SENTENZA N. 368
ANNO 1991
REPUBBLICA ITALIANA
In nome del Popolo Italiano
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
Dott. Aldo CORASANITI Presidente
Dott. Francesco GRECO Giudice
Prof. Gabriele PESCATORE “
Avv. Ugo SPAGNOLI “
Prof. Francesco Paolo CASAVOLA “
Prof. Antonio BALDASSARRE “
Prof. Vincenzo CAIANIELLO “
Avv. Mauro FERRI “
Prof. Luigi MENGONI “
Prof. Enzo CHELI “
Dott. Renato GRANATA “
Prof. Giuliano VASSALLI “
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 1, secondo comma, ultima parte, del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 (Disciplina del fallimento, del concordato preventivo, dell'amministrazione controllata e della liquidazione coatta amministrativa), promosso con ordinanza emessa il 28 novembre 1990 dal Tribunale di Vasto sul ricorso proposto dall'I.N.P.S. contro s.d.f. Cimini Giuseppe ed altro, iscritta al n. 190 del registro ordinanze 1991 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 14, prima serie speciale, dell'anno 1991;
Visto l'atto di costituzione dell'I.N.P.S. nonché l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei Ministri;
Udito nella camera di consiglio del 19 giugno 1991 il Giudice relatore Francesco Greco;
Ritenuto in fatto
1. - L'I.N.P.S. chiedeva al Tribunale di Vasto di dichiarare il fallimento della società di fatto Cimini Giuseppe ed altro. Il Tribunale, con ordinanza del 28 novembre 1990 (R.O. n. 190 del 1991), sollevava, in riferimento all'art. 3 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'art. 1, secondo comma, r.d. 16 marzo 1942, n. 267, nella parte in cui assoggetta al fallimento l'impresa artigiana, anche piccola, se esercitata in forma collettiva.
Richiamava la sentenza di questa Corte n. 579 del 1989, secondo cui l'esclusione dell'assoggettamento delle piccole imprese al fallimento era giustificata dal pericolo che l'esiguo attivo delle stesse fosse per intero assorbito dalle spese della procedura, con conseguente inevitabile frustrazione delle pretese dei creditori. La stessa ratio doveva valere, ad avviso del collegio rimettente, per le società commerciali di modeste dimensioni, onde sembrava contrastare con il principio di eguaglianza l'indiscriminata applicabilità ad esse delle norme sul fallimento.
Infine, prendeva atto di un indirizzo giurisprudenziale secondo cui doveva escludersi la natura commerciale delle società artigiane e quindi la riconducibilità di esse alla previsione dell'art. 1, cpv., l. fall. Tuttavia riteneva che esso, in quanto minoritario, non era sufficiente ad escludere la non manifesta infondatezza della questione.
2. - Interveniva l'Avvocatura Generale dello Stato in rappresentanza del Presidente del Consiglio dei ministri, chiedendo che la questione fosse dichiarata inammissibile, trattandosi di scelta discrezionale del legislatore, e, in subordine, infondata, posto che la sottoposizione a fallimento delle società, ancorché di fatto e di modeste dimensioni, era giustificata dalla presunzione di speculazione e di profitto e che il dissesto della società di persone coinvolge anche il patrimonio dei singoli soci.
Considerato in diritto
1. - La Corte è chiamata a verificare se contrasti con il principio di eguaglianza di cui all'art. 3 della Costituzione, l'art. 1, secondo comma, della legge fallimentare, che, dopo aver definito la categoria dei piccoli imprenditori, come tali non assoggettabili al fallimento, esclude dalla categoria stessa le società artigiane, anche se abbiano piccole dimensioni.
2. - La questione non è fondata per quanto si dirà.
L'art. 3, secondo comma, della legge 8 agosto 1985, n. 443, il quale riproduce l'art. 3, primo comma, della legge 25 luglio 1956 n. 860, stabilisce che è considerata artigiana l'impresa costituita in forma di cooperativa o di società, escluse le società per azioni, purché la maggioranza dei soci partecipi personalmente al lavoro e, nell'impresa, il lavoro abbia funzione preminente sul capitale.
