SENTENZA N. 52
ANNO 1991
REPUBBLICA ITALIANA
In nome del Popolo Italiano
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
Prof. Giovanni CONSO Presidente
Prof. Ettore GALLO Giudice
Dott. Aldo CORASANITI “
Prof. Giuseppe BORZELLINO “
Dott. Francesco GRECO “
Prof. Gabriele PESCATORE “
Avv. Ugo SPAGNOLI “
Prof. Francesco Paolo CASAVOLA “
Prof. Antonio BALDASSARRE “
Prof. Vincenzo CAIANIELLO “
Prof. Luigi MENGONI “
Prof. Enzo CHELI “
Dott. Renato GRANATA “
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 147, 160 e 161 del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 (Disciplina del fallimento, del concordato preventivo, dell'amministrazione controllata e della liquidazione coatta amministrativa), in correlazione agli artt. 2269, 2290 e 2293 del codice civile, promosso con ordinanza emessa il 22 maggio 1990 dalla Corte d'appello di Salerno nel procedimento civile vertente tra Gambardella Gabriele e Cappuccio Franco, iscritta al n. 457 del registro ordinanze 1990 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 29, prima serie speciale, dell'anno 1990;
Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
Udito nella camera di consiglio del 28 novembre 1990 il Giudice relatore Francesco Greco;
Ritenuto in fatto
1. - Il Tribunale di Salerno, con sentenza 27 marzo 1975, ha dichiarato il fallimento della s.n.c. Gambardella Gabriele & Figli. Successivamente, ad istanza del curatore, con sentenza 16 luglio 1976, ha esteso il fallimento a Gambardella Gabriele il quale, dal 12 al 14 aprile 1974, aveva posseduto, per acquisto fattone, una quota sociale di 8/96 ed era stato, quindi, socio illimitatamente responsabile delle obbligazioni sociali anteriori al suo recesso, le quali avevano determinato anch'esse lo stato di insolvenza della società. Il Gambardella ha proposto opposizione al fallimento ma il Tribunale l'ha rigettata.
La Corte di appello di Salerno, su appello ed ad istanza dello stesso Gambardella, ha sollevato questione di legittimità costituzionale degli artt. 147, 160 e 161 della legge fallimentare in correlazione agli artt. 2269, 2290 e 2293 del codice civile. Ha osservato che le suddette norme, poiché non contengono né la previsione della facoltà anche dei soci receduti di partecipare alla formazione della maggioranza per la scelta e l'approvazione del concordato preventivo, da proporre per evitare il fallimento, né del diritto di avanzare singolarmente la detta proposta, violerebbero:
a) l'art. 3 della Costituzione per la evidente disparità di trattamento tra soci attuali e soci receduti in quanto, pur essendo gli uni e gli altri illimitatamente responsabili, solo i receduti sono assoggettati al fallimento senza che abbiano alcuna possibilità di evitarlo;
b) l'art. 24 della Costituzione perché al socio receduto non è attribuito il diritto di evitare l'estensione del fallimento con lo stesso mezzo (concordato preventivo) che è concesso agli altri soci.
2. - L'ordinanza è stata ritualmente comunicata, notificata e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale.
2.1 - Nel giudizio dinanzi a questa Corte è intervenuta l'Avvocatura Generale dello Stato in rappresentanza del Presidente del Consiglio dei ministri che ha concluso per l'inammissibilità o quanto meno per la infondatezza della questione.
Ha rilevato che, anche quando si pervenisse all'ammissibilità del concordato preventivo ad istanza di un soggetto diverso dall'imprenditore in stato di insolvenza (art. 160, primo comma, legge fallimentare), dovrebbe superarsi la palese irrilevanza di una proposta di concordato preventivo cronologicamente successiva al fallimento della società, la quale proposta tutt'al più potrebbe portare alla chiusura del fallimento per sopravvenuta sufficienza dell'attivo (art. 118 legge fallimentare) oppure ad un concordato successivo (art. 124 legge fallimentare), ma, in nessun caso, all'accoglimento dell'opposizione alla sentenza estