Sentenza n. 485 del 1991

 

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SENTENZA N. 485

ANNO 1991

 

REPUBBLICA ITALIANA

In nome del Popolo Italiano

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

composta dai signori:

Dott. Aldo CORASANITI                                         Presidente

Prof. Giuseppe BORZELLINO                                   Giudice

Dott. Francesco GRECO                                                 “

Prof. Gabriele PESCATORE                                           “

Avv. Ugo SPAGNOLI                                                    “

Prof. Francesco Paolo CASAVOLA                               “

Prof. Antonio BALDASSARRE                                     “

Prof. Vincenzo CAIANIELLO                                       “

Avv. Mauro FERRI                                                         “

Prof. Luigi MENGONI                                                    “

Prof. Enzo CHELI                                                           “

Dott. Renato GRANATA                                                “

Prof. Giuliano VASSALLI                                              “

ha pronunciato la seguente

 

SENTENZA

 

nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 10 e 11 del d.P.R. 30 giugno 1965, n. 1124 (Testo unico delle disposizioni per l'assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali), promosso con ordinanza emessa il 15 gennaio 1991 dal Tribunale di Torino nei procedimenti civili riuniti vertenti tra Bracco Rosario ed altro e Fallimento s.r.l. Axel ed altro, iscritta al n. 356 del registro ordinanze 1991 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 22, prima serie speciale, dell'anno 1991;

Visti gli atti di costituzione dell'I.N.A.I.L. nonché l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

Udito nella camera di consiglio del 6 novembre 1991 il Giudice relatore Ugo Spagnoli;

 

Ritenuto in fatto

 

1. - Nel corso di un giudizio civile avente ad oggetto sia la domanda di risarcimento del danno da infortunio sul lavoro proposta da un lavoratore nei confronti del fallimento della società alle cui dipendenze egli aveva lavorato, sia la domanda di regresso proposta dall'I.N.A.I.L. per le somme pagate dall'istituto a titolo di indennità e per le spese accessorie da esso sostenute, il Tribunale di Torino ha sollevato, con riferimento agli artt. 2, 3, 32, primo comma e 38, secondo comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale degli artt. 10 e 11 del d.P.R. 30 giugno 1965, n. 1124, nella parte in cui, in caso di infortunio sul lavoro, consentono all'I.N.A.I.L., per il recupero delle somme erogate al lavoratore infortunato, di esercitare l'azione di rivalsa "nei confronti del datore di lavoro civilmente responsabile con pregiudizio del diritto dell'infortunato stesso al risarcimento del danno alla persona non altrimenti risarcito".

Ritenuto che il fatto era configurabile come reato e che ne conseguiva, ai sensi degli artt. 185 cod. pen., 2049 cod. civ. e 10 d.P.R. 30 giugno 1965, n. 1124, la responsabilità civile della società fallita per i danni subiti dal lavoratore, nonché, ai sensi dell'art. 11 del medesimo d.P.R. n. 1124 del 1965, l'obbligo della medesima società di rimborsare all'I.N.A.I.L. le somme erogate per indennità e spese accessorie, il Tribunale ha rilevato che tali erogazioni erano superiori alla somma che sarebbe stata liquidabile al lavoratore a titolo di risarcimento del danno alla persona, secondo la disciplina civilistica in materia di responsabilità per fatto illecito (in particolare, nessun danno risarcibile era stato riconosciuto a titolo di perdita della capacità di guadagno, in quanto la menomazione subita dal lavoratore aveva sì determinato la sostanziale impossibilità di riprendere la specifica attività lavorativa un tempo esercitata dall'infortunato, ma non aveva ripercussioni sulla diversa attività lavorativa alla quale egli si era dedicato dopo l'incidente e che attualmente svolgeva senza usura e senza riduzione della retribuzione).

