Sentenza n. 102 del 1991

 

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SENTENZA N. 102

ANNO 1991

 

REPUBBLICA ITALIANA

In nome del Popolo Italiano

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

composta dai signori:

Prof. Ettore GALLO                                                   Presidente

Dott. Aldo CORASANITI                                         Giudice

Prof. Giuseppe BORZELLINO                                       “

Dott. Francesco GRECO                                                 “

Prof. Gabriele PESCATORE                                           “

Avv. Ugo SPAGNOLI                                                    “

Prof. Francesco Paolo CASAVOLA                               “

Prof. Antonio BALDASSARRE                                     “

Prof. Vincenzo CAIANIELLO                                       “

Avv. Mauro FERRI                                                         “

Prof. Luigi MENGONI                                                    “

Prof. Enzo CHELI                                                           “

Dott. Renato GRANATA                                                “

ha pronunciato la seguente

 

SENTENZA

 

 

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 566, nono comma, del codice di procedura penale, promosso con ordinanza emessa il 9 agosto 1990 dal Pretore di Grosseto nel procedimento penale a carico di Cazzarotto Stefano, iscritta al n. 682 del registro ordinanze 1990 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 44, prima serie speciale, dell'anno 1990;

Udito nella camera di consiglio del 30 gennaio 1991 il Giudice relatore Mauro Ferri;

 

Ritenuto in fatto

 

Nel corso del procedimento penale a carico di Cazzarotto Stefano, il Pretore di Grosseto ha sollevato, con ordinanza del 9 agosto 1990, questione di legittimità costituzionale - in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione - dell'art. 566, nono comma, del codice di procedura penale (secondo cui "fuori dei casi previsti dai commi precedenti, il pubblico ministero procede a norma del titolo II del presente libro"), in quanto esclude l'applicabilità al procedimento pretorile della disciplina del rito direttissimo di cui all'art. 449 del codice di procedura penale, con particolare riferimento all'ipotesi di cui al quinto comma di quest'ultimo articolo (confessione dell'imputato).

Osserva preliminarmente il giudice a quo che la presunta ragione della limitazione del giudizio direttissimo nel processo pretorile al solo caso di cui alla lettera a) della direttiva n. 43 della legge-delega (giudizio contestuale alla convalida dell'arresto in flagranza) - ragione individuata nella peculiarità del processo pretorile stesso - non appare fondata, in quanto essa manterrebbe la sua valenza solo ove fosse consentita la facoltà di scelta tra il procedimento direttissimo di cui all'art. 566 del codice di procedura penale e quello direttissimo cosiddetto ordinario regolato dall'art. 449 dello stesso codice: ma ciò è escluso dalla disposizione in questione.

Ciò posto, la norma impugnata violerebbe, ad avviso del remittente, i sopra indicati parametri costituzionali, in quanto l'imputato di reato di competenza pretorile, in caso di identico comportamento, quale l'avere reso piena confessione, verrebbe a soffrire una ingiustificata disparità di trattamento rispetto all'imputato di reato di competenza del tribunale, sia per la maggiore durata del giudizio in sé, da instaurare con rito ordinario e quindi con termini più lunghi, sia per il protrarsi della custodia cautelare, come avviene nel caso di specie.

Quanto alla rilevanza, il Pretore osserva che dalla decisione della proposta questione dipende la natura del giudizio con il quale definire il procedimento.

 

Considerato in diritto

 

1. - Il Pretore di Grosseto dubita della legittimità costituzionale dell'art. 566, nono comma, del codice di procedura penale, in quanto esclude l'applicabilità, nel procedimento pretorile, del giudizio direttissimo nella ipotesi - prevista nell'art. 449, quinto comma, dello stesso codice in ordine al procedimento davanti al tribunale - di confessione resa dall'imputato nel corso dell'interrogatorio; la norma violerebbe, ad avviso del remittente, gli artt. 3 e 24 della Costituzione, per irrazionale disparità di trattamento tra imputati confessi, a seconda che il reato sia di competenza del tribunale o del pretore, in quanto in quest'ultima ipotesi, dovendosi procedere col rito ordinario, l'imputato verrebbe a soffrire tempi di durata maggiore del processo.

2. - La questione è fondata.

L'art. 566, nono comma, del codice di procedura penale, prevede - con disposizione specifica che esclude l'applicabilità della generale norma di rinvio di cui all'art. 549 - che "Fuori dei casi previsti dai commi precedenti, il pubblico ministero procede a norma del titolo II del presente libro" (cioè nei modi ordinari). L'instaurazione del giudizio direttissimo dinanzi al pretore viene, perciò, circoscritta alle sole ipotesi disciplinate nel medesimo art. 566: vale a dire quella del giudizio contestuale alla convalida dell'arresto in flagranza e quella (quinto comma) del giudizio su consenso dell'imputato e del pubblico ministero in caso di mancata convalida.

