Ordinanza n. 6 del 1992

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ORDINANZA N. 6

ANNO 1992

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori Giudici:

Dott. Aldo CORASANITI, Presidente

Prof. Giuseppe BORZELLINO

Dott. Francesco GRECO

Prof. Gabriele PESCATORE

Avv. Ugo SPAGNOLI

Prof. Francesco Paolo CASAVOLA

Prof. Vincenzo CAIANIELLO

Avv. Mauro FERRI

Prof. Luigi MENGONI

Prof. Enzo CHELI

Dott. Renato GRANATA

Prof. Giuliano VASSALLI

Prof. Francesco GUIZZI

Prof. Cesare MIRABELLI

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

nel giudizio di legittimità costituzionale del combinato disposto degli artt. 13 e 20 della legge 26 aprile 1990, n. 86 (Modifiche in tema di delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione), in relazione agli artt. 323 e 324 del codice penale, promosso con ordinanza emessa il 9 aprile 1991 dal Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Catanzaro nel procedimento penale a carico di Costa Giulio Vito ed altri, iscritta al n. 449 del registro ordinanze 1991 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 27, prima serie speciale, dell'anno 1991.

Visto l'atto di intervento del Presidente del consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 4 dicembre 1991 il Giudice relatore Giuliano Vassalli.

Ritenuto che, nel corso di un processo penale a carico di persone imputate di interesse privato in atti di ufficio, il Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Catanzaro ha, con ordinanza del9 aprile 1991, sollevato, in riferimento all'art. 3 della questione di legittimità "del combinato disposto degli artt. 13 e 20 della legge 26 aprile 1990, n.86, in relazione agli artt. 323 e 324 del codice penale", nella parte in cui "introduce, nel passato", una chiara disparità di trattamento fra gli autori dell'abuso già punibile a norma dell'art. 323 del codice penale e l'autore del più grave reato di interesse privato in atti di ufficio previsto dall'art. 324 dello stesso codice, espressamente abrogato dall'art.20 della legge n. 86 del 1990;

che il giudice a quo denuncia, quindi, la mancata previsione di una disciplina transitoria che renda punibili i fatti di interesse privato, non potendo ravvisarsi "omogeneità" oggettiva fra la condotta punita dall'art.324 del codice penale e la condotta punita dall'art. 323 dello stesso codice, quale sostituito dall'art. 13 della legge n. 86 del 1990, una disomogeneità "accentuata dalla proclamata abrogazione della vecchia norma";

e che, quindi, stando al giudice a quo, l'assetto così delineato rivelerebbe una vera e propria "iniquità" nella disciplina, risultando essa incentrata nella persistente punibilità della fattispecie di abuso innominato, "ad offensività meno grave" rispetto alla presa di interesse, per giunta, patrimoniale, una fattispecie con un tasso di antigiuridicità più elevato e, nonostante ciò, espressamente abrogata dalla legge n. 86 del 1990;

che nel giudizio è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura Generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata inammissibile per difetto di rilevanza e, in subordine, non fondata, avendo il legislatore, nell'esercizio del suo potere discrezionale, operato scelte non sindacabili in sede di legittimità costituzionale;

considerato che l'eccezione d'inammissibilità avanzata dall'Avvocatura Generale dello Stato deve essere disattesa, desumendosi dall'ordinanza di rimessione l'addebito contestato anche con riferimento alla ritenuta ipotizzabilità di una fattispecie di presa d'interesse di contenuto patrimoniale e tanto appare sufficiente perchè venga ritenuto assolto l'onere di cui all'art. 23 della legge 11 marzo 1953, n.87;

che, peraltro, in punto di rilevanza, la questione va rigorosamente circoscritta alla disciplina di diritto intertemporale, del resto espressamente richiamata dal giudice a quo sia allorchè contesta la disparità di trattamento relativamente al "passato", sia quando imputa l'"iniquità" della norma censurata con riferimento al regime transitorio;

che, così delimitato l'ambito della denuncia di illegittimità, il petitum avuto di mira dall'ordinanza di rimessione si sostanzia nella richiesta di introdurre una norma transitoria che renda punibili i fatti di presa d'interesse di contenuto patrimoniale, non perseguibili alla stregua della disciplina risultante dalla legge n. 86 del 1990, in base ai principi che governano la successione della legge penale nel tempo;

che, a parte la contraddizione insita nel richiamo al "divieto di irretroattività" coinvolgente una disciplina sopravvenuta che il giudice a quo afferma "disomogenea" rispetto a quella abrogata, la questione così come proposta, si sostanzia in una censura diretta a sindacare scelte discrezionali del legislatore nella valutazione dei beni tutelati dalla norma penale, scelte non censurabili in questa sede - soprattutto allorchè venga dedotta la non conformità alla Costituzione di una disciplina destinata ad esaurirsi con il decorso del tempo - ove tali scelte non sconfinino nella arbitrarietà, certamente non invocabile nella specie, perchè alla abrogazione dell'art. 324, conseguente ad una più complessa ed articolata repressione dell'abuso di ufficio, assurto da ipotesi residuale a fattispecie di reato caratterizzata da peculiari connotazioni soggettive ed oggettive, non era comunque necessario porre riparo con la previsione di un'espressa disciplina transitoria;

che, peraltro, il giudice a quo ha omesso del tutto di considerare come la predetta disciplina risulta individuata dall'ormai consolidata giurisprudenza della Corte di cassazione, la quale, anche a seguito di una decisione delle Sezioni Unite è nel senso di ritenere operanti i principi disciplinanti la successione della legge penale nel tempo, con la conseguente applicabilità dell'abrogato art. 324 quando questo si riveli, quoad poenam, norma più favorevole;

che, quindi, sotto entrambi i profili sopra enunciati, la questione proposta deve dirsi manifestamente infondata.

Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, secondo comma, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale del combinato disposto degli artt. 13 e 20 della legge 26 aprile 1990, n. 86 (Modifiche in tema di delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione), in relazione agli artt. 323 e 324 del codice penale, questione sollevata, in riferimento all'art. 3 della Costituzione, dal Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Catanzaro con ordinanza del 9 aprile 1991.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 20/01/92.

Aldo CORASANITI, Presidente

Giuliano VASSALLI, Redattore

Depositata in cancelleria il 22 gennaio del 1992.