Ne conseguiva che l'istituto poteva essere ammesso al passivo soltanto per tale minore importo, ma per l'integralità di esso, in ragione dell'indirizzo giurisprudenziale secondo cui il credito dell'I.N.A.I.L. in via di regresso contro il datore di lavoro civilmente responsabile trova un limite quantitativo nel complessivo ammontare del risarcimento del danno dovuto all'infortunato secondo le norme generali che disciplinano la responsabilità per fatto illecito, senza però che assuma rilievo la diversità tra le componenti del danno oggetto dell'assicurazione contro gli infortuni sul lavoro e quelle del danno risarcibile secondo la disciplina civilistica e quindi con la possibilità per l'istituto di avvalersi, ai fini del regresso, anche delle somme spettanti al lavoratore infortunato per risarcimento del danno biologico e del danno morale. Il lavoratore, d'altro canto, non aveva diritto ad alcun risarcimento da parte del datore di lavoro, in ragione dell'art. 10, sesto e settimo comma, del citato d.P.R. n. 1124 del 1965, secondo cui "non si fa luogo a risarcimento qualora il giudice riconosca che questo non ascende a somma maggiore dell'indennità che, per effetto del presente decreto, è liquidata all'infortunato o ai suoi aventi diritto", mentre, "quando si faccia luogo a risarcimento, questo è dovuto solo per la parte che eccede le indennità liquidate a norma degli articoli 66 e seguenti".

Ciò posto, secondo il giudice a quo, la disciplina delineata dalle norme impugnate, interpretate in conformità al diritto vivente enunciato dalle pronunzie della Corte di cassazione, non si sottrae al dubbio di legittimità costituzionale, almeno per quanto concerne il danno biologico. Quest'ultimo, infatti, è rappresentato dalla menomazione dell'integrità psicofisica della persona in sé e per sé considerata, in quanto incidente sul valore "uomo" in tutta la sua concreta dimensione, che non si esaurisce nella sola attitudine a produrre ricchezza, ma si collega alla somma delle funzioni naturali afferenti al soggetto nell'ambiente in cui la vita si esplica. Il danno biologico - osserva il Tribunale - ricomprende quindi in sé ragioni di pregiudizio che esulano dalla tutela previdenziale garantita dal d.P.R. n. 1124 del 1965: quest'ultima, infatti, riguarda esclusivamente la perdita, totale o parziale, dell'attitudine al lavoro, determinata considerando la riduzione della capacità lavorativa generica, mentre il danno biologico - pur se in esso può forse essere fatta confluire anche la riduzione della capacità lavorativa - comprende e riassume in sé tutte le ipotesi di pregiudizio che possano derivare alla persona in ragione della lesione subita, anche prescindendo dalla incidenza sulla attitudine al lavoro. Orbene, il meccanismo normativo delineato dalle disposizioni impugnate fa sì che il lavoratore infortunato possa ottenere il pieno ristoro del pregiudizio subito, anche per quanto riguarda il danno biologico, soltanto quando l'ammontare delle somme dovute dal danneggiante e dal responsabile civile all'ente previdenziale a titolo di rivalsa sia inferiore all'ammontare del danno civilisticamente considerato. In caso contrario, invece, il danno biologico rimane privo di ristoro, essendo prevalente, nel sistema legislativo, la finalità di rimborso all'ente previdenziale.

Il mancato ristoro del danno biologico - conclude il giudice a quo - si pone in contrasto con l'art. 32, primo comma, della Costituzione, che tutela la salute come diritto fondamentale dell'individuo, da ricomprendere tra i diritti inviolabili dell'uomo riconosciuti dall'art. 2. La rivalsa dell'ente previdenziale, per le modalità con cui ne è disciplinato l'esercizio, si pone inoltre in contrasto anche con l'art. 38, secondo comma: tale norma, infatti, assicura al lavoratore mezzi adeguati alle sue esigenze di vita in caso di infortunio, ma tale previsione è messa nel nulla dall'esercizio del diritto di rivalsa da parte dell'ente previdenziale quando l'esercizio di tale diritto rende meramente nominale l'erogazione dell'indennità prevista ex lege a carico dell'ente previdenziale, indennità che viene così ad essere meramente anticipata dall'ente e subito recuperata sulle somme spettanti al lavoratore, in quanto danneggiato, a titolo di risarcimento dei danni.

2. - È intervenuto l'I.N.A.I.L. sostenendo che la questione era da dichiarare inammissibile o infondata. In primo luogo, infatti, il diritto di regresso, a differenza del diritto di surroga disciplinato dall'art. 1916 codice civile, è un diritto proprio, originario ed autonomo dell'I.N.A.I.L. e derivante dal rapporto assicurativo. Questo rapporto coinvolge tre distinti soggetti le cui reciproche posizioni sono disciplinate con le norme di legge sull'assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali. Orbene, la previsione di un equilibrio tra le singole posizioni implicando valutazioni comparate del rapporto tra benefici e sacrifici, rientra nell'ambito delle scelte discrezionali che non possono essere sottratte al legislatore ordinario. La questione sollevata dal Tribunale di Torino - afferma quindi la difesa dell'I.N.A.I.L. - è inammissibile.

