SENTENZA N.329
ANNO 1992
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori Giudici:
- Dott. Aldo CORASANITI, Presidente
- Prof. Giuseppe BORZELLINO
- Dott. Francesco GRECO
- Prof. Gabriele PESCATORE
- Avv. Ugo SPAGNOLI
- Prof. Francesco Paolo CASAVOLA
- Prof. Antonio BALDASSARRE
- Avv. Mauro FERRI
- Prof. Luigi MENGONI
- Prof. Enzo CHELI
- Dott. Renato GRANATA
- Prof. Giuliano VASSALLI
- Prof. Francesco GUIZZI
- Prof. Cesare MIRABELLI
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
(Per la correzione di errore materiale occorso nella presente sentenza, vedi ord. n. 398 del 1992.).
nel giudizio di legittimità costituzionale dell'articolo unico della legge 15 luglio 1926, n. 1263, di conversione del regio decreto-legge 30 agosto 1925, n. 1621 (Atti esecutivi sopra beni di Stati esteri nel Regno), promosso con ordinanza emessa il 5 giugno 1991 dal Tribunale amministrativo regionale del Lazio sul ricorso proposto dalle Società Condor e Filvem contro il Ministero di grazia e giustizia, iscritta al n. 94 del registro ordinanze 1992 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 10, prima serie speciale, dell'anno 1992.
Visti l'atto di costituzione delle Società Condor e Filvem nonchè gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri e del Governo della Repubblica federale di Nigeria;
udito nell'udienza pubblica del 2 giugno 1992 il Giudice relatore Luigi Mengoni;
uditi gli avvocati Giuseppe Morbidelli ed Enrico Vincenzini per le Società Condor e Filvem e l'Avvocato dello Stato Giorgio D'Amato per il Presidente del Consiglio dei ministri.
Ritenuto in fatto
1.- Nel corso di un giudizio promosso dalle società Condor e Filvem per l'annullamento del decreto del Ministro di grazia e giustizia 28 agosto 1987, che aveva inibito l'esecuzione del sequestro conservativo già disposto dal Tribunale di Pisa su una nave appartenente alla Compagnia nazionale di navigazione della Nigeria, il T.A.R. del Lato, con ordinanza del 5 giugno 1991 (pervenuta a questa Corte il 14 febbraio 1992), ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell'articolo unico del r.d.l. 30 agosto 1925, n. 1621, convertito nella legge 15 luglio 1926, n. 1263, secondo cui non si può procedere ad atti conservativi o esecutivi su beni appartenenti a uno Stato estero senza l'autorizzazione del Ministro di grazia e giustizia, sempre che si tratti di uno Stato che ammette la reciprocità.
La causa che ha dato luogo all'incidente di costituzionalità trae origine dalla moratoria del debito estero disposta dal Governo della Repubblica federale della Nigeria. A seguito di tale provvedimento alcune imprese private nigeriane, che avevano comprato merce varia dalle imprese italiane ricorrenti, si trovarono nell'impossibilità di pagare il prezzo. In esecuzione delle direttive contenute in un piano di ripianamento dei debiti contratti fino al 31 dicembre 1983, Predisposto dal governo nigeriano, la Banca centrale della Nigeria rilasciò alle società interessate formali promesse di pagamento con garanzia del governo 'federale. Non essendo state tali promesse onorate, le creditrici hanno ottenuto dal Presidente del Tribunale di Pisa il sequestro conservativo di una nave, ormeggiata in Italia, di proprietà della Compagnia di Stato nigeriana, sequestro poi dichiarato inefficace dallo stesso Tribunale in conseguenza del citato decreto ministeriale, il quale, previa dichiarazione della sussistenza della condizione di reciprocità ai sensi del d.l. n. 1621 del 1925, ha negato l'autorizzazione del sequestro e inibito il proseguimento della procedura.