È anche possibile la prestazione di opera di personale dipendente, a condizione però che esso sia sempre personalmente diretto dall'imprenditore artigiano (art. 4 della citata legge) e che il numero dei dipendenti non superi determinati limiti (non più di 18 compresi i familiari, se l'impresa produca in serie; non più di 9, sempre compresi i familiari, se l'impresa non lavori in serie; non più di 8, sempre compresi i familiari, se l'impresa eserciti servizi di trasporto; eccezionalmente, e con riguardo allo svolgimento di attività nel settore dei lavori artistici tradizionali e dell'abbigliamento su misura: non più di 32 dipendenti compresi non più di 16 apprendisti o di 40 a condizione che le unità aggiuntive siano apprendisti, trattandosi di lavori fondati sulla destrezza del personale; per le costruzioni edili non più di 10 dipendenti, compresi gli apprendisti in numero non superiore a 5, o non più di 14 se le unità aggiuntive siano apprendisti: art. 4 lett. a, b, c, d, della citata legge).
Il lavoro dell'imprenditore, in ogni caso, deve poter essere considerato prevalente sul lavoro dei dipendenti e sul capitale investito nell'impresa.
Il numero dei dipendenti è rivelatore del capitale investito.
Anche se l'impresa sia costituita in forma di società, perché sia considerata artigiana occorre che la maggioranza dei soci, o uno di essi nel caso in cui la società è costituita da due soci, svolga con prevalenza lavoro personale anche manuale, nel processo produttivo e, nell'impresa, il lavoro abbia funzione prevalente sul capitale.
Deve cioè mancare del tutto il fine speculativo cioè il profitto.
3. - La nozione di società artigiana quale società esercente una piccola impresa, si inserisce in quella delineata dall'art. 2083 del codice civile, il quale detta, ormai, il solo criterio di determinazione della suddetta qualifica, essendo venuto a cessare, per effetto della declaratoria di illegittimità costituzionale (Sent. Corte Cost. n. 570 del 1989), l'art. 1, secondo comma, del r.d. 16 marzo 1942 n. 267, come modificato dall'art. unico 1, 20 ottobre 1952 n. 1375, nella parte in cui prevedeva, ai fini della legge fallimentare, che, in mancanza dell'accertamento per l'imposta di ricchezza mobile, operasse come criterio di qualificazione di piccolo imprenditore il limite di 900.000 lire di capitale investito nell'impresa.
3.1 - Devesi quindi ritenere abrogato l'art. 1, secondo comma, della legge fallimentare, nella parte in cui esclude che le società artigiane possano essere considerate piccoli imprenditori, per incompatibilità fra le nuove disposizioni e le precedenti (art. 15 disp. prel. codice civile).
Del resto, già questa Corte ha ritenuto (sent. n. 54 del 1991, n. 3 della parte motiva) non soggetta a fallimento la piccola società artigiana, di modeste dimensioni, non assimilabile ad una vera e propria impresa commerciale o industriale.
Tale è da considerarsi se manca l'intento speculativo e il suo guadagno non assume i connotati del profitto proprio per la modestia dei mezzi e del capitale investito. È soggetta invece a fallimento la società artigiana se la sua attività e la sua produzione si espandono e si organizzano su basi speculative, alterandosi così il rapporto tra attività personale della maggioranza dei soci artigiani, il numero dei dipendenti e il capitale investito.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
Dichiara non fondata, nei sensi di cui in motivazione, la questione di legittimità costituzionale dell'art. 1, secondo comma, del r.d. 16 marzo 1942 n. 267 (Disciplina del fallimento, del concordato preventivo, dell'amministrazione controllata e della liquidazione coatta amministrativa), in riferimento all'art. 3 della Costituzione, sollevata dal Tribunale di Savona con l'ordinanza in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, l'11 luglio 1991.
Aldo CORASANITI - Francesco GRECO - Gabriele PESCATORE - Ugo SPAGNOLI - Francesco Paolo CASAVOLA - Antonio BALDASSARRE - Vincenzo CAIANIELLO - Mauro FERRI - Luigi MENGONI - Enzo CHELI - Renato GRANATA - Giuliano VASSALLI.
Depositata in cancelleria il 23 luglio 1991.