In secondo luogo il diritto di regresso, a differenza dal diritto di surroga, non è volto a far subentrare l'assicuratore nei diritti vantati dall'assicurato nei confronti del terzo responsabile del sinistro, ma a consentire all'I.N.A.I.L. di ripetere quanto erogato al lavoratore infortunato per conto ed in vece del datore di lavoro. Il regresso, quindi, disciplina i rapporti interni tra assicuratore assicurante, rapporti ai quali l'infortunato è estraneo, mentre il risarcimento del danno astrattamente a lui dovuto è limitato alla sola parte eccedente le prestazioni erogate dall'I.N.A.I.L., al fine di evitare che per un unico danno il lavoratore infortunato venga a lucrare un doppio (ed ingiustificato) indennizzo.

Non è quindi il regresso dell'I.N.A.I.L. che limita il risarcimento spettante all'infortunato, ma è quest'ultimo che è possibile solo per la parte in cui eccede le prestazioni previdenziali, dal momento che l'I.N.A.I.L., erogando la rendita e le altre indennità, ha già corrisposto al lavoratore l'indennizzo a questi dovuto dal datore di lavoro; infatti il diritto di regresso è esercitabile solo quando l'infortunio, per essere dipeso da un fatto costituente reato imputabile al datore di lavoro o ai dipendenti di esso, dovrebbe essere risarcito direttamente da costui. L'I.N.A.I.L., pertanto, paga al posto del datore di lavoro solo per assicurare, in ogni caso, l'indennizzo al lavoratore. Ne consegue che l'azione di regresso consente all'istituto non di subentrare in quella parte del risarcimento del danno spettante all'assicurato e trasferita all'ente assicuratore in virtù del pagamento delle indennità corrisposte, ma di farsi restituire quelle somme che il datore di lavoro doveva direttamente all'infortunato e che l'I.N.A.I.L. ha anticipato in sua vece.

L'I.N.A.I.L. deduce inoltre l'erroneità della equiparazione tra le prestazioni erogate dall'istituto e il danno patrimoniale, equiparazione sulla quale si basa invece la tesi, fatta propria dal giudice a quo secondo cui estendere la rivalsa a voci di danno diverse dalla riduzione della capacità lavorativa generica significa espropriare ingiustificatamente il lavoratore del diritto al risarcimento del danno biologico.

L'istituto assicura invece, genericamente, il danno alla persona del lavoratore e le prestazioni da esso erogate non ristorano solo il pregiudizio patrimoniale strettamente inteso, ma comprendono, in conformità all'art. 38 della Costituzione, una serie di provvidenze (che prescindono dall'effettiva perdita di guadagno ed anche dall'eventuale concorso di colpa dell'infortunato) le quali tendono ad adeguare l'entità dell'indennizzo alle esigenze di vita del lavoratore e, in caso di morte, dei suoi familiari. Ne consegue che è del tutto ingiustificato secondo l'I.N.A.I.L., collegare l'indennizzo corrisposto dall'istituto agli stretti danni patrimoniali, quando invece è l'intero danno alla persona che viene indennizzato, prescindendo dalle singole voci di questo, assicurandosi così quella tutela della salute del lavoratore che è garantita dalla Costituzione. Infine, l'istituto osserva che la questione sollevata dal Tribunale di Torino nasce in realtà da un equivoco, derivante dalla confusione della lesione della capacità lavorativa con la riduzione del reddito, confusione che ha indotto il giudice a quo a porre nel nulla il risarcimento della incapacità lavorativa generica ovvero a ritenerla indennizzabile quale danno biologico. Del resto la stessa contrapposizione tra danno biologico e danno patrimoniale sarebbe erronea, dal momento che il danno biologico è risarcibile proprio quale danno patrimoniale. Ed infine non sarebbe comprensibile che per un unico evento dannoso l'infortunato venisse ad usufruire di un doppio diritto risarcitorio per titoli diversi (indennità di legge a carico dell'istituto e risarcimento del danno a carico del responsabile del sinistro).

3. - È intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, che ha concluso per l'inammissibilità o la non fondatezza della questione, segnalando che la stessa era sostanzialmente identica a quella decisa con la sentenza di questa Corte n. 356 del 18 luglio 1991.

