SENTENZA N. 390
ANNO 1991
REPUBBLICA ITALIANA
In nome del Popolo Italiano
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
Dott. Aldo CORASANITI Presidente
Dott. Francesco GRECO Giudice
Prof. Gabriele PESCATORE “
Avv. Ugo SPAGNOLI “
Prof. Francesco Paolo CASAVOLA “
Prof. Antonio BALDASSARRE “
Prof. Vincenzo CAIANIELLO “
Avv. Mauro FERRI “
Prof. Luigi MENGONI “
Prof. Enzo CHELI “
Dott. Renato GRANATA “
Prof. Giuliano VASSALLI “
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 11, terzo comma, del codice di procedura penale, promosso con ordinanza emessa il 1° febbraio 1991 dal Pretore di Catania nel procedimento a carico di Alleruzzo Giuseppe, iscritta al n. 232 del registro ordinanze 1991 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 16, prima serie speciale, dell'anno 1991;
Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
Udito nella camera di consiglio del 19 giugno 1991 il Giudice relatore Francesco Greco;
Ritenuto in fatto
1. - Nel corso del procedimento penale a carico di Alleruzzo Giuseppe, imputato del reato di oltraggio a magistrato in udienza, di cui all'art. 343 del codice penale, il Pretore di Catania, con ordinanza del 1° febbraio 1991 (R.O. n. 232 del 1991), ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell'art. 11, terzo comma, del codice di procedura penale, nella parte in cui stabilisce una deroga al criterio di determinazione della competenza territoriale per i procedimenti penali aventi come parte offesa o danneggiata dal reato un magistrato, nell'ipotesi in cui il reato dal quale il magistrato è offeso o danneggiato sia commesso in udienza.
Il giudice a quo ha ravvisato in tale disposizione un contrasto con l'art. 3 della Costituzione per la irrazionale disparità di trattamento che si determinerebbe tra cittadini imputati in procedimenti in cui assume la qualità di parte offesa o danneggiata del reato un magistrato, a seconda che il reato sia stato commesso o meno in udienza. Mentre, anche in caso di reato commesso in udienza, sarebbe ugualmente apprezzabile quella esigenza di evitare l'insorgere di sospetti di parzialità del giudizio, che in via di principio giustifica la sottrazione dei procedimenti in questione al giudice naturale territorialmente competente.
Né la ratio della norma censurata, quale si ricava dai lavori preparatori, e cioè la "presunta" esigenza di celerità, potrebbe prevalere su valori costituzionalmente tutelati, quale è l'imparzialità.
2. - L'ordinanza è stata regolarmente notificata, comunicata e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale.
3. - Nel giudizio è intervenuta l'Avvocatura Generale dello Stato in rappresentanza del Presidente del Consiglio dei ministri, che ha concluso per l'infondatezza della questione, osservando che le peculiarità dei reati commessi in udienza a danno dei magistrati nell'esercizio o a causa delle loro funzioni hanno rappresentato da sempre (v. art. 61, ult. cpv c.p.p. abrogato) ipotesi specificamente caratterizzate e meritevoli di particolare considerazione, sotto il profilo della immediatezza delle acquisizioni probatorie, tali da giustificare deroghe ai principi della rimessione. Del resto, per espresso disposto dall'art. 11, terzo comma, del codice di procedura penale, restano salve anche per i reati in esame le norme sull'astensione e sulla ricusazione del giudice.
Aggiunge, poi che non vale l'assunto secondo cui le esigenze di celerità non si concilierebbero con il meccanismo introdotto dall'art. 476 del codice di procedura penale che, per i reati commessi in udienza, a differenza del corrispondente art. 435 del codice di procedura penale abrogato, esclude la possibilità di una contestuale celebrazione del giudizio, perché il P.M. potrebbe instaurare un giudizio direttissimo o immediato, caratterizzato da una pronta valutazione.
Considerato in diritto
1. - La Corte è chiamata a verificare se l'art. 11, terzo comma, del codice di procedura penale, nella parte in cui prevede una deroga al criterio dello spostamento della competenza territoriale per i procedimenti penali aventi come parte offesa o danneggiata un magistrato, allorché il reato sia commesso in udienza, si ponga in contrasto con l'art. 3 della Costituzione, per la disparità di trattamento che determinerebbe tra cittadini imputati in un procedimento in cui assume la qualità di parte offesa o danneggiata dal reato un magistrato, a seconda che il reato sia stato commesso o meno in udienza.
2. - La questione è fondata.
L'art. 11, primo comma, del codice di procedura penale stabilisce i criteri di determinazione della competenza per territorio del giudice dei procedimenti nei quali un magistrato riveste la qualità d'imputato o di persona offesa o di danneggiato dal reato. La competenza è attribuita all'ufficio giudiziario che ha sede nel capoluogo del distretto di Corte d'Appello più vicino oppure nel capoluogo di altro distretto, sempre tra quelli più vicini, nel caso in cui, successivamente al fatto-reato, il magistrato, imputato, parte offesa o danneggiato dal precedente distretto sia venuto a esercitare le sue funzioni nel primo di tali distretti.
Il detto articolo, riproducendo sostanzialmente l'art. 41- bis del del codice di procedura penale del 1930, enuncia un criterio di individuazione automatica del giudice competente come regola originaria, posta a specificazione del regime attributivo della competenza per territorio, nella realizzazione della tendenza normativa che privilegia la predeterminazione rigorosa dei criteri attributivi della competenza territoriale, abbandonando la scelta di rimettere a un organo sovraordinato, quale la Corte si Cassazione, la individuazione di detto giudice, come avveniva prima della riforma di cui alla legge n. 879 del 1980 in base all'art. 60 del codice di procedura penale.
