SENTENZA N. 258
ANNO 1993
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
Presidente
Prof. Francesco Paolo CASAVOLA
Giudici
Dott. Francesco GRECO
Prof. Gabriele PESCATORE
Avv. Ugo SPAGNOLI
Prof. Antonio BALDASSARRE
Prof. Vincenzo CAIANIELLO
Avv. Mauro FERRI
Prof. Luigi MENGONI
Prof. Enzo CHELI
Dott. Renato GRANATA
Prof. Giuliano VASSALLI
Prof. Francesco GUIZZI
Prof. Cesare MIRABELLI
Prof. Fernando SANTOSUOSSO
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 29 del codice penale militare di pace promosso con ordinanza emessa il 15 luglio 1992 dal Tribunale militare di Padova nel procedimento penale a carico di Marangi Antonio, iscritta al n. 653 del registro ordinanze 1992 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 42, prima serie speciale, dell'anno 1992.
Visto l'atto di intervento del Presidente del consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio del 10 febbraio 1993 il Giudice relatore Giuliano Vassalli.
Ritenuto in fatto
l. Il Tribunale militare di Padova, dopo aver premesso che nei confronti di un graduato, imputato di lesione personale grave continuata, il pubblico ministero ha chiesto la condanna alla pena di un anno e quindici giorni di reclusione militare, pena che, ad avviso dello stesso Tribunale "appare congrua", osserva che, a norma dell'art. 29 del codice di penale militare di pace la condanna alla pena della reclusione militare per durata superiore ad un anno comporta, se il condannato riveste un grado diverso da quello di ufficiale o sottufficiale, la pena accessoria della rimozione del grado; nei con fronti dell'ufficiale o sottufficiale, invece, la stessa pena accessoria si applica quando la reclusione militare è stata inflitta per una durata superiore a tre anni. Tale previsione, afferma il giudice a quo, vulnera il principio di uguaglianza "per l'automatismo che la caratterizza, che poi ineluttabilmente porta sul piano amministrativo alla cessazione dal servizio", senza che a ciò sia di ostacolo il potere del giudice di graduare la pena ai sensi dell'art. 133 del codice penale, posto che i relativi parametri non coincidono con quelli che dovrebbero operare nella valutazione se applicare o meno una pena accessoria. Ma il principio di uguaglianza - sostiene il rimettente - riceve violazione ancor più grave in dipendenza del diverso trattamento sanzionatorio riservato ai graduati di truppa, rispetto a quello che opera per gli ufficiali e sottufficiali, giacchè, anzi, proprio per questi ultimi si imporrebbe un regime di maggior rigore "in considerazione della presumibile maggior pericolosità derivante dal grado più elevato, e quindi dalla posizione di maggior responsabilità nell'ambito delle Forze Armate". Ove, invece, la segnalata disparità si giustifichi in funzione del fatto che per gli ufficiali e sottufficiali il grado si collega al permanere del rapporto di servizio e di pubblico impiego, alla posizione di questi avrebbe dovuto essere equiparata quella dei graduati di truppa che, come l'imputato (caporalmaggiore volontario in ferma prolungata), prestano "servizio militare per scelta professionale, con la prospettiva di conseguire il grado di sottufficiale".
2. É intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura Generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata non fondata. Osserva l'Avvocatura che l'automatismo è caratteristica tipica delle pene accessorie che, per alcuni, dovrebbe estendersi anche alle pene principali al fine di eliminare o contenere il potere discrezionale del giudice: il che, evidentemente, non viola il principio di uguaglianza.
Quanto al secondo rilievo mosso dal giudice a quo, la difesa dello Stato osserva che nel sistema gerarchico dell'ordinamento militare, le due categorie poste a raffronto sono fra loro profondamente diverse: d'altra parte, il diverso trattamento appare ragionevole "in relazione alla più elevata responsabilità - e quindi possibilità di <<errori>> - posta a carico degli ufficiali e sottufficiali".