 

Considerato in diritto

 

1. - La questione di costituzionalità che la Corte è chiamata a decidere ha per oggetto l'art. 10, sesto e settimo comma, nonché l'art. 11, primo e secondo comma, del d.P.R. 30 giugno 1965, n. 1124. Quest'ultima disposizione, secondo la ormai consolidata interpretazione giurisprudenziale - nell'attribuire all'I.N.A.I.L., nei casi previsti dall'art. 10, il diritto di regresso, contro le persone civilmente responsabili del reato che ha provocato l'infortunio, per il recupero delle somme pagate a titolo di indennità e delle spese accessorie, nei limiti del risarcimento spettante all'infortunato - consente all'istituto di avvalersi, per la determinazione di tale limite, anche delle somme che l'infortunato ha diritto di pretendere a titolo di risarcimento del danno biologico; e ciò benché la prestazione assicurativa erogata corrisponda soltanto alla perdita o riduzione della capacità lavorativa generica e non alla menomazione dell'integrità psico-fisica della persona, considerata in sé e per sé e nella sua globalità e non riguardata soltanto sotto il profilo dell'attitudine a produrre ricchezza. Conseguentemente, il sesto ed il settimo comma dell'art. 10 stabiliscono che, in caso di infortunio sul lavoro dipendente da reato, il lavoratore assicurato ha diritto al risarcimento del danno biologico non compreso nella garanzia dell'assicurazione contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali solo se e solo nella misura in cui il danno risarcibile, calcolato secondo i criteri civilistici e complessivamente considerato, superi l'ammontare delle indennità corrisposte dall'I.N.A.I.L..

I parametri che vengono richiamati per il richiesto giudizio di legittimità costituzionale sono rappresentati in primo luogo dall'art. 32, primo comma, della Costituzione e, in connessione, dagli artt. 2, 3 e 38.

2. - La questione è fondata.

Nella recente sentenza n. 356 del 1991, questa Corte, richiamando la sequenza concettuale delineata dalla propria giurisprudenza sul tema della tutela risarcitoria del diritto alla salute, ha ribadito che il principio costituzionale della integrale e non limitabile tutela risarcitoria del diritto alla salute riguarda prioritariamente e indefettibilmente il danno biologico in sé considerato, che sussiste a prescindere dalla eventuale perdita o riduzione di reddito e che va riferito alla integralità dei suoi riflessi pregiudizievoli rispetto a tutte le attività, le situazioni e i rapporti in cui la persona esplica sé stessa nella propria vita: non soltanto, quindi, con riferimento alla sfera produttiva, ma anche con riferimento alla sfera spirituale, culturale, affettiva, sociale, sportiva e ad ogni altro ambito e modo in cui il soggetto svolge la sua personalità, e cioè a tutte "le attività realizzatrici della persona umana".

Sulla base di tali principi, la Corte - chiamata allora a giudicare la legittimità costituzionale dell'art. 1916 cod. civ. - ha affermato che "allorquando la copertura assicurativa, in virtù delle norme di legge o di contratto che la disciplinano, non abbia ad oggetto il danno biologico, oppure si limiti ad indennizzare la perdita o riduzione di alcune soltanto delle capacità del soggetto (come avviene per l'attitudine al lavoro nel regime dell'assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali), consentire che l'assicuratore, nell'esercizio del proprio diritto di surroga nei confronti del terzo responsabile, si avvalga anche del diritto dell'assicurato al risarcimento del danno biologico non coperto dalla prestazione assicurativa, significa, appunto, sacrificare il diritto dell'assicurato stesso all'integrale risarcimento di tale danno, con conseguente violazione dell'art. 32 della Costituzione".

Con riferimento ai parametri così delineati, le norme che oggi la Corte è chiamata a giudicare sono del tutto equivalenti a quella contenuta nell'art. 1916 cod. civ., sicché vale per quelle il medesimo giudizio di incostituzionalità già pronunziato per questa.

3. - All'equivalenza delle due fattispecie normative - per i profili che qui rilevano - non osta, infatti, la tesi secondo cui il diritto di regresso previsto dall'art. 11 del d.P.R. n. 1124 del 1965, a differenza del diritto di surroga previsto dall'art. 1916 cod. civ., non è volto a far subentrare l'assicuratore nei diritti vantati dall'assicurato nei confronti del responsabile del sinistro, ma a consentire all'I.N.A.I.L. di ripetere quanto erogato al lavoratore infortunato per conto e in vece del datore di lavoro.

