Sentenza n. 259 del 1991

 

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SENTENZA N. 259

ANNO 1991

 

REPUBBLICA ITALIANA

In nome del Popolo Italiano

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

composta dai signori:

Dott. Aldo CORASANITI                                         Presidente

Prof. Giuseppe BORZELLINO                                   Giudice

Dott. Francesco GRECO                                                 “

Prof. Gabriele PESCATORE                                           “

Avv. Ugo SPAGNOLI                                                    “

Prof. Francesco Paolo CASAVOLA                               “

Prof. Antonio BALDASSARRE                                     “

Prof. Vincenzo CAIANIELLO                                       “

Avv. Mauro FERRI                                                         “

Prof. Luigi MENGONI                                                    “

Prof. Enzo CHELI                                                           “

Dott. Renato GRANATA                                                “

Prof. Giuliano VASSALLI                                              “

ha pronunciato la seguente

 

SENTENZA

 

nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 350, settimo comma, 357, secondo comma, lett. b) e 503, terzo comma, del codice di procedura penale, promosso con ordinanza emessa il 10 novembre 1990 dal Pretore di Lecce nel procedimento penale a carico di Patti Giuseppe, iscritta al n. 97 del registro ordinanze dell'anno 1991 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 9, prima serie speciale, dell'anno 1991;

Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei Ministri;

Udito nella camera di consiglio del 22 aprile 1991 il Giudice relatore Mauro Ferri;

 

Ritenuto in fatto

 

1. - Con ordinanza emessa il 10 novembre 1990 il Pretore di Lecce ha sollevato, in riferimento agli artt. 24, secondo comma, 76 e 77 della Costituzione, questione di legittimità degli artt. 350, settimo comma, 357, secondo comma, lett. b) e 503, terzo comma, del codice di procedura penale, nella parte in cui dette norme consentono la documentazione delle dichiarazioni spontanee rese dall'indiziato alla polizia giudiziaria senza l'assistenza del difensore, e la utilizzazione delle medesime in giudizio ai fini delle eventuali contestazioni.

2. - In particolare il giudice remittente ritiene che la formulazione del settimo comma dell'art. 350, che consente la utilizzazione delle dichiarazioni spontanee rese dall'indiziato alla polizia giudiziaria senza l'assistenza del difensore, a norma dell'art. 503, comma terzo, ai fini delle eventuali contestazioni, sia in contrasto con la precisa volontà del legislatore delegante che, con la direttiva n. 31, seconda parte, dell'art. 2 della legge 16 febbraio 1987 n. 81, ha posto il divieto di "ogni utilizzazione agli effetti del giudizio, anche attraverso testimonianza della stessa polizia giudiziaria, delle dichiarazioni ad essa rese da testimoni o dalla persona nei cui confronti vengono svolte le indagini, senza l'assistenza della difesa".

Il divieto di utilizzazione, posto dal legislatore delegante, dovrebbe infatti essere riferito, secondo il provvedimento di rimessione, anche alle "dichiarazioni rese" (vale a dire, non provocate ma spontanee) dall'indiziato alla polizia giudiziaria senza l'assistenza del difensore e non solo alle "informazioni assunte" (e, quindi, provocate), alle quali fa richiamo la stessa direttiva là dove consente alla polizia giudiziaria "di assumere sul luogo e nell'immediatezza del fatto, anche senza l'assistenza del difensore, notizie ed indicazioni utili ai fini dell'immediata prosecuzione delle indagini", con divieto, però, di ogni documentazione ed utilizzazione processuale.

Le dette disposizioni, esorbitando dai limiti della delega contenuta nella direttiva n. 31, si porrebbero in conseguenza in contrasto con gli articoli 76 e 77, primo comma, della Costituzione.

Ove poi tale censura non dovesse essere condivisa, prosegue il giudice a quo, le norme in esame violerebbero comunque l'art. 24, secondo comma, della Costituzione, non garantendo alcun diritto di difesa a chi, già indiziato del reato, decidesse di rendere dichiarazioni spontanee alla polizia giudiziaria senza essere edotto delle contestazioni a suo carico e senza la possibilità di esercitare pienamente il diritto di difesa nella fase più delicata del processo, quando vengono raccolte le prime fonti di prova.

Infine, quanto alla rilevanza della prospettata questione, il remittente rileva che, se venisse dichiarata l'illegittimità costituzionale delle norme indicate, verrebbe meno la possibilità per il pubblico ministero di contestare all'imputato le dichiarazioni spontanee rese alla polizia giudiziaria.

3. - È intervenuto nel giudizio il Presidente del Consiglio dei Ministri, rappresentato dall'Avvocatura generale dello Stato, il quale conclude per l'infondatezza della questione.