Delineandosi ex ante ed in via astratta la regola disciplinatrice della competenza territoriale, valida per tutte le fattispecie previste ed escludendosi in radice qualsiasi effetto remissivo, anche se depurato dai margini di discrezionalità, non risulta vulnerato l'art. 25 della Costituzione.
La ratio della norma da un lato è quella di tutelare il diritto di difesa del cittadino imputato e gli interessi del magistrato danneggiato o offeso dal reato; e dall'altro, quella di garantire la terzietà e l'imparzialità del giudice.
Tuttavia, al foro determinato dal primo e secondo comma del detto art. 11 del codice di procedura penale è sottratta, dal successivo terzo comma, l'ipotesi in cui il reato nel quale il magistrato è parte offesa o danneggiato sia stato commesso in udienza: per essa la competenza viene determinata secondo le regole generali, ferme restando le norme sull'astensione o ricusazione del giudice.
L'eccezione è stata introdotta nel corso dei lavori parlamentari con l'intento d'impedire ogni e qualunque ritardo al corretto e sollecito corso della giustizia che si sarebbe potuto verificare per effetto di un possibile mezzo usato per ritardare la celebrazione del procedimento, quale può essere la consumazione di reati a danno del magistrato in udienza; nonché per la necessità di affermare la inammissibilità di ogni sorta di espediente processuale.
2.1. - A proposito l'Avvocatura Generale dello Stato ha ricordato che questa Corte, sia pure nella vigenza dello abrogato codice di procedura penale, ha messo in rilievo (sent. n. 92 del 1967) l'esigenza che, per il suo peculiare carattere, il procedimento in esame si svolga immediatamente dopo la commissione del reato affinché, per i particolari effetti che si verificano nell'ambiente e per le circostanze in cui avviene la consumazione del reato, si riaffermi senza indugio il diritto e trovi applicazione la sanzione: esigenza che sarebbe frustrata se si dovesse sospendere il procedimento e attendere la decisione del giudice, sia pure esso quello vicino.
Inoltre, si è rilevato che l'eccezione in esame troverebbe anche fondamento nella esemplarità del giudizio per la riaffermazione del diritto nella medesima sede giudiziaria in cui si è verificata la sua lesione, oltre che nella più agevole acquisizione degli elementi di prova, posto che il reato cade, di regola, sotto la diretta percezione del giudice.
L'immediatezza degli elementi probatori renderebbe possibile alla stessa difesa e al giudice di assolvere tempestivamente i propri compiti.
3. - La Corte osserva che, a seguito e per effetto delle modifiche apportate dal nuovo codice di procedura penale, non sono più puntuali e rilevanti le considerazioni svolte nella precedente sentenza, peraltro remota, la quale trovava riscontro nel codice di rito allora vigente, in ordine alla celerità del giudizio e del dibattimento relativi al reato consumato in udienza.
Ora, l'art. 476 del codice di procedura penale, a differenza del corrispondente art. 435 del codice di procedura penale abrogato e preso in esame dalla citata sentenza di questa Corte, esclude la possibilità di una contestuale celebrazione del giudizio per i reati consumati in udienza in quanto è rimesso alla valutazione discrezionale del P.M. di procedere a "norma di legge" e quindi non si esclude un separato giudizio successivo, sia pure con rito direttissimo o immediato.
L'opportunità di una immediata riaffermazione del diritto violato con le altre possibili implicanze non trova più possibilità di attuazione.
Inoltre, la inammissibilità del ricorso ad un espediente dilatorio, così come l'esigenza di esemplarità, non sono ragioni idonee a giustificare il mantenimento della regola generale e dei criteri ordinari di determinazione della competenza.
Sono, invece, prevalenti la garanzia della serenità e obiettività dei giudizi, la imparzialità e la terzietà del giudice, la salvaguardia del diritto di difesa e del principio di uguaglianza dei cittadini, che, a differenza di ogni altro principio, hanno fondamento nella Costituzione (artt. 101, 107, 24 e 3 della Costituzione).
Dette garanzie devono essere salvaguardate anche se il loro pregiudizio potrebbe considerarsi attenuato dalla previsione dell'astensione o della ricusazione del giudice del procedimento ed anche se si tratta di un magistrato, offeso o danneggiato nell'esercizio della funzione pubblica assegnatagli dall'ordinamento.
Va, pertanto, dichiarata la illegittimità costituzionale dell'art. 11, terzo comma, del codice di procedura penale.
4. - La declaratoria di illegittimità costituzionale dell'art. 11, terzo comma, del codice di procedura penale comporta, ex art. 27 della legge 2 marzo 1953 n. 87, la dichiarazione d'illegittimità costituzionale dell'art. 2, direttiva n. 18, della legge delega 16 febbraio 1987 n. 81, nell'inciso "eccezion fatta per i reati commessi in udienza", il cui contenuto è stato trasfuso nella disposizione che ha formato oggetto del giudizio.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
Dichiara la illegittimità costituzionale dell'art. 11, terzo comma, del codice di procedura penale;
Dichiara - in applicazione dell'art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87 - la illegittimità costituzionale dell'art. 2, direttiva n. 18, della legge 16 febbraio 1987 n. 81 (Delega legislativa al Governo della Repubblica per l'emanazione del nuovo codice di procedura penale), nell'inciso "eccezion fatta per i reati commessi in udienza".
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 15 ottobre 1991.
Aldo CORASANITI - Francesco GRECO - Gabriele PESCATORE - Ugo SPAGNOLI - Francesco Paolo CASAVOLA - Antonio BALDASSARRE - Vincenzo CAIANIELLO - Mauro FERRI - Luigi MENGONI - Enzo CHELI - Renato GRANATA - Giuliano VASSALLI.
Depositata in cancelleria il 31 ottobre 1991.