SENTENZA N. 82
ANNO 1993
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
Presidente
Prof. Francesco Paolo CASAVOLA
Giudici
Dott. Francesco GRECO
Prof. Gabriele PESCATORE
Avv. Ugo SPAGNOLI
Prof. Antonio BALDASSARRE
Prof. Vincenzo CAIANIELLO
Avv. Mauro FERRI
Prof. Luigi MENGONI
Prof. Enzo CHELI
Dott. Renato GRANATA
Prof. Giuliano VASSALLI
Prof. Francesco GUIZZI
Prof. Cesare MIRABELLI
Prof. Fernando SANTOSUOSSO
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 425 del codice di procedura penale, promosso con ordinanza emessa l'11 marzo 1992 dalla Corte di appello di Milano nel procedimento penale a carico di Ruzzante Reno Marco, iscritta al n. 249 del registro ordinanze 1992 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 20, prima serie speciale, dell'anno 1992.
Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio del 16 dicembre 1992 il Giudice relatore Giuliano Vassalli.
Ritenuto in fatto
l. La Corte di appello di Milano, nel corso del giudizio di impugnazione promosso dal Procuratore generale avverso una sentenza con la quale il giudice per le indagini preliminari, all'esito della udienza preliminare, ha dichiarato non luogo a procedere "perchè il fatto non costituisce reato", ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell'art. 425 del codice di procedura penale, nella parte in cui prevede, tra le diverse formule con le quali può essere adottata la sentenza di non luogo a procedere, anche quella del fatto che non costituisce reato, deducendo, a tal proposito, la violazione dell'art. 76 della Costituzione, in quanto la norma delegata verrebbe a porsi in contrasto con la direttiva di cui al numero 52) dell'art. 2 della legge-delega 16 febbraio 1987, n. 81, la quale "limita le ipotesi di emissione di sentenza di non luogo a procedere all'estinzione del reato, alla mancanza di una condizione di procedibilità, al fatto non previsto dalla legge come reato ovvero ai casi di evidenza dell'insussistenza del fatto e della non commissione del fatto da parte dell'imputato".
2. Nel giudizio è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura Generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata non fondata. L'Avvocatura, dopo aver premesso, alla luce delle affermazioni che questa Corte ha più volte enunciato in tema di raffronto fra legge di delega e legge delegata, che "il legislatore delegato non è privo di poteri discrezionali nell'attuazione della delega e che il limite non valicabile è quello del rispetto dei principi e delle finalità poste dalla legge di delega", ha osservato come nella vigenza del codice abrogato la formula < il fatto non è previsto dalla legge come reato>, che compariva in più disposizioni, avesse generato non pochi dubbi sulla sua portata.
Tali dubbi, peraltro, sarebbero stati dissolti da questa Corte con la sentenza n. 175 del 1971, essendo stato ivi affermato che la formula medesima dovesse essere interpretata "come comprensiva di tutte le situazioni di non punibilità diverse dalla sussistenza o commissione del fatto". Ed è proprio facendo leva su tale ultima interpretazione, dunque, ritenuta come quella costituzionalmente più corretta, che il legislatore delegato ha incluso nell'art. 425 del codice di rito la formula "il fatto non costituisce reato", in quanto desumibile da quella "il fatto non è previsto dalla legge come reato" che compare nella direttiva di cui al numero 52) della legge-delega.