Considerato in diritto
l. Il Tribunale Militare di Padova denuncia, perchè "priva di giustificazioni razionali", la disciplina dettata dall'art. 29 del codice penale militare di pace, nella parte in cui stabilisce che la condanna alla reclusione militare importa la rimozione dal grado quando è inflitta per la durata superiore a tre anni, nei confronti degli ufficiali e sottufficiali, e per durata superiore ad un anno, nei confronti degli altri militari. Dopo aver accennato, senza ulteriore sviluppo argomentativo, alla violazione che il principio di uguaglianza verrebbe a subire in rapporto al meccanismo automatico con cui deve applicarsi tale pena accessoria, essendo al riguardo esclusa qualsiasi valutazione discrezionale sull'an da parte del giudice, il Tribunale rimettente ritiene che una lesione "ancor più grave" del medesimo principio debba rinvenirsi nella ingiustificata disparità di trattamento sanzionatorio che la norma impugnata stabilisce a seconda che il condannato rivesta il grado di ufficiale o sottufficiale, ovvero di graduato di truppa.
A rigor di logica, ha osservato il giudice a quo, se una distinzione meritasse di essere operata tra la posizione dell'ufficiale o del sottufficiale rispetto a quella del graduato di truppa, dovrebbe valere il criterio opposto a quello stabilito nella disposizione censurata, giacchè, proprio "in considerazione della presumibile maggior pericolosità derivante dal grado più elevato" e tenuto conto, quindi, del maggior livello di responsabilità che gli ufficiali e sottufficiali sono chiamati ad assumere, si imporrebbe per essi un trattamento più rigoroso di quello riservato ai graduati di truppa.
2. L'assunto del giudice a quo è contestato dall'Avvocatura sulla base di un duplice ordine di considerazioni. Per un verso, infatti, il "sistema gerarchico" che caratterizza l'ordinamento militare, consente di intravedere una "profonda diversità" tra le categorie degli ufficiali e dei sottufficiali, da un lato, e dei graduati di truppa dall'altro; sicchè, afferma l'Avvocatura, già tale rilievo basterebbe a giustificare il differente regime che la norma impugnata stabilisce in ordine alla pena accessoria della rimozione. D'altro canto, soggiunge l'Avvocatura, il diverso trattamento che forma oggetto di censura rinviene una sua ragionevole spiegazione nel fatto che alla maggiore responsabilità dei compiti che gli ufficiali ed i sottufficiali sono chiamati ad assolvere corrisponde una più ampia possibilità di "errori".
Nessuno degli argomenti addotti dalla difesa dello Stato può essere condiviso.
Resta infatti apodittico l'assunto secondo il quale un ordinamento gerarchicamente strutturato postulerebbe, per ciò solo, la legittimità di un differenziato regime nel trattamento penale di condotte identiche in funzione del grado rivestito, ove questo non sia riguardato dalla legge come elemento tipizzante che qualifica l'illecito. Se, dunque, tra le categorie poste a raffronto si invocano genericamente "profonde diversità", senza che peraltro delle stesse siano individuati gli esatti confini e la natura, o tali diversità valgono a separare fra loro la posizione degli ufficiali, dei sottufficiali e dei graduati di truppa e raggiungono una specificità tale da giustificare, per ciascuna categoria, un differente trattamento sul piano sanzionatorio, oppure, all'inverso, il rilievo dell'inquadramento gerarchico sfuma per tutti, imponendo un paritetico regime.
Inaccettabile è inoltre la tesi secondo la quale il diverso e più favorevole trattamento riservato agli ufficiali e sottufficiali, rinverrebbe un suo "ragionevole" fondamento nel fatto che alla maggiore responsabilità di questi corrisponde una più ampia "possibilità di <errori>": a smentire la fondatezza di un simile argomento, infatti, è sufficiente il rilievo che l'"errore" di cui fa cenno l'Avvocatura si realizza attraverso una condotta penalmente sanzionata, cosicchè sarebbe davvero paradossale ipotizzare che maggiormente esposti al "rischio" del delitto siano proprio quei soggetti che, rivestendo i gradi più elevati nell'ordinamento militare, presuppongono, al contrario, il possesso di qualità specifiche del tutto antagoniste rispetto alla eventualità che quei soggetti pongano in essere comportamenti illeciti che addirittura integrano ipotesi previste dalla legge come reato.
