagliari, in esito al procedimento di esecuzione promosso da Isa Giuliano, già condannato dalla detta Corte alle pene di anni 5, mesi 6 di reclusione e lire 1.000.000 di multa, rigettava la richiesta volta ad ottenere, ai sensi dell'art. 671 del codice di procedura penale, il riconoscimento della continuazione rispetto ad ulteriori fatti per cui l'Isa ebbe a subire altre undici condanne, dieci delle quali comprese nel provvedimento di cumulo emesso dal Procuratore Generale presso la Corte di appello di Milano il 25 maggio 1987, e l'ultima pronunciata dalla Corte di assise di appello di Cagliari il 14 febbraio 1989.
Il ricorso proposto avverso la detta ordinanza veniva rigettato dalla Corte di cassazione con sentenza del 5 febbraio 1991.
In pendenza di tale ricorso, l'Isa proponeva una nuova richiesta di applicazione della continuazione, limitandola ai reati di cui al provvedimento di cumulo del Procuratore Generale di Milano, "tacendo non solo che nel frattempo era divenuta esecutiva una nuova condanna di altro giudice" (quella 14 febbraio 1989 della Corte di assise di appello di Cagliari), ma anche che analoga richiesta era già stata respinta dalla Corte cagliaritana.
Con ordinanza del 23 novembre 1990, la Corte di assise di appello di Milano accoglieva la nuova richiesta, determinando la pena complessiva per il reato continuato in anni nove di reclusione.
L'interessato domandava, quindi, al Procuratore Generale di Cagliari un nuovo provvedimento di unificazione della pena affinchè la carcerazione sofferta in eccedenza fosse detratta dalla pena irrogata dalla Corte di assise di appello di Cagliari.
Quest'ultima Corte, investita quale giudice dell'esecuzione, dichiarava non applicabile l'ordinanza della Corte milanese.
La Corte di cassazione, nuovamente adìta dall'Isa, con sentenza 26 marzo 1992, annullava l'ordinanza impugnata in quanto "la manifesta e oggettiva illegalità del provvedimento è coperta dal formale passaggio in giudicato di esso".
All'udienza, fissata per la trattazione del procedimento di esecuzione in sede di rinvio dalla Corte di cassazione, il Procuratore Generale eccepiva l'illegittimità, in riferimento agli artt. 3, 25 e 101, secondo comma, della Costituzione, dell'art. 669, primo comma, del codice di procedura penale, nella parte in cui non prevede che, nel caso di contrasto fra giudicati, debba essere eseguito quello derivante dalla decisione del "giudice naturale, anche se meno favorevole al reo".
Con ordinanza del 29 ottobre 1992 la Corte di assise di appello di Cagliari accoglieva la proposta eccezione e, sospeso il giudizio in corso, rimetteva gli atti a questa Corte.
2. In punto di rilevanza, il giudice a quo osserva che, avendo la Corte di cassazione rinviato la procedura esecutiva per nuovo esame, ha già stabilito che nel caso di specie dovrebbe ricevere applicazione la norma denunciata.
3. In punto di non manifesta infondatezza, con riferimento al dedotto contrasto con l'art. 25 della Costituzione il giudice rimettente osserva che la ratio del parametro invocato è da individuare nell'esigenza, più volte ribadita dalla Corte costituzionale, di garantire la certezza del giudice che dovrà giudicare un dato processo, senza che ciò possa dipendere da valutazioni non suscettibili di sindacato (v. sentenze n. 122 del 1963 e n.130 del 1963); un principio applicabile anche al processo esecutivo, trattandosi di una fase assistita dalle garanzie giurisdizionali, con enucleazione di precisi princìpi concernenti la precostituzione del giudice.
La formazione del giudicato non impedisce, infatti, l'emersione del precetto dell'art. 25, primo comma, della Costituzione, profilandosi una situazione di contrasto attuale tra pronunce entrambe definitive. Il fatto che la legge preveda - per il mancato funzionamento del rimedio previsto dall'art. 649 - che debba essere eseguito il provvedimento più favorevole al condannato, previa revoca di quello meno favorevole, ha sacrificato il detto principio ad una regola non costituzionalizzata come quella del favor rei; per di più, anche quando uno dei due giudicati provenga da giudice non competente. Così da pervenire ad una soluzione aberrante consentendosi al condannato "di trarre vantaggio da un espediente contra legem, quale quello di adire, dopo una pronuncia sfavorevole del giudice competente, altri giudici, prospettando a questi una situazione diversa dalla realtà ed idonea astrattamente ad incardinare la loro competenza".
Donde il contrasto anche con i princìpi di ragionevolezza, insito nell'art.3 della Costituzione, e della soggezione del giudice soltanto alla legge di cui all'art. 101, secondo comma, della Costituzione stessa, imponendosi al giudice di con formare il suo convincimento alla pronuncia di un giudice incompetente pur in presenza di altra pronuncia proveniente da altro giudice legalmente in vestito della questione.