Considerato in diritto
l. Il dubbio di legittimità costituzionale che solleva la Corte rimettente si incentra sulla compatibilità tra l'art.425 del codice di procedura penale, nella parte in cui stabilisce che il giudice pronuncia sentenza di non luogo a procedere "quando risulta evidente... che il fatto non costituisce reato", e l'art. 2, numero 52), sesto periodo, della legge-delega 16 febbraio 1987, n. 81, ove si enuncia il principio che il giudice, all'esito dell'udienza preliminare, pronuncia sentenza di non luogo a procedere allo stato degli atti..." se il fatto non è previsto dalla legge come reato, ovvero quando risulta evidente che il fatto non sussiste o che l'imputato non lo ha commesso". Ponendo così a raffronto i due enunciati normativi e sulla base del contrasto che, su di un piano squisitamente testuale, è dato cogliere tra le formule "in fatto" che compaiono nell'art. 425 del codice rispetto a quelle indicate dal legislatore delegante, il giudice a quo desume il mancato rispetto dei limiti imposti dalla legge-delega e, conseguentemente, la violazione dell'art. 76 della Costituzione.
All'assunto del rimettente l'Avvocatura oppone argomentazioni anch'esse fondate sull'analisi testuale della direttiva della legge-delega che si assume violata: posto, infatti, sostiene l'Avvocatura, che tale direttiva espressamente prevede la formula del fatto non previsto dalla legge come reato, e tenuto conto che questa Corte ha avuto modo di affermare, nella sentenza n. 175 del 1971, che a detta formula dovesse essere attribuito un significato generico, comprensivo anche delle ipotesi riconducibili alla formula del fatto non costituente reato, se ne deve concludere che, tale essendo l'interpretazione secundum Constitutionem, nessun eccesso di delega può ritenersi nella specie realizzato.
2. Così delineate le contrapposte tesi, va subito rilevato come, ai fini di una compiuta disamina della questione oggetto del presente giudizio, non possano ritenersi in sè risolutive nè le considerazioni di natura meramente formale che sostengono la censura del giudice a quo, nè la estensione interpretativa che propone l'Avvocatura estrapolando i dicta enunciati in tema di formule di proscioglimento nella richiamata sentenza n. 175 del 197l. Quanto al primo aspetto, infatti, se, da un lato, la verifica della conformità o meno delle disposizioni del codice di rito ai principii ed ai criteri formulati nella legge di delegazione non può prescindere dal dato testuale in cui risulta espressa la volontà del delegante, è altrettanto vero che l'analisi non può dirsi correttamente esaurita ove al raffronto dei testi non si sovrapponga il necessario controllo circa la compatibilità dei fini che fonte delegante e norma delegata hanno inteso perseguire, nel quadro di ciascun istituto e del sistema nel suo assieme. In un tessuto così composito, quale è quello in cui risulta articolata la legge-delega per l'emanazione del nuovo codice di procedura penale, ove a previsioni di carattere generale si trovano non di rado affiancati criteri di dettaglio che circoscrivono in confini assai ristretti i margini entro i quali può essere esercitata la discrezionalità del legislatore delegato, le scelte operate dal Parlamento possono pertanto ricevere coerente lettura solo nei limiti in cui ogni singola "prescrizione", impartita a norma dell'art. 76 della Costituzione, venga interpretata in stretta aderenza alla funzione che la stessa è destinata a svolgere nell'ambito di quello specifico modello processuale che il delegante stesso ha inteso tracciare.
D'altra parte, per giungere alla soluzione del dubbio avanzato dal giudice a quo, non può neppure ritenersi sufficiente un generico rinvio a quanto questa Corte ha avuto modo di affermare nella sentenza n. 175 del 1971 circa l'equivalenza delle formule che vengono qui in discorso, posto che le considerazioni ivi svolte si riferivano alla portata da annettere alla regola dettata dall'art. 152 cpv. del codice di rito abrogato, la cui ratio era "quella di evitare, di fronte all'evidenza delle prove, l'adozione della formula di proscioglimento per cause di estinzione del reato, che presuppone o può far presupporre l'esistenza, o per lo meno l'astratta possibilità, di fatti in sè suscettibili di sanzione penale".
Un contesto, dunque, troppo specifico per poter desumere, senza ulteriore verifica, l'automatica estensibilità di quelle affermazioni ad un istituto che, come l'udienza preliminare, presenta anch'esso una fisionomia del tutto peculiare.