Ad avviso del giudice remittente, la norma impugnata viola:
a) gli artt. 3 e 24 Cost., perchè comprime il diritto di difesa di un singolo, privandolo della possibilità di realizzare coattivamente un proprio credito, a tutela di un interesse della collettività generale, di cui é esponente lo Stato, senza prevedere alcun indennizzo;
b) l'art. 23 Cost., perchè il rifiuto dell' autorizzazione all'esperimento dell'azione esecutiva si traduce in una prestazione patrimoniale imposta senza riferimento alla capacità contributiva dell'onerato;
c) di nuovo, sotto altro profìlo, l'art. 24 Cost., perchè il diritto di difesa non viene limitato sulla base di dati predeterminati per tutti i cittadini nella stessa misura, ma con una valutazione che può differenziarne il trattamento sulla base di elementi estranei alla condizione dei singoli, in quanto afferenti ai rapporti internazionali dello Stato;
d) infine l'art. 41 Cost., perchè la restrizione del diritto di difesa in giudizio nei rapporti commerciali pregiudica la libertà di iniziativa economica, precludendo agli imprenditori la possibilità di ottenere l'adempimento delle obbligazioni assunte da Stati esteri in attività svolte in veste di soggetti privati.
2.- Nel giudizio davanti alla Corte si sono costituite le società ricorrenti aderendo agli argomenti esposti nell'ordinanza di rimessione e concludendo per la fondatezza della questione.
In una memoria depositata in prossimità dell'udienza di discussione esse chiedono in primo luogo che la Corte sollevi d'ufficio questione di legittimità costituzionale della norma in esame in riferimento all'art. 10 Cost., non richiamato dal giudice a quo. Il d.l. n. 1621 del 1925, in quanto copre anche le attività di Stati esteri estranee alla sfera della loro sovranità. si pone in contrasto col principio ormai consolidato nel diritto internazionale che riconosce agli Stati esteri solo un'immunità ristretta, cioé non estesa alle attività da essi esercitate non iure Imperi, ma iure gestionis.
Con specifico riguardo alle censure dell'ordinanza di rimessione, le parti private osservano che la tutela cautelare, componente essenziale del diritto di difesa, non può nella specie essere subordinata al presupposto dell'esecutività della decisione di merito, attesa la mancata ratifica, da parte della Nigeria, della convenzione dell'Aja del 1954 concernente la procedura civile. Perciò la misura cautelare non può essere negata, essendo l'unico strumento disponibile per la tutela dei diritto di credito, e quindi della libertà di impresa.
3.- Il Governo della Repubblica federale di Nigeria si é costituito fuori termine.
4.- É intervenuto il Presidente dei Consiglio dei ministri, rappresentato dall'Avvocatura dello Stato, rilevando che il giudice remittente ha formulato censure avulse da ogni collegamento con i fatti oggetto della controversia, prospettando questioni astratte e, come tali, inammissibili.
Secondo l'Avvocatura, lo Stato della Nigeria é estraneo all'obbligazione assunta dagli operatori privati nigeriani, controparti contrattuali delle ditte italiane. Esso non ha mai assunto la veste di "privato contraente", nè é mai entrato con le ditte interessate in rapporti di natura privatistica, ma ha operato nei confronti di queste come titolare di una potestà d'impero nel proprio ordinamento, adottando un provvedimento generale di moratoria del debito estero. Poichè lo Stato italiano é privo di giurisdizione in ordine a controversie relative a tale provvedimento, il sequestro domandato dalle società in causa non potrebbe mai essere convalidato con l'attribuzione di un titolo esecutivo contro lo Stato della Nigeria.
A giudizio dell'interveniente, la questione della ricaduta del danno sul singolo anzichè sulla collettività non é posta correttamente, non potendosi prospettare, in caso di diniego di autorizzazione della misura cautelare, un pregiudizio irrimediabile dell'interessato. Comunque il giudizio principale non ha per oggetto una domanda di indennizzo, la concessione del quale, del resto, postula la determinazione, nell'ambito di scelte discrezionali del legislatore, di presupposti e parametri.
Non sono conferenti il richiamo all'art. 41 Cost., in quanto la disciplina impugnata non attiene alla materia dell'iniziativa economica, nè il richiamo dell'art. 23 Cost., non essendo ravvisabile nella specie alcuna forma indiretta di prestazione patrimoniale imposta, e ciò tanto più con riguardo all'inibizione di un'azione cautelare.