4. L'ordinanza, ritualmente notificata e comunicata, è stata pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 7, prima serie speciale, del 10 febbraio 1993.
5. Nel giudizio è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura Generale dello Stato, chiedendo "dichiararsi la questione inammissibile o infondata".
Non pertinente sarebbe il richiamo ai princìpi di ragionevolezza e della sottoposizione del giudice alla legge: il criterio dettato del legislatore - anche se ipoteticamente discutibile sul piano del merito - non è privo di razionalità, per l'applicazione del principio del favor rei alla base di esso, mentre il giudice, nell'applicare la norma denunciata, resta comunque sottoposto alla legge.
Altrettanto fuori di luogo sarebbe evocare il principio del giudice naturale, risultando individuato - come tale - il giudice dell'esecuzione in base a criteri obiettivi e predeterminati. Che poi si debba dare esecuzione a una pronuncia di un giudice diverso da quello che sarebbe stato competente in sede di cognizione è circostanza del tutto irrilevante, occorrendo, nella fase esecutiva, soltanto individuare un criterio idoneo ad eliminare il contrasto fra due decisioni dotate di pari efficacia ed ugualmente incensurabili.
Considerato in diritto
l. Il giudice a quo dubita, in riferimento agli artt. 3, 25, primo comma, e 101, secondo comma, della Costituzione, della legittimità dell'art. 669, primo comma, del codice di procedura penale, < < nella parte in cui, stabilendo che "se più sentenze di condanna sono state pronunciate contro la stessa persona per il medesimo fatto, il giudice ordina la esecuzione della sentenza con cui si pronunciò la condanna meno grave, revocando le altre", non prevede che se tra i provvedimenti in contrasto uno sia stato accertato essere stato emesso da giudice diverso da quello naturale, esso non debba essere eseguito anche se più favorevole>>.
Il rimettente era stato chiamato ad ottemperare al decisum della Corte di cassazione che aveva annullato l'ordinanza pronunciata all'esito della procedura esecutiva dalla stessa Corte di assise di appello di Cagliari, richiesta dall'interessato di dare esecuzione all'ordinanza della Corte di assise di appello di Milano con la quale era stata applicata la continuazione relativamente ai reati risultanti da sette sentenze di condanna. Ma, poichè tale ordinanza era stata adottata "da Giudice sfornito di ogni potere decisorio", in quanto, tra l'altro, la stessa richiesta era stata già delibata negativamente, con decisione irrevocabile, dalla Corte di assise di appello di Cagliari, la quale, ai sensi dell'art. 671 del codice di procedura penale, era da ritenere - in quanto giudice che aveva, a sua volta, pronunciato la sentenza divenuta irrevocabile per ultima - l'unico giudice competente a decidere sulla richiesta stessa, aveva dichiarato "improduttiva di effetti" la pronuncia della Corte milanese.
Ormai vincolato dalla sentenza della Corte di cassazione, il rimettente ha sollevato la predetta questione così da impedire - di qui la rilevanza della questione stessa - l'esecuzione di un provvedimento pronunciato da giudice "diverso da quello naturale".
2. La questione è inammissibile.
Le censure prospettate si ricollegano alle statuizioni della Corte di cassazione che, nell'annullare con rinvio l'ordinanza reiettiva della richiesta di unificazione della pena, ha ritenuto nella specie sussistente una pluralità di provvedimenti formalmente irrevocabili sul medesimo oggetto e resi nei confronti della stessa persona pronunciati dal giudice dell'esecuzione; quindi, di un "caso analogo" a quello corrispondente al contrasto di giudicati, risolubile attraverso l'applicazione dell'art. 669, primo comma, del codice di procedura penale. Con la conseguenza che, di fronte a due contrapposte decisioni emesse in executivis - pur con coincidenza solo parziale dei rispettivi contenuti - dovrebbe incondizionatamente operare il principio della "esecuzione della sentenza con cui si pronuncia la condanna meno grave", secondo quanto dispone la norma di cui ora viene contestata la legittimità.
Ma è già il presupposto da cui muove l'ordinanza di rimessione, e che condiziona il succedersi delle doglianze, con inevitabili riverberi sulla stessa pertinenza dei parametri invocati, a rivelarsi non sufficientemente valutato. Esso postula, infatti, una assoluta identificazione, quanto all'operatività del principio ne bis in idem, pure nell'area del procedimento esecutivo, fra pronunce positive (di accoglimento) e pronunce negative (di rigetto). Tale identificazione è da ritenere però non del tutto correttamente prospettata perchè il secondo tipo di pronuncia è comunque resa sempre rebus sic stantibus, finchè non vengano prospettati o elementi nuovi o elementi di cui comunque non abbia tenuto conto la statuizione di rigetto, mentre solo la prima risulta in grado di divenire irrevocabile nei confronti del condannato. Un regime che è ora esplicitato dall'art. 666, secondo comma, del codice di procedura penale, che, relativamente "all'interessato", prescrive talune rigorose preclusioni all'ammissibilità della richiesta in executivis, ma che già preesisteva nel regime del codice abrogato (cfr. art. 579 del codice di procedura penale del 1930).