3. Assorbente diviene, allora, l'esame di quale sia la funzione che l'udienza preliminare è destinata a svolgere nel quadro del sistema delineato dalla delega, per verificare, all'esito, se la mancata previsione della formula "il fatto non costituisce reato", tra quelle che la direttiva di cui al numero 52) enuncia in tema di sentenza di non luogo a procedere, possa intendersi come espressione di una volontà del legislatore intesa ad escluderla dal novero delle cause che legittimano il giudice ad adottare quella pronuncia che si pone come alternativa al rinvio a giudizio.
Non v'è dubbio, al riguardo, che nella sequenza procedimentale scandita dalla legge di delegazione l'udienza preliminare sia stata contrassegnata dai caratteri tipici della fase giurisdizionale, in cui le parti, in contraddittorio fra loro, si misurano su un determinato thema decidendum, la cui delibazione è affidata ad un giudice di regola estraneo alla raccolta degli elementi sulla cui base è chiamato ad adottare la pronuncia conclusiva. Ciò significa che l'udienza, proprio perchè è la sede in cui si introduce per la prima volta la dialettica processuale dinanzi ad un giudice che si colloca in una funzione di sostanziale terzietà, è destinata a svolgere essenzialmente una funzione di garanzia, quale certamente è quella di consentire all'imputato di difendersi e contrastare la richiesta di rinvio a giudizio formulata dal pubblico ministero. Che l'udienza preliminare possa poi concludersi con una sentenza di non luogo a procedere, e quindi svolgere anche una funzione di economia processuale, è aspetto che non interferisce con quanto si è detto, rappresentandone, semmai, il naturale corollario: a fronte della domanda di giudizio infondata, infatti, sta anzitutto l'esigenza di assicurare il pronto ristoro dei diritti dell'inquisito, e non certo quella, secondaria e conseguenziale, di impedire una superflua prosecuzione dell'attività processuale.
D'altra parte, che questa sia stata la linea prescelta dal legislatore, lo si desume con certezza dalla stessa direttiva 52), la quale, assicurando all'imputato la facoltà "di chiedere il giudizio immediato rinunciando all'udienza preliminare", pone in evidenza come, anche nella ipotesi di imputazione priva di fonda mento e che pertanto avrebbe potuto rinvenire una "economica" soluzione all'interno della udienza preliminare, sia assegnato risalto esclusivo alla scelta dell'imputato di esercitare in sede dibatti mentale la propria difesa.
4. Tale essendo, dunque, la funzione che l'udienza preliminare è destinata a svolgere nel sistema, e considerato che gli epiloghi cui l'udienza stessa è volta non possono prescindere dalla ratio dell'istituto, costituendone, anzi, l'emblematica proiezione attuativa, l'analisi delle formule con le quali può essere adottata la sentenza di non luogo a procedere e la correlativa ricostruzione della volontà del delegante andrà condotta sulla falsariga dei "diritti" e dei "poteri" che i soggetti dell'udienza sono chiamati ad esercitare, nel quadro dei profili funzionali che, come accennato, caratterizzano quella specifica fase del processo.