Rispetto alla disciplina dettata dall'art. 449 del codice di procedura penale per il procedimento davanti al tribunale, restano pertanto esclusi, nel processo pretorile, i casi di giudizio direttissimo previsti dai commi quarto e quinto di detto articolo, già contemplati rispettivamente nelle lettere b) e c) della direttiva n. 43 della legge-delega 16 febbraio 1987, n. 81: cioè quello del giudizio separato (entro quindici giorni dall'arresto in flagranza) dalla convalida dell'arresto e quello, che qui particolarmente interessa, al quale il pubblico ministero può procedere - per una udienza non successiva al quindicesimo giorno dalla iscrizione nel registro delle notizie di reato - "nei confronti della persona che nel corso dell'interrogatorio ha reso confessione".

In ordine alla descritta disciplina del rito direttissimo nel procedimento davanti al pretore, dai lavori preparatori risulta che le ragioni della mancata previsione in tale sede delle ipotesi da ultimo indicate risiedono, in generale, nella peculiarità del procedimento pretorile, informato a criteri di snellezza e speditezza, con conseguente tendenza alla massima disincentivazione del dibattimento. In particolare, per il caso del giudizio entro quindici giorni dall'arresto si è ritenuto che esso sarebbe finito col diventare l'ipotesi normale, con conseguente arretramento rispetto alla normativa del codice di procedura penale abrogato (art. 505) e mancato rispetto del principio della massima semplificazione del procedimento di pretura (direttiva n. 103 della legge-delega), nel quale la regola è invece la contestualità tra convalida e giudizio direttissimo. Quanto al caso di confessione, si è osservato che tale forma di giudizio direttissimo rimaneva "assorbita - se così si può dire - dalle forme di definizione anticipata del procedimento, che nel processo di pretura saranno il rito ordinario in caso appunto di evidenza della prova o di confessione dell'imputato", e la sua adozione è parsa "non praticabile" poiché "il procedimento pretorile - celere e snello - consente di raggiungere risultati sostanzialmente analoghi" (cfr., in tal senso, rispettivamente, le relazioni al progetto preliminare e al testo definitivo).

3. - Premesso che il nuovo codice di procedura penale è caratterizzato da un evidente favor nei confronti dei procedimenti differenziati, nell'ambito dei quali, in particolare, le possibilità di ricorso al giudizio direttissimo sono state ampliate rispetto al codice abrogato, anche in considerazione della "accentuata caratterizzazione (di tale giudizio) sugli schemi del processo accusatorio" (v. relazione al progetto preliminare), va osservato che l'esclusione nel processo di pretura del rito direttissimo in alcune ipotesi andrebbe sorretta, onde evitare ingiuste discriminazioni, da una adeguata ratio, strettamente connessa con la struttura e le caratteristiche del processo pretorile volute dal legislatore delegante. Ora, le motivazioni sopra riportate che hanno indotto il legislatore delegato ad escludere in tale processo il ricorso al rito direttissimo nel caso di confessione (che è la sola ipotesi qui in discussione, anche sotto il profilo della rilevanza nel giudizio a quo) si rivelano inadeguate allo scopo, anche perché basate in gran parte su considerazioni meramente empiriche.

In realtà, non sono rinvenibili nel sistema valide ragioni giustificative della disciplina impugnata. Il giudizio direttissimo assomma in sé i vantaggi (che tali sono innanzitutto per lo stesso imputato) della estrema celerità, dovendosi l'udienza dibattimentale tenere - nel caso in esame - entro quindici giorni dall'iscrizione della notizia di reato nell'apposito registro, e della pubblicità: l'aver precluso al pubblico ministero presso la pretura, nel caso di particolare evidenza della prova qual è quello dell'avvenuta confessione dell'imputato, la possibilità di ottenere un tale rapidissimo sbocco dibattimentale del processo, nonché all'imputato stesso di usufruirne, è una scelta che non può ritenersi razionalmente sorretta dalla considerazione (addotta nella relazione al progetto preliminare) secondo cui il rito in questione verrebbe assorbito dalle forme di definizione anticipata del procedimento, le quali presentano, invece, caratteristiche del tutto differenti. La norma impugnata si rivela, dunque, irragionevole ed ingiustificatamente discriminatoria di identiche situazioni processuali, e pertanto, pur prescindendo dalla sua dubbia compatibilità con le direttive nn. 43 e 103 della legge-delega (questione non prospettata dal giudice remittente), ne va dichiarata l'illegittimità costituzionale in parte qua per violazione dell'art. 3 della Costituzione, con conseguente assorbimento del profilo di censura relativo all'art. 24 della Costituzione stessa.

 

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

Dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 566, nono comma, del codice di procedura penale, nella parte in cui esclude l'applicabilità dell'art. 449, quinto comma, dello stesso codice.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 27 febbraio 1991.

 

Ettore GALLO - Aldo CORASANITI - Giuseppe BORZELLINO - Francesco GRECO - Gabriele PESCATORE - Ugo SPAGNOLI - Francesco Paolo CASAVOLA - Antonio BALDASSARRE - Vincenzo CAIANIELLO - Mauro FERRI - Luigi MENGONI - Enzo CHELI - Renato GRANATA.

 

Depositata in cancelleria l'11 marzo 1991.