La difesa del governo rammenta, in primo luogo, che già la giurisprudenza formatasi sotto il codice abrogato distingueva nettamente fra dichiarazioni spontaneamente rese dall'inquisito, vale a dire ricevute dalla polizia giudiziaria senza alcuna sollecitazione - che escludevano la esigenza della presenza del difensore - e dichiarazioni anch'esse rese, ma non spontaneamente, dallo stesso inquisito nel corso di un interrogatorio, e che quella presenza viceversa esigevano.

Tale netta distinzione sarebbe stata ben recepita dal legislatore delegante (direttiva n. 31 citata) il quale, nel negare "ogni utilizzazione agli effetti del giudizio" delle dichiarazioni rese dall'indagato senza l'assistenza della difesa, parla puramente e semplicemente, di dichiarazioni "rese" e non anche di dichiarazioni "rese spontaneamente", che avrebbe certamente menzionato se avesse voluto includere nel contesto della norma quest'ultima specifica categoria, dal momento che la nozione di dichiarazione "spontaneamente resa" trovava già nel diritto vivente una sua precisa collocazione alla luce della giurisprudenza della Suprema Corte.

Per quanto poi concerne la violazione del primo capoverso dell'art. 24 della Costituzione l'Avvocatura osserva che, anche sul piano pratico, non si vede come una dichiarazione spontaneamente resa dall'indagato nell'immediatezza del fatto possa, in linea di principio, esigere la preventiva assistenza del difensore. Se infatti la dichiarazione è fatta, come nella specie, nella immediatezza dell'evento ed è spontanea, ciò vuol dire che essa è venuta in essere prima ancora che la polizia giudiziaria abbia avuto il tempo di assicurare un difensore al dichiarante, e quindi la violazione dell'art. 24 della Costituzione non sembrerebbe nemmeno ipotizzabile.

 

Considerato in diritto

 

1. - Il Pretore di Lecce dubita della legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 76, 77 e 24 della Costituzione, degli artt. 350, settimo comma, 357, secondo comma, lett. b), e 503, terzo comma, del codice di procedura penale, nella parte in cui consentono la documentazione e la utilizzazione, ai fini delle eventuali contestazioni, delle dichiarazioni spontanee rese dall'indiziato alla polizia giudiziaria senza l'assistenza del difensore.

2. - In primo luogo il giudice remittente ritiene che dette norme si pongano in contrasto con i principi contenuti nella legge di delega 16 febbraio 1987 n. 81 che, con la direttiva n. 31 dell'art. 2, ha posto il divieto di ogni utilizzazione agli effetti del giudizio delle dichiarazioni rese alla polizia giudiziaria, senza l'assistenza della difesa, dalla persona nei cui confronti vengono svolte le indagini.

Sotto questo profilo la questione è fondata nei limiti di seguito indicati.

In materia di delega questa Corte ha costantemente ritenuto che quanto più i principi ed i criteri direttivi impartiti dal legislatore delegante sono analitici e dettagliati tanto più ridotti risultano i margini di discrezionalità lasciati al legislatore delegato; di conseguenza ancor più rigorosamente deve valutarsi la legittimità della norma delegata, nel senso della sua aderenza ai criteri direttivi predeterminati.

Ora, come può evincersi dalle relazioni al progetto preliminare ed al testo definitivo del codice di procedura penale, la formulazione dell'art. 350, settimo comma, rispecchia l'interpretazione della direttiva n. 31 (seconda parte) prevalsa in Commissione redigente dopo un animato dibattito.

Ritenne la Commissione che la citata direttiva consentisse anche la previsione delle cosiddette "dichiarazioni spontanee" rese, senza l'assistenza del difensore, dall'indiziato alla polizia giudiziaria, utilizzabili in giudizio ai fini delle contestazioni, pervenendo a tale conclusione con l'argomento che: "la direttiva 31 (nella seconda e nella sesta parte) mostra di distinguere le "informazioni rese" (utilizzabili) da quelle "assunte" (e quindi "provocate") dalla polizia giudiziaria (inutilizzabili)".

La conclusione non può essere condivisa.

Il divieto di utilizzazione espressamente posto dal legislatore delegante si riferisce, infatti, secondo l'univoco significato letterale della direttiva in esame, tanto analitica da apparire norma di dettaglio, anche alle "dichiarazioni rese" dall'indiziato alla polizia giudiziaria senza l'assistenza del difensore, e non solo alle "informazioni assunte", alle quali peraltro fa richiamo la stessa direttiva (sesta parte) là dove consente alla polizia giudiziaria "di assumere sul luogo e nell'immediatezza del fatto, anche senza l'assistenza del difensore, notizie ed indicazioni utili ai fini della immediata prosecuzione delle indagini"; ribadendo però anche in questa sede il divieto, già posto nella seconda parte, di ogni utilizzazione processuale.