3. L'assunto della Avvocatura, dunque, lungi dal rivelarsi foriero di appaganti risposte circa la "ragionevolezza" della norma, finisce, a ben guardare, per rendere evidente come qualsiasi argomento che si intendesse addurre per giustificare la disparità di trattamento che il giudice a quo censura, può essere agevolmente impiegato per dimostrare l'esatto contrario, rendendo così contraddittoria ed evanescente la ratio posta a base della indicata disparità di regime e, per l'effetto, fondato il dubbio di legittimità costituzionale. Una fedele testimonianza di quanto appena osservato è d'altra parte offerta, a parere di questa Corte, dagli stessi lavori preparatori che hanno accompagnato la stesura del codice penale militare di pace.
Nello stabilire i limiti delle condanne dalle quali far derivare l'applicazione della pena accessoria della rimozione, la Commissione ministeriale che curò il progetto definitivo ritenne, infatti, di doversi "notevolmente discostare" da quanto era stato al riguardo stabilito in sede di progetto preliminare, ove si disponeva che la rimozione dovesse conseguire alla condanna alla reclusione militare per un tempo superiore a tre anni per gli ufficiali, e alla condanna alla stessa pena per un tempo superiore a un anno per i sottufficiali. Nell'esplicitare le ragioni della nuova scelta, rimasta poi inalterata nel testo definitivo del codice, la Commissione ministeriale ebbe puntualmente a rilevare che "se è da tener presente che, nel caso della rimozione, la perdita del grado può apparire sanzione tanto più grave quanto più quello è elevato, ugualmente è da considerare che il reato militare può apparire tanto più grave quanto più è elevato il grado di chi lo commette. E per queste considerazioni, la Commissione, pur non ritenendo di dover aderire ad alcune proposte di invertire per gli ufficiali e i sottufficiali i limiti della pena principale, quali sono posti nel progetto, per farne derivare l'effetto della rimozione," decise "di stabilire il limite di tre anni tanto per gli ufficiali quanto per i sottufficiali, non aggravandosi la posizione dei primi, ma migliorandosi quella dei secondi, così da eliminare l'ingiustificata disparità di trattamento" (relazione della Commissione ministeriale al progetto definitivo, n. 31).
Il legislatore dell'epoca precedente alla Costituzione ha dunque avvertito come fonte di "ingiustificata disparità di trattamento" il differenziato regime che il progetto preliminare stabiliva tra ufficiali e sottufficiali, sul presupposto che il diverso tasso di afflittività che la pena accessoria presenta in ragione del grado rivestito non potesse essere riguardato come criterio idoneo a fondare un trattamento di maggior favore per una categoria a scapito dell'altra. E ciò perchè, come ha osservato anche il giudice rimettente, ben potrebbe ipotizzarsi un regime addirittura inverso, qualora si ritenesse di dover correlare la maggiore severità del trattamento sanzionatorio al più elevato grado che il militare ricopre.
Se, quindi, la scelta del legislatore è stata quella di equiparare fra loro la posizione degli ufficiali e dei sottufficiali, e se, ancora, al nucleo di tale opzione sta la constatata impossibilità di rinvenire elementi tali da poter adeguatamente sostenere una disciplina differenziata fra le due categorie, è evidente, allora, che il diverso e meno favorevole limite di pena che il codice prevede per i graduati di truppa è, per le stesse ragioni, idoneo a generare quella "ingiustificata disparità di trattamento" che la Commissione ministeriale intese sanare attraverso l'equiparazione di cui si è detto. In tale contesto, pertanto, le condivisibili censure che il giudice a quo partitamente svolge per contestare ciascuna delle possibili "ragioni" che sosterrebbero l'impugnata normativa, si rivelano indicative di come, in realtà, nessuna "ragione" possa ritenersi univocamente enucleabile dal sistema, con l'ovvia conclusione di rendere la disposizione confliggente, in parte qua, con il principio sancito dall'art. 3 della Costituzione.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 29 del codice penale militare di pace nella parte in cui prevede che "per gli altri militari" la rimozione consegue alla condanna alla reclusione militare per una durata diversa da quella stabilita "per gli ufficiali e sottufficiali".
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 26/05/93.
Francesco Paolo CASAVOLA, Presidente
Giuliano VASSALLI, Redattore
Depositata in cancelleria il 01/06/93.