Sentenza n. 409 del 1992

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SENTENZA N. 409

ANNO 1992

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori Giudici:

-          Dott. Aldo CORASANITI, Presidente

-          Prof. Giuseppe BORZELLINO

-          Dott. Francesco GRECO

-          Prof. Gabriele PESCATORE

-          Avv. Ugo SPAGNOLI

-          Prof. Francesco Paolo CASAVOLA

-          Prof. Vincenzo CAIANIELLO

-          Avv. Mauro FERRI

-          Prof. Enzo CHELI

-          Dott. Renato GRANATA

-          Prof. Giuliano VASSALLI

-          Prof. Francesco GUIZZI

-          Prof. Cesare MIRABELLI

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 2503 e 2504 del codice civile, promosso con ordinanza emessa il 6 giugno 1991 dal Tribunale di Genova nel procedimento civile vertente tra la s.r.l. TAE-AEROSERVIZI CONSORZIATI ed altro e Canessa Stefano ed altro, iscritta al n. 176 del registro ordinanze 1992 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 16, prima serie speciale, dell'anno 1992.

Visti l'atto di costituzione di Baldassarre Giuseppe, nonchè l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell'udienza pubblica del 6 ottobre 1992 il Giudice relatore Renato Granata;

Ritenuto in fatto

uditi l'avv. Giovanni Marcangeli per Baldassarre Giuseppe e l'Avvocato dello Stato Giorgio D'Amato per il Presidente del Consiglio dei ministri 1. Il Tribunale di Genova - adito dalla società TAE S.r.l. e dal CONSORZIO AEREO SERVIZI CONSORZIATI che chiedevano dichiararsi l'estensione del fallimento della società AIR.MA.ST. S.r.l. alla società in nome collettivo AIR.MA.ST. ed ai suoi soci illimitatamente responsabili Canessa Stefano e Baldassarri Giuseppe - ha sollevato, con ordinanza del 6 giugno 1991, questione di legittimità costituzionale in via incidentale degli artt. 2503 e 2504 c. c. in riferimento agli artt. 3 e 24 Cost.

Premette in fatto il giudice rimettente che i ricorrenti assumevano di essere creditori della società in nome collettivo AIR. MA. ST. per il pagamento di noli maturati e di aver appreso (soltanto nell'agosto del 1990) che tale società (con atto del 19 luglio 1990), si era fusa , mediante incorporazione, nella società a responsabilità limitata AIR. MA.ST., la quale subito dopo presentava istanza per la dichiarazione del proprio fallimento avendo una situazione debitoria molto pesante.

Avverso tale fusione i ricorrenti, ancorchè ormai tardivamente, avevano presentato opposizione.

Alla domanda di estensione della dichiarazione di fallimento resistevano i convenuti Canessa e Baldassarre sostenendo la loro non assoggettabilità al fallimento essendo la loro (illimitata) responsabilità patrimoniale venuta meno con l'estinzione, per effetto dell'intervenuta fusione, della società di persone di cui essi erano soci.

Ciò premesso in fatto, osserva in diritto il giudice rimettente che in caso di fusione c.d. eterogenea (ossia tra società di persone e società di capitali) la nuova società assume tutti gli obblighi delle società estinte, senza che sopravviva la responsabilità patrimoniale dei soci illimitatamente responsabili della prima per debiti sociali anteriori alla fusione, ove i creditori non abbiano proposto tempestiva opposizione ai sensi dell'art. 2503 c.c.; nè può farsi applicazione analogica dell'art.2499 c.c. che viceversa, in caso di trasformazione di società, prevede il venir meno di tale illimitata responsabilità patrimoniale solo in caso di mancato consenso (espresso o tacito) alla liberazione da parte dei creditori.