Con riguardo, poi, all'applicazione della continuazione nel procedimento esecutivo - a cui la Corte deve limitare il suo esame per ragioni connesse alla rilevanza - e che costituisce un novum del codice di procedura penale del 1988, il detto principio opera per definizione. Infatti pur restando il giudice - nella specifica materia - vincolato alle statuizioni della sentenza pronunciata in sede di cognizione nell'ipotesi in cui questa abbia escluso la sussistenza delle condizioni indicate nell'art. 81, secondo comma, del codice penale (ed in particolare l'identità del disegno criminoso), rappresentando il reato continuato diretta conseguenza del favor rei, solo la statuizione positiva non è assoggettata all'applicazione della regola della decisione resa rebus sic stantibus. Con la conseguenza che, in tanto può profilarsi, nel coesistere di due pronunce, una situazione corrispondente a quella prospettata dal giudice a quo, in quanto ci si trovi di fronte a statuizioni di accoglimento della richiesta avanzata a norma dell'art. 671 del codice di procedura penale.
3. Da tutto ciò consegue che manca la stessa condizione per ravvisare la dedotta compromissione dei parametri costituzionali invocati, tra l'altro, con riferimento a quello su cui risultano incentrate le più articolate argomentazioni, scaturente da una non convincente giustapposizione, nel quadro dell'art. 25, primo comma, della Costituzione, tra la nozione di giudice naturale e la nozione di giudice competente.
Al contrario, proprio il presupposto da cui muove l'ordinanza di rimessione conduce ad escludere che con essa sia stata effettivamente proposta una questione di legittimità costituzionale.
Le cadenze dei vari provvedimenti di cumulo comprovano, infatti, come delle regole disciplinanti la competenza in sede esecutiva sia stato fatto un cattivo uso da parte del giudice che ha pronunciato l'ordinanza di applicazione della disciplina del reato continuato e la cui statuizione ha provocato l'annullamento del provvedimento reiettivo della richiesta di unificazione della pena.
L'omesso accertamento da parte di tale giudice della competenza a decidere sulla richiesta di applicazione dell'art. 671 del codice di procedura penale, derivante dall'essersi attestato sulle prospettazioni del richiedente, prescindendo dalla precedente pronuncia di rigetto - oltre tutto di contenuto più ampio - e senza verificare, anche attraverso l'esame di un aggiornato certificato penale, quale condanna fosse per ultima divenuta irrevocabile, ha determinato l'adozione di un provvedimento fondato su erronei presupposti di fatto ma pur tuttavia in grado di divenire irrevocabile nonostante la coesistenza di una statuizione di segno contrario. In tal modo si è realizzata una di quelle situazioni patologiche estranee al sistema e, dunque, insuscettibili di apprezzamento in questa sede.
4. Pure a prescindere dai sopra esposti rilievi, che attengono all'interpretazione della norma denunciata, il petitum divisato dal rimettente non potrebbe comunque trovare ingresso davanti a questa Corte.
Esso non coinvolge, infatti, esclusivamente la norma denunciata, comportando, invece, un intervento manipolativo in grado di precludere l'avverarsi degli inconvenienti lamentati, sub specie di questione di legittimità costituzionale, relativamente al processo a quo. Non si può omettere di considerare che la manipolazione richiesta implicherebbe non tanto la soppressione della regola che prescrive, in caso di plurime sentenze di condanna per il medesimo fatto, l'esecuzione della sentenza più favorevole (una regola riferibile - nei limiti sopra indicati - anche ai provvedimenti emessi da più giudici dell'esecuzione), ma la creazione di un diverso principio che circoscriva l'operatività incondizionata del precetto del favor rei ove tale principio sia stato erroneamente applicato per ave re l'interessato adito un giudice diverso da quello competente, da identificarsi con il giudice che ha pronunciato il provvedimento divenuto irrevocabile per ultimo. Un petitum, dunque, implicante scelte, intrinsecamente connesse con la problematica della coesistenza di pronunce riguardanti il medesimo fatto e adottate nei confronti della stessa persona, scelte nessuna delle quali risulta costituzionalmente obbligata; da qui, in ogni caso, la preclusione di qualsiasi intervento di questa Corte trattandosi di materia riservata al legislatore.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell'art.669, primo comma, del codice di procedura penale, sollevata, in riferimento agli artt. 3, 25, primo comma, e 101, secondo comma, della Costituzione, dalla Corte di assise di appello di Cagliari con l'ordinanza in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 10/06/93.
Francesco Paolo CASAVOLA, Presidente
Giuliano VASSALLI, Redattore
Depositata in cancelleria il 16/06/93.