La sentenza di non luogo a procedere, si è detto, è l'alternativa decisoria offerta al giudice rispetto all'adozione del provvedimento che dispone il giudizio: entrambe le opzioni, peraltro, assumono a comune denominatore l'atto di esercizio della azione penale che si esprime attraverso la richiesta di rinvio a giudizio. La domanda del pubblico ministero, dunque, evocando l'intervento del giudice, per un verso soddisfa il presupposto in rito che consente la celebrazione dell'udienza, mentre, sotto altro profilo, traccia i confini del "merito" sul quale il giudice stesso è chiamato a pronunciarsi. Come recita, infatti, la direttiva 48), e come ribadisce quella di cui al numero 52), alla richiesta del pubblico ministero è coessenziale la formulazione della imputazione, sicchè è proprio quest'ultima a costituire "l'oggetto" sul quale si misurano il contraddittorio e il tema devoluto all'organo della giurisdizione. Il diritto dell'imputato, quindi, deve necessariamente calibrarsi in funzione di tutto ciò che l'atto di imputazione enuncia a suo carico, senza potersi a tal fine parcellizzare o, peggio, dissolvere, prendendo a riferimento aspetti che solo parzialmente esauriscono il fatto ed i suoi connotati di antigiuridicità. Se l'udienza preliminare è sede di garanzia e se, ancora, quest'ultima è naturale espressione dell'inviolabile diritto di difesa che l'art. 24 della Costituzione riconosce in ogni stato e grado del pro cedimento, è di tutta evidenza, allora, che nè di garanzia nè di difesa potrebbe correttamente parlarsi ove all'imputato fosse consentito di contrastare alcuni soltanto dei profili in cui si articola l'atto contestativo: tra contestazione e difesa, dunque, corre un nesso di corrispondenza biunivoca che rende l'una funzionale all'altra.
Così ricostruiti i contrapposti diritti e poteri delle parti, ad essi dovrà quindi necessariamente saldarsi la tipologia degli epiloghi cui l'udienza preliminare può pervenire, posto che, se la difesa è destinata a svolgersi sulla integralità della imputazione, la stessa risulterebbe del tutto sterile ove al giudice fosse poi inibito di raccoglierne i risultati. Se, pertanto, la legge-delega espressamente abilita il giudice a pronunciare sentenza di non luogo a procedere quando risulta evidente che il fatto non sussiste o l'imputato non lo ha commesso, ciò non equivale affatto ad escludere dalla sfera delibativa quelle restanti cause che parimenti incidono sul fatto contestato e che il legislatore delegato ha sussunto sotto la formula del fatto che non costituisce reato.
Ove, infatti, l'enunciato della delega ricevesse una lettura riduttiva al punto da far desumere che il controllo del giudice debba limitarsi al controllo dei soli elementi materiali del reato, della ascrivibilità del fatto all'imputato, e della riconducibilità del fatto medesimo alla ipotesi-tipo legalmente determinata, qualsiasi difesa che intendesse contestare, ad esempio, l'esistenza dell'elemento psicologico del reato o dedurre la presenza di una causa di giustificazione sarebbe privata di qualsiasi "risposta" giurisdizionale, proprio perchè - come mostra di ritenere il rimettente - mancherebbe nella delega una previsione esplicita circa la corrispondente formula. Ma una simile conclusione, palesemente in contrasto con i più elementari principii di garanzia, non è consentita nè dalla lettera nè dallo spirito della legge di delegazione, che, anzi, si è sforzata di modellare l'intero quadro del processo e la stessa udienza preliminare in funzione di quelle esigenze di parità tra accusa e difesa che rappresentano un aspetto essenziale del prescelto modello accusatorio.
La previsione della delega che assegna al giudice il potere di pronunciare sentenza di non luogo a procedere quando risulta evidente che il fatto non sussiste, non comporta, infatti, nè sul piano logico nè su quello lessicale, l'automatica esclusione di qualsiasi potere del delegato di scandire in autonome formule le ipotesi in cui quel fatto, così come contestato, risulta essere privo dei requisiti propri della fattispecie dedotta nella imputazione. Se difetta il dolo o la colpa e l'ipotesi contestata è rispettivamente di natura dolosa o colposa, è il fatto in sè a non potersi dire conforme al modello legale, sicchè l'insussistenza del fatto ipotizzata dalla delega certamente consentiva, anche sul piano letterale, la scelta del legislatore delegato di ricondurre quelle ipotesi nella formula che, per tradizione, è loro propria. Allo stesso modo, se è l'antigiuridicità del fatto a venire in discussione per la presenza di una scriminante, è il fatto "colpevole" a non potersi dire sussistente, con l'ovvio corollario di rendere pure sotto questo profilo conforme alla delega la norma impugnata. Ma al di là di qualsiasi teorizzazione circa la reale portata da annettersi all'una o all'altra formula, sta il dato incontrovertibile che, essendo enunciate per la sentenza di non luogo a procedere talune ipotesi "in fatto", la legge di delega ha con esse certamente inteso consentire all'imputato di difendersi sulla integralità del fatto contestato ed al giudice di pronunciarsi in conformità.