Priva di fondamento appare, infine, l'ultima censura, formalmente riferita all'art. 24 Cost., ma che sottende nella sostanza una violazione dell'art. 3, posto che il giudice remittente non contesta in linea di principio la legittimità di limiti legislativi dei diritto del singolo di agire in giudizio, giustificati da motivi superiori di interesse generale. Si osserva in proposito che, in virtù della condizione di reciprocità, tutti i cittadini creditori di uno Stato estero sono soggetti al requisito dell'autorizzazione per potere agire in giudizio, e le relative domande dovranno essere valutate dal Ministro, in relazione a un dato momento storico, con criterio uniforme.
Considerato in diritto
1. - Il T.A.R. del Lazio mette in dubbio, in riferimento agli artt. 3, 23, 24 e 41 Cost., la legittimità costituzionale dell'articolo unico del r.d.l.30 agosto 1925, n. 1621, convertito nella legge 15 luglio 1926, n. 1263, secondo cui < non si può procedere al sequestro o pignoramento e, in genere, ad atti esecutivi su beni mobili o immobili, navi, crediti, titoli, valori e ogni altra cosa spettante a uno Stato estero, senza l'autorizzazione del Ministro di grazia e giustizia>, sempre che si tratti di uno Stato che ammette la reciprocità, la quale deve essere dichiarata con decreto del Ministro.
In un passo della motivazione il giudice remittente lamenta che nella legge denunciata non < sia prevista alcuna forma di ristoro per il pregiudizio subito dal destinatario del diniego di autorizzazione>, ma non se ne può argomentare che il petitum dell'ordinanza, non definito nel dispositivo, miri a una sentenza dichiarativa di illegittimità costituzionale della legge nella parte in cui non prevede l'obbligo dello Stato italiano di corrispondere un congruo indennizzo al creditore cui è stata preclusa la tutela cautelare o esecutiva del suo diritto. Valutato nel contesto in cui è inserito, il passo citato non svolge un argomento autonomo (nel qual caso il giudice non avrebbe mancato di richiamare l'art. 42, terzo comma, Cost.), bensì ha la funzione di rafforzare l'argomentazione precedente, volta a dimostrare la violazione dei principi di eguaglianza e di razionalità in relazione al principio della tutela giurisdizionale dei diritti: argomentazione che porta coerentemente a un giudizio di radicale illegittimità costituzionale della norma impugnata.
2. -L'Avvocatura dello Stato eccepisce l'inammissibilità della questione sul riflesso che l'obbligazione assunta dalla Repubblica federale della Nigeria verso le imprese ricorrenti non deriva da un atto compiuto in veste di privato contraente, ma < da un intervento diretto ad attuare la moratoria del debito estero nell'esercizio di poteri sovrani di governo>, e come tale sarebbe sottratta alla giurisdizione italiana.
L'eccezione non può essere accolta. Nella sfera dei poteri sovrani e di governo dello Stato nigeriano rientrano il provvedimento di moratoria del debito estero e il piano successivamente predisposto di ripianamento dei debiti contratti da operatori nigeriani verso fornitori esteri fino al 31 dicembre 1983. Non rientrano, invece, le promesse di pagamento che, in esecuzione delle direttive del piano, sono state rilasciate dalla Banca Centrale della Nigeria e le garanzie corrispondentemente prestate dal governo nigeriano. Questi sono atti negoziali posti in essere iure gestionis, e pertanto soggetti alla giurisdizione italiana.
Nel medesimo senso si è espresso il Tribunale di Francoforte s.M. con la sentenza 2 dicembre 1975, pronunciata in una causa analoga contro la Banca centrale della Nigeria (salva la diversa natura dei beni su cui era stata chiesta la misura cautelare). A ulteriore conforto può essere richiamata la sez. 3 (3 b) dello State Immunity Act britannico del 20 luglio 1978, che definisce come < transazioni commerciali>, sottoposte alla giurisdizione del Regno Unito, le obbligazioni finanziarie assunte da uno Stato estero e le garanzie prestate per il loro adempimento.
3. - La questione è fondata.
L'immunità degli Stati esteri dalla giurisdizione cautelare ed esecutiva dello Stato del foro non è un semplice prolungamento dell'immunità dalla giurisdizione di cognizione. In anni non lontani, al carattere relativo dell'immunità dalla cognizione si opponeva, nella più diffusa convinzione giuridica degli Stati, il carattere (almeno tendenzialmente) assoluto dell'immunità dall'esecuzione. Nell'ultimo trentennio si è determinata progressivamente un'inversione di tendenza, soprattutto nei paesi di cultura europea, per cui non è più oggi riconoscibile una norma internazionale non scritta di divieto assoluto di misure coercitive su beni appartenenti a Stati stranieri L'argomento più frequente con cui viene giustificata la restrizione dell'immunità anche in questa materia è di logica pratica, e nella recente giurisprudenza della nostra Corte di cassazione si trova così formulato: < Se non opera l'immunità dalla giurisdizione di cognizione per le attività iure privatorum, non deve egualmente operare l'immunità in ordine all'esecuzione forzata della sentenza che ha riconosciuto la pretesa del privato, qualora lo Stato straniero rifiuti di adempiere. Diversamente la sentenza verrebbe a perdere la sua forza, la sua stessa essenza, e inoltre si rivelerebbe pressochè inutile consentire nei confronti degli Stati esteri la giurisdizione di cognizione pure nelle limitate ipotesi in cui è ammessa attualmente> (Sez. un., n. 2502 del 1989). L'argomento si adatta anche alle misure cautelari, che hanno la funzione di conservare la garanzia patrimoniale del credito: il rilievo della loro maggiore attitudine, rispetto a quelle di esecuzione, a turbare i rapporti tra gli Stati, suggerisce una rigorosa cautela nel concederle, ma non vale ad escluderle in linea di principio L'immunità dall'esecuzione conserva però un ambito normativo più ampio di quello in cui opera l'immunità dalla giurisdizione: per negarla non basta un titolo esecutivo efficace nel territorio dello Stato del foro, oppure, se è chiesta una misura cautelare, la soggezione del rapporto controverso alla cognizione delle corti di questo o di altro Stato, ma occorre altresì che i beni investiti dalla domanda di sequestro o dal procedimento esecutivo non siano destinati all'adempimento di funzioni pubbliche (iure imperii) dello Stato estero.
Così intesa, l'immunità ristretta (o funzionale) in materia cautelare ed esecutiva, verso la quale la giurisprudenza italiana si era orientata già nel primo dopoguerra (cfr. Cass., s.u., 13 marzo 1926, n. 729), è stata affermata, per esempio, dalla Corte di cassazione francese a partire dagli arrets Englander dell'11 febbraio 1969 e Clerget del 2 novembre 1971, dalla Corte costituzionale della Germania federale con le sentenze 13 dicembre 1977 (in una causa contro la Repubblica delle Filippine) e 12 aprile 1983 (in una causa contro la National Iranian Oil Company), dal Tribunale federale svizzero con numerose pronunce (da ultimo, sentenza 19 gennaio 1987, in una causa contro la Repubblica socialista della Romania) e dalla Corte d'appello dell'Aja (sentenza 28 novembre 1968, in causa N.K Cabolent c. National Iranian Oil Company). Al principio dell'immunità ristretta in executivis sono improntate anche le recenti legislazioni del Regno Unito (State Immunity Act, cit.), degli U.S.A. (Foreign Sovereign Immunities Act del 21 ottobre 1976) e altre di tipo analogo (Canada, Sud Africa, Pakistan, Singapore e Australia), le quali impostano il limite con criteri e misure diversi dalla distinzione tra beni destinati ad atti iure imperii e beni destinati ad atti iure gestionis. La Corte non si nasconde che la distinzione dà luogo a difficoltà applicative, soprattutto nel caso di beni a destinazione promiscua, come i depositi bancari o i conti correnti intestati a un'ambasciata straniera, ma, in mancanza di un intervento legislativo, essa è l'unica disponibile. É opportuno ricordare in proposito che non è generalmente riconosciuto, e in particolare è rifiutato dagli Stati dell'Europa occidentale, compreso il Regno Unito, il limite ulteriore per cui non basterebbe la destinazione del bene aggredito a fini (lato sensu) commerciali, ma occorrerebbe inoltre un legame specifico con l'oggetto della domanda, cioè la destinazione specifica del bene all'operazione commerciale da cui deriva il rapporto controverso.