Una volta stabilito, quindi, che il principio posto dalla direttiva n. 31 è chiaramente espresso nella sua stessa dizione letterale, e si riferisce, come si è visto, alle dichiarazioni "rese", non c'è spazio per costruire una diversa regolamentazione tra dichiarazioni "rese" e dichiarazioni "rese spontaneamente". Secondo l'Avvocatura dello Stato tale differenziazione troverebbe fondamento nella giurisprudenza formatasi sotto il vecchio codice, per cui il legislatore delegante, ove avesse inteso includere anche questa ultima specie di dichiarazioni nel divieto, lo avrebbe espressamente affermato.

In primo luogo occorre rilevare che la tesi è smentita dalla stessa relazione prima citata che, come si è visto, ha considerato le informazioni "rese" come spontanee, contrapponendole a quelle "assunte" e quindi provocate.

Inoltre, proprio in quanto la nozione di dichiarazione "spontaneamente resa" era ben nota nel diritto vivente, la circostanza che il legislatore delegante non abbia ritenuto, in questa sede, di operare alcuna distinzione ma abbia posto un divieto generale di utilizzabilità per ogni tipo di dichiarazione resa senza l'assistenza della difesa, costituisce semmai ulteriore argomento per escludere che la lettera della direttiva n. 31 autorizzi un regime differenziato e particolare per la specifica categoria delle dichiarazioni spontanee.

È appena il caso di aggiungere che nel "divieto di ogni utilizzazione agli effetti del giudizio" è certamente compreso anche l'uso di dette dichiarazioni ai fini delle contestazioni; uso che, seppure con l'efficacia probatoria minore stabilita dall'art. 500, terzo comma, del codice di procedura penale, comporta indubbiamente "effetti" nel giudizio.

Deve quindi dichiararsi l'illegittimità costituzionale, per violazione degli artt. 76 e 77, primo comma, della Costituzione, ed in riferimento alla direttiva contenuta all'art. 2 n. 31 della legge di delega 16 febbraio 1987 n. 81, dell'art. 350, settimo comma, del codice di procedura penale, nella parte in cui consente la utilizzazione ai fini delle contestazioni delle dichiarazioni spontanee rese alla polizia giudiziaria senza l'assistenza del difensore; e cioè limitatamente all'inciso "salvo quanto previsto dall'art. 503, comma 3".

Resta assorbito l'altro parametro costituzionale invocato dal giudice remittente.

3. - Le ragioni ora esposte in ordine alla illegittimità costituzionale della norma prevista al settimo comma dell'art. 350 non possono essere estese alle disposizioni contenute negli artt. 357, secondo comma, lett. b) (Documentazione dell'attività di Polizia giudiziaria) e 503, terzo comma (Esame delle parti private), del codice di procedura penale, cui pure il giudice remittente si è riferito nel sollevare la questione.

Infatti la regula juris che il Pretore di Lecce ha inteso in sostanza censurare è quella che consente, in via di eccezione, l'uso in dibattimento, ai fini delle eventuali contestazioni, delle dichiarazioni spontanee rese dall'indiziato in assenza del difensore, ed è contenuta specificamente nell'art. 350, settimo comma, ultimo inciso. Una volta eliminata tale possibilità con la dichiarazione d'illegittimità costituzionale della norma, né la documentazione in sé di tali dichiarazioni, non più suscettibile di utilizzazione in giudizio, né la disposizione di cui al terzo comma dell'art. 503 (che si limita ad estendere anche all'esame delle parti private la possibilità, prevista dall'art. 500, di effettuare contestazioni), consentono più detta utilizzazione in presenza del generale divieto ora sancito dal settimo comma dell'art. 350; non risultano pertanto in conflitto né con i principi enunciati dalla citata direttiva n. 31 della legge-delega (seconda parte), né possono incidere in alcun modo sul diritto di difesa sancito dall'art. 24 della Costituzione.

In ordine alle predette disposizioni, pertanto, la proposta questione di legittimità costituzionale va dichiarata non fondata.

 

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

Dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 350, settimo comma, del codice di procedura penale, limitatamente all'inciso: "salvo quanto previsto dall'art. 503 comma 3";

Dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale degli artt. 357, secondo comma, lett. b) e 503, terzo comma, del codice di procedura penale, sollevata, in riferimento agli artt. 24, secondo comma, 76 e 77 della Costituzione, dal Pretore di Lecce con l'ordinanza in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte Costituzionale, Palazzo della Consulta il 23 maggio 1991.

 

Aldo CORASANITI - Giuseppe BORZELLINO - Francesco GRECO - Gabriele PESCATORE - Ugo SPAGNOLI - Francesco Paolo CASAVOLA - Antonio BALDASSARRE - Vincenzo CAIANIELLO - Mauro FERRI - Luigi MENGONI - Enzo CHELI - Renato GRANATA - Giuliano VASSALLI.

 

Depositata in cancelleria il 12 giugno 1991.