D'altra parte, se si ammette, come si ammetteva sotto la vigenza del codice abrogato, che il difetto dell'elemento psicologico del reato o la presenza di una causa di giustificazione legittimino il pubblico ministero a richiedere l'archiviazione, sarebbe del tutto incoerente escludere qualsiasi rilevanza delle medesime situazioni sol perchè emerse nella udienza preliminare, giacchè si perverrebbe al paradosso di imporre un dibattimento negli stessi casi in cui non è imposta neppure l'azione penale.
Da quanto detto, peraltro, non consegue che alla valutazione della integralità del fatto debba necessariamente corrispondere un giudizio di pieno merito, fondato sugli stessi parametri delibativi alla stregua dei quali il giudice del dibattimento è chiamato a decidere se pronunciare sentenza di proscioglimento o di condanna.
Diverse sono, infatti, la struttura e la funzione della udienza preliminare rispetto a quelle che caratterizzano la fase del dibattimento, così come diversi sono, per tipologia e denominazione, i relativi epiloghi decisorii. Ciò spiega la ragione per la quale il legislatore delegante ha ritenuto di limitare ai soli casi di "evidenza" le ipotesi in cui il giudice può apprezzare l'infondatezza della imputazione e pronunciare sentenza di non luogo a procedere con le formule in fatto, così precludendo una sorta di giudizio anticipato che incrinerebbe non poco quella marcata "autonomia" del dibattimento che lo stesso sistema accusatorio ontologicamente postula. Ma la diversità "quantitativa" che caratterizza l'apprezzamento del merito che si compie nella udienza preliminare rispetto a quello riservato all'organo del dibattimento, e che si esprime attraverso la peculiare regola di giudizio di cui si è detto, non solo non esclude ma, anzi, dimostra che è l'intero merito a dover essere valutato dal giudice, giacchè altrimenti non sarebbe l'imputazione a costituire il tema del giudizio ma solo parti della stessa che sarebbe arbitrario enucleare.
In un simile quadro d'assieme, finisce allora per divenire superfluo esaminare se ed in quale misura possano utilmente soccorrere i principi affermati nella sentenza n. 175 del 1971, sui quali, invece, si è integralmente attestata l'Avvocatura.
Può semmai osservarsi che la regola della prevalenza delle formule di merito rispetto alla causa estintiva del reato ha trovato puntuale recepimento nella direttiva di cui al numero 11), ultima parte, dell'art.2 della legge-delega, cosicchè, assumendo quella regola connotazioni tali da farla assurgere a valore di principio generale, se ne può trarre il convincimento che la stessa si renda applicabile in tutte le ipotesi in cui il medesimo delegante ha - come nel caso dell'udienza preliminare - affidato al giudice il compito di pronunciarsi sul merito e sulla causa estintiva. Essendo dunque "merito", per stare agli esempi già fatti, l'accertata inesistenza dell'elemento psicologico del reato o la presenza di una causa di giustificazione, e dovendo queste situazioni prevalere sulla eventuale causa di estinzione del reato, sempre che si propongano in termini di "evidenza", può desumersi, anche per questa via, la compatibilità della norma impugnata con le direttive tracciate dal legislatore delegante.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 425 del codice di procedura penale, sollevata, in riferimento all'art. 76 della Costituzione, dalla Corte di appello di Milano con l'ordinanza in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 26/02/93.
Francesco Paolo CASAVOLA, Presidente
Giuliano VASSALLI, Redattore
Depositata in cancelleria il 11/03/93.