L'eventuale possibilità di una diversa ricostruzione dommatica del diritto di surrogazione e del diritto di regresso non è, invero, comunque idonea ad influire sul rapporto tra le norme che disciplinano l'esercizio di tali diritti ed il principio costituzionale della integrale e non limitabile tutela risarcitoria del danno biologico, nei sensi esplicitati dalla sentenza n. 356 del 1991.

4. - Né è rilevante la deduzione dell'I.N.A.I.L. secondo cui sarebbe erronea l'equiparazione tra prestazioni erogate dall'istituto e danno patrimoniale (dato che le prestazioni stesse comprendono, in conformità all'art. 38 della Costituzione, una serie di provvidenze, che prescindono dall'effettiva perdita di guadagno ed anche all'eventuale concorso di colpa dell'infortunato, e che tendono ad adeguare l'entità dell'indennizzo all'esigenza di vita del lavoratore e, in caso di sua morte, dei suoi familiari). Da tale considerazione, infatti, non è possibile inferire - come invece fa la difesa dell'I.N.A.I.L. - che è l'intero danno alla persona che viene indennizzato. Come questa Corte ha già sottolineato con la citata sentenza n. 356 del 1991, "le indennità previste dal d.P.R. n. 1124 del 1965 sono collegate e commisurate esclusivamente ai riflessi che la menomazione psico-fisica ha sull'attitudine al lavoro dell'assicurato, mentre nessun rilievo assumono gli svantaggi, le privazioni e gli ostacoli che la menomazione comporta con riferimento agli altri ambiti e agli altri modi in cui il soggetto svolge la sua personalità nella propria vita".

5. - Parimenti non conferente in questa sede è il rilievo secondo cui il giudice a quo avrebbe erroneamente confuso la lesione della capacità lavorativa con la riduzione del reddito, con il risultato di porre nel nulla il risarcimento della incapacità lavorativa generica ovvero di ritenerla indennizzabile quale danno biologico. Non spetta alla Corte, in questa sede, decidere se la perdita o riduzione della capacità lavorativa (generica o specifica) rappresenti un danno risarcibile anche quando non determini in concreto alcuna perdita di reddito (con conseguente possibilità, per l'I.N.A.I.L. di avvalersi di questo credito risarcitorio ai fini del regresso). Quel che la Corte ha affermato e che qui ribadisce è che il principio costituzionale dell'integrale e non limitabile risarcibilità del danno biologico, implica che l'I.N.A.I.L. non può avvalersi ai fini dell'azione di regresso, delle somme che il responsabile deve all'infortunato a titolo di risarcimento del danno biologico non collegato alla riduzione o perdita della capacità lavorativa generica.

6. - Le norme impugnate debbono pertanto essere dichiarate costituzionalmente illegittime, per violazione dell'art. 32 della Costituzione, nella parte in cui non salvaguardano il diritto del lavoratore all'integrale risarcimento del danno biologico non collegato alla perdita o riduzione della capacità lavorativa generica.

 

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

Dichiara la illegittimità costituzionale dell'art. 10, sesto e settimo comma, del d.P.R. 30 giugno 1965, n. 1124, nella parte in cui prevede che il lavoratore infortunato o i suoi aventi causa hanno diritto, nei confronti delle persone civilmente responsabili per il reato da cui l'infortunio è derivato, al risarcimento del danno biologico non collegato alla perdita o riduzione della capacità lavorativa generica solo se e solo nella misura in cui il danno risarcibile, complessivamente considerato, superi l'ammontare delle indennità corrisposte dall'I.N.A.I.L.;

Dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 11, primo e secondo comma, del d.P.R. 30 giugno 1964, n. 1124, nella parte in cui consente all'I.N.A.I.L. di avvalersi, nell'esercizio del diritto di regresso contro le persone civilmente responsabili, anche delle somme dovute al lavoratore infortunato a titolo di risarcimento del danno biologico non collegato alla perdita o riduzione della capacità lavorativa generica.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 18 dicembre 1991.

 

Aldo CORASANITI - Giuseppe BORZELLINO - Francesco GRECO - Gabriele PESCATORE - Ugo SPAGNOLI - Francesco Paolo CASAVOLA - Antonio BALDASSARRE - Vincenzo CAIANIELLO - Mauro FERRI - Luigi MENGONI - Enzo CHELI - Renato GRANATA - Giuliano VASSALLI.

 

Depositata in cancelleria il 27 dicembre 1991.