Tale normativa - secondo il giudice rimettente - si pone in contrasto con l'art. 24 Cost. perchè, prevedendo la liberazione dei soci illimitatamente responsabili in mancanza di opposizione dei terzi creditori nel termine di tre mesi dalla iscrizione delle deliberazioni di fusione, contempla un termine che decorre prescindendo dall'effettiva conoscenza della volontà societaria di dar corso alla fusione stessa.

Pertanto la grave conseguenza (per il terzo creditore) del venir meno della responsabilità illimitata del socio è fatta dipendere da un'astratta presunzione di conoscibilità e non già dall'effettiva conoscenza della fusione.

É denunciata altresì una disparità di trattamento (art. 3 Cost.) tra la fattispecie della fusione eterogenea (quale prevista dagli artt.2503 e 2504 c.c.) e quella disciplinata dall'art. 2499 c.c. nell'ipotesi di trasformazione di una società di persone in una di capitali atteso che in quest'ultimo caso la liberazione dei soci illimitatamente responsabili è subordinata ad un diretto interpello dei creditori mediante comunicazione con raccomandata della deliberazione di trasferimento, sicchè lo stesso identico interesse dei terzi creditori risulterebbe tutelato maggiormente nel caso di trasformazione di società di persone in società di capitali che non nel caso di fusione eterogenea.

2. Si è costituita la parte privata Baldassarre Giuseppe chiedendo che la questione di costituzionalità sia dichiarata inammissibile od infondata.

3. É intervenuto il Presidente del Consiglio dei Ministri rappresentato e difeso dall'Avvocatura Generale dello Stato eccependo in via pregiudiziale il difetto di rilevanza delle questioni di costituzionalità atteso che queste sono state sollevate, non già nel giudizio di opposizione (ancorchè tardiva) alla fusione da parte dei creditori, bensì nel giudizio avente ad oggetto l'estensione della dichiarazione di fallimento ai soci della società di persone incorporata in società di capitali.

Manca quindi il carattere di pregiudizialità delle questioni di costituzionalità (che attengono alla decorrenza del termine per l'opposizione alla fusione) rispetto alla decisione che il giudice rimettente è chiamato ad adottare (che riguarda il profilo dell'avvenuta liberazione, per effetto della fusione, dei soci illimitatamente responsabili).

Nel merito l'Avvocatura dello Stato ritiene non fondate le questioni di costituzionalità atteso che, da una parte, il termine per proporre l'opposizione è congruo e, d'altra parte, non è irragionevole che il dies a quo decorra dalla realizzazione della tipica forma di pubblicità legale della delibera di fusione, qual è l'iscrizione nel registro delle imprese.

Sotto altro profilo poi non sussiste disparità di trattamento rispetto alla disciplina della trasformazione atteso che fusione e trasformazione sono istituti profondamente diversi tra loro, conducendo l'una all'estinzione delle società fuse od incorporate e ad un fenomeno successorio per quanto riguarda i rapporti patrimoniali già facenti capo alle medesime e l'altra ad una modifica dell'atto costitutivo che presuppone la conservazione e la continuazione della società trasformata.

Considerato in diritto

1. É stata sollevata questione incidentale di legittimità costituzionale degli artt. 2503 e 2504 c.c. (nel regime anteriore al decreto legislativo 16 gennaio 1991 n.22 che ne ha novellato il testo) nella parte in cui prevedono che il termine di tre mesi, entro il quale il creditore può proporre opposizione alla fusione di una società di persone in una società di capitale, decorra dall'iscrizione delle relative delibere nel registro delle imprese e non già dall'effettiva conoscenza delle stesse.

In particolare è denunciata la violazione del diritto di difesa (art.24 Cost.) perchè il terzo creditore deve nel breve termine suddetto non solo effettuare (periodicamente) la ricerca presso il registro delle imprese, ma anche (eventualmente) predisporre l'atto di opposizione.