4. - Come spiega la relazione al testo modificato del disegno di legge per la conversione del d.l. del 1925, proposto dal Senato, rilevando < l'eccezionale gravità del provvedimento legislativo sotto questo punto di vista>, esso contiene una < dichiarazione unilaterale>, da parte dello Stato italiano, di < pienissima tutela giurisdizionale> accordata ai privati contro gli Stati esteri, temperata, nei confronti di quegli Stati che ammettono la reciprocità, dall'assoggettamento dell'applicazione di misure coercitive su beni di loro proprietà all'autorizzazione del Ministro per la giustizia. Il compito di accertare la reciprocità è rimesso allo stesso Ministro, sul riflesso che si tratta di < una indagine di fatto, che la magistratura non ha modo di compiere esattamente>.
La norma di adattamento, che in virtù dell'art . 10 Cost. si è formata nel diritto interno in conformità della norma di diritto internazionale generale, ha modificato la legge. I beni di Stati esteri destinati all'esercizio di funzioni pubbliche sono immuni ex se da misure coercitive, indipendentemente dalla condizione di reciprocità, la quale non è prevista nè dall'art. 10 Cost. (a differenza dell'art. 11), nè dalla consuetudine internazionale che per suo tramite viene trasformata in norma di diritto interno (salvi, s'intende, i mezzi legali di reazione nel caso eccezionale di violazione della norma internazionale da parte di un altro Stato nei confronti dell'Italia). Perciò le Sezioni unite della Corte di cassazione hanno ritenuto che la legge del 1925 < abbia conservato efficacia soltanto per le procedure esecutive su beni non destinati all'esercizio della funzione sovrana o a fini pubblici> (sent. n. 2085 del 1989). Ma ciò comporta che, prima di verificare la condizione di reciprocità, rilevante solo per i beni non aventi tale destinazione, il Ministro deve accertare se i beni dello Stato estero, su cui è chiesta l'autorizzazione a compiere atti conservativi o esecutivi, appartengano a questa categoria o siano invece inerenti alla sfera degli atti iure imperii.
Già sotto questo aspetto la norma impugnata appare non compatibile con l'art. 24 Cost., considerato in relazione ai principi (coordinati) di eguaglianza e di ragionevolezza. Il diritto del singolo alla tutela giurisdizionale esige che l'esistenza delle condizioni dell'azione, e in particolare di una condizione da cui dipende la giurisdizione del giudice naturale, non possa essere accertata se non dallo stesso giudice con le garanzie del procedimento giudiziario. Nè si può dire che a giustificare il nuovo potere-dovere di accertamento di cui, in virtù della giurisprudenza appena citata, si trova investito il Ministro di grazia e giustizia (sebbene di fatto non lo abbia mai esercitato) concorra una ragione analoga a quella, sopra riferita, con cui nella citata relazione senatoriale era giustificata l'attribuzione al Ministro del potere di accertare la condizione di reciprocità.
5.-In ordine ai beni di - Stati esteri non destinati a funzioni pubbliche, il requisito dell'autorizzazione ministeriale, collegato con l'accertamento della condizione di reciprocità, incide sulla giurisdizione italiana assoggettandola a un limite che diventa attuale in conseguenza dell'esercizio, in senso negativo, del potere discrezionale attribuito al Ministro della giustizia. Corrispondentemente il rifiuto dell'autorizzazione si ripercuote sul piano dei rapporti sostanziali svuotando il diritto di obbligazione fatto valere dal privato dell'elemento della responsabilità patrimoniale del debitore, che ne è una componente essenziale (art. 2740 cod. civ.) e funge da tramite dell'assoggettamento all'esecuzione forzata.
Ciò premesso, non si nega che nei rapporti con gli Stati stranieri il diritto fondamentale alla tutela giurisdizionale possa subire un limite ulteriore rispetto a quelli imposti dall'art. 10 Cost. Ma il limite deve essere giustificato da un interesse pubblico riconoscibile come potenzialmente preminente su un principio, quale quello dell'art. 24 Cost., annoverato tra i < principi supremi> dell'ordinamento costituzionale (cfr. sent. n.18 del 1982); inoltre la norma che stabilisce il limite deve garantire una rigorosa valutazione di tale interesse alla stregua delle esigenze del caso concreto.
Entrambe le condizioni fanno difetto nella specie. L'interesse di politica estera del Governo a mantenere buoni rapporti internazionali e a impedire che siano compromessi da misure coercitive adottate in territorio italiano su beni appartenenti a Stati stranieri, pur se non destinati specificamente all'esercizio delle loro prerogative sovrane o a fini pubblici, potrebbe giustificare il limite della norma in esame in un contesto di diritto internazionale come quello osservato da questa Corte nella sentenza n. 135 del 1963, la quale giudicò che non vi fosse a quell'epoca < concordanza di indirizzi e sistemi relativamente all'esenzione dai procedimenti conservativi e di esecuzione su beni di Stati esteri non destinati a funzioni attinenti all'esercizio della sovranità>. Nel contesto attuale, in cui si è largamente affermato il principio dell'immunità ristretta, è scemata la probabilità di una reazione diffusa da parte degli Stati i cui beni in Italia fossero fatti oggetto di misure coercitive: essi non potrebbero dolersi, fondandosi su ragioni di natura giuridica, di ricevere in territorio italiano il medesimo trattamento che in casi analoghi sarebbe riservato ai beni di proprietà italiana situati nel loro territorio.
Inoltre la prassi applicativa della norma impugnata (della quale occorre tenere conto secondo il canone ermeneutico di valutazione della legittimità costituzionale delle leggi anche alla stregua delle loro conseguenze empiriche) dimostra che, lungi dal garantire un informato e rigoroso bilanciamento degli interessi in conformità delle esigenze del caso concreto, essa ha finito col ripristinare virtualmente l'immunità assoluta.
Almeno a partire dal 1953, anno di emissione del primo decreto di reciprocità pubblicato nella Gazzetta Ufficiale (concernente la Jugoslavia), le domande di autorizzazione sono state quasi sempre respinte.
La sommarietà delle motivazioni dei decreti di reciprocità tradisce non di rado l'intento di inibire la procedura cautelare o esecutiva per mere ragioni di cortesia o di quieto vivere, affatto sproporzionate al danno che ne deriva al privato, tanto più quando si tratti di crediti di impresa, dal cui tempestivo soddisfacimento dipende l'equilibrio finanziario della gestione, o di crediti di lavoro, particolarmente meritevoli di protezione in ragione della loro funzione alimentare.
6. - Del resto, non mancherà al potere esecutivo uno strumento di intervento idoneo a evitare, senza sacrificio del diritto dei singoli alla tutela giurisdizionale, l'applicazione di misure coercitive su beni appartenenti a uno Stato estero, quando reputasse tali misure, benchè limitate a beni < privati>), suscettibili di provocare reazioni pregiudizievoli all'interesse nazionale.
In vista di tale eventualità potrà essere predisposta, per esempio, la possibilità che lo Stato italiano intervenga nella procedura esecutiva offrendo al creditore il pagamento del terzo ai sensi dell'art. 1180 cod.civ., oppure nella procedura cautelare offrendo al ricorrente, in cambio dell'abbandono della domanda di sequestro, garanzia di pagamento del debito che sarà accertato a carico dello Stato estero mediante un ordinario processo di cognizione.
7. - Restano assorbite le altre censure di costituzionalità riferite agli artt. 23 e 41 Cost.
8. - Poichè il giudice a quo non ha richiamato l'art. 10 Cost. tra i parametri del giudizio di legittimità costituzionale, l'articolo unico del r.d.l. n. 1621 del 1925 viene dichiarato costituzionalmente illegittimo solo nella parte in cui subordina all'autorizzazione del Ministro di grazia e giustizia il compimento di atti conservativi o esecutivi su beni appartenenti a uno Stato estero diversi da quelli che, secondo le norme del diritto internazionale generalmente riconosciute, non sono assoggettabili a misure coercitive. Per l'altra parte la norma impugnata è da ritenersi tacitamente abrogata secondo l'interpretazione sopra esposta al punto 4.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara l'illegittimità costituzionale dell'articolo unico del r.d.l. 30 agosto 1925, n. 1621 (Atti esecutivi sopra beni di Stati esteri nel Regno), convertito nella legge 15 luglio 1926, (n.1623), nella parte in cui subordina all'autorizzazione del Ministro di grazia e giustizia il compimento di atti conservativi o esecutivi su beni appartenenti a uno Stato estero diversi da quelli che, secondo le norme del diritto internazionale generalmente riconosciute, non sono assoggettabili a misure coercitive.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 02/07/92.
Aldo CORASANITI, Presidente
Luigi MENGONI, Redattore
Depositata in cancelleria il 15/07/92.