Inoltre sarebbe vulnerato anche il principio di parità di trattamento (art.3 Cost.) perchè nel caso di trasformazione di una società di persone in società di capitali i soci illimitatamente responsabili della prima sono liberati (oltre che per espresso consenso dei terzi creditori) soltanto in caso di inerzia degli stessi protrattasi per un termine di trenta giorni decorrente dalla diretta comunicazione della trasformazione fatta con lettera raccomandata.

Le censure così formulate attengono quindi ad un particolare profilo della disciplina del procedimento che segue alle deliberazioni di fusione adottate da ciascuna società e che sfocia nell'atto di fusione; è il profilo della speciale tutela accordata ai creditori delle società che partecipano alla fusione, ai quali l'art. 2503 riconosce la facoltà di paralizzare il procedimento medesimo proponendo opposizione nel termine di tre mesi dall'iscrizione delle deliberazioni suddette nel registro delle imprese (attualmente nel registro presso la Cancelleria del Tribunale ex art. 100 disp. att. c.c.), termine ridotto a due mesi dalla novella n. 22 del 1991 (che peraltro ha previsto che il medesimo termine possa decorrere alternativamente dalla pubblicazione delle delibere per estratto nella Gazzetta Ufficiale).

2. Va pregiudizialmente esaminata l'eccezione, sollevata dall'Avvocatura di Stato, di inammissibilità della questione per difetto di rilevanza.

Il giudice rimettente - muovendo dalla premessa che, ove una società di persone (nella specie, una società in nome collettivo) si fonda in una società di capitali (c.d. fusione eterogenea), la mancata tempestiva opposizione da parte dei creditori non solo rimuove un potenziale ostacolo alla fusione stessa, ma anche determina la liberazione dei soci illimitatamente responsabili della società di persone - dubita della legittimità costituzionale della identificazione del dies a quo del termine per proporre l'opposizione suddetta nel mero adempimento di un onere di pubblicità legale delle delibere di fusione.

La censura così formulata investe direttamente la valutazione della tempestività, o meno, dell'opposizione dei creditori, che nella specie, alla stregua della normativa censurata, sarebbe altrimenti tardiva, essendo pacifico che essa è stata proposta dopo il decorso di tre mesi dalle iscrizioni delle delibere di fusione (come risulta dall'ordinanza di rimessione, che però null'altro aggiunge in proposito limitandosi a dar atto che si tratta di opposizione tardiva senza peraltro precisare se giudiziale o stragiudiziale); invece l'oggetto del giudizio a quo è costituito - non già dalla legittimità, o meno, della fusione - ma dalla possibilità di estendere la dichiarazione di fallimento alla società in nome collettivo e ai soci illimitatamente responsabili.

Il presupposto della rilevanza della censura di incostituzionalità, che all'evidenza attiene esclusivamente alla prima questione, postula che la cognizione del giudice a quo, che invece investe la seconda questione, debba non di meno estendersi (seppur incidenter tantum) alla prima; sicchè nell'ordinanza di rimessione avrebbe dovuto rinvenirsi la ragione per cui la pronuncia in ordine alla estensibilità, o meno, della dichiarazione di fallimento, richiedesse preliminarmente la valutazione della tempestività dell'opposizione alla fusione.

Tale motivazione in ordine alla rilevanza della censura è del tutto carente e quindi è inammissibile la questione di costituzionalità.

3. Ed infatti, ove l'opposizione alla fusione sia stata proposta in sede giudiziaria - come in effetti ritengono che debba essere proposta sia la giurisprudenza della Corte di cassazione (che parifica tale opposizione alle impugnative delle delibere assembleari ex art. 2378 c.c.), sia una parte della dottrina -, non può dubitarsi che sarebbe il giudice dell'opposizione - in quanto chiamato a fare applicazione degli artt. 2503 e 2504 c.c. - a poter sollevare la questione incidentale di legittimità costituzionale in esame. La questione, invece, difetterebbe di rilevanza ove sollevata dal giudice chiamato ad estendere la dichiarazione di fallimento il quale, in mancanza dell'opposizione (giudiziale), non potrebbe accertare, neppure incidenter tantum, la illegittimità della fusione: tale giudice, cioé, non sarebbe mai chiamato a fare applicazione della norma denunziata, ma dovrebbe limitarsi a prendere atto della applicazione fattane dal diverso giudice dell'altro processo.

Ove invece l'opposizione in concreto sia stata proposta soltanto in forma stragiudiziale, un'ipotetica rilevanza della questione di costituzionalità potrebbe scaturire soltanto dalla ritenuta idoneità della stessa (anche in mancanza di una tempestiva iniziativa giudiziaria) ad inficiare l'atto di fusione e quindi ad incidere - impedendo l'effetto liberatorio derivante, in tesi, dalla fusione - sulla richiesta estensione della dichiarazione di fallimento. Ma in ordine a tale idoneità il giudice rimettente non articola alcuna motivazione; tanto più, invece, necessaria perchè tale ipotizzata idoneità dell'opposizione stragiudiziale appare assai dubbia in ragione sia del citato orientamento giurisprudenziale e dottrinale, sia della formulazione dell'art. 2503 c.c. che - prevedendo all'ultimo comma che il tribunale, nonostante l'opposizione, possa disporre che la fusione abbia luogo previa prestazione da parte della società (risultante) di idonea garanzia - sembra deporre per il carattere giudiziale (oltre che preventivo) dell'opposizione stessa.

Tra queste due possibili prospettazioni (inevitabilmente alternative non risultando dall'ordinanza di rimessione quale opposizione sia stata nella specie proposta) si colloca quindi un snodo essenziale, che invece è rimasto privo di alcuna opzione e motivazione da parte del giudice rimettente.

Da ciò consegue la dichiarazione di inammissibilità della questione di costituzionalità per difetto di motivazione sulla rilevanza.

4. Può aggiungersi che la questione di costituzionalità difetterebbe egualmente del requisito della rilevanza anche quando si abbandonasse la premessa interpretativa da cui muove il giudice rimettente, che si fonda, sì, su una pronuncia della Corte di cassazione (Cass. 25 ottobre 1977 n.4564), ma che è contrastata dalla dottrina e non è seguita da parte della giurisprudenza di merito. Infatti, ove si accedesse all'apposta tesi, secondo cui l'opposizione di cui all'art. 2503 c.c. riguarda esclusivamente l'atto di fusione (che - a prescindere dalla liberazione, o meno, dei soci illimitatamente responsabili - potrebbe pregiudicare i creditori in ragione del concorso con nuovi e ulteriori creditori), mentre resta invariata la posizione dei soci illimitatamente responsabili della società fusa (i quali non sarebbero toccati dalla disciplina posta dalla citata norma e quindi non sarebbero liberati neppure in caso di fusione non opposta), l'eventuale tardività dell'opposizione rileverebbe unicamente al fine dell'efficacia e della validità dell'atto di fusione, ma non anche al fine della responsabilità dei soci illimitatamente responsabili (che persisterebbe in ogni caso) e quindi della possibilità di estendere a loro la dichiarazione di fallimento della società fusa.

Al fine, pertanto, della definizione del processo a quo, l'autorità rimettente non sarebbe tenuta affatto a valutare la tempestività, o meno, dell'opposizione alla fusione, ma dovrebbe giudicare soltanto in merito alla estensibilità, o meno, della dichiarazione di fallimento, onde risulterebbe del tutto priva di rilevanza la questione di costituzionalità che investe il dies a quo del termine per proporre l'opposizione stessa.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale degli artt. 2503 e 2504 codice civile, sollevata, in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione, del Tribunale di Genova con l'ordinanza in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte Costituzionale, Palazzo della Consulta, il 21/10/92.

Aldo CORASANITI, Presidente

Renato GRANATA, Redattore

Depositata in cancelleria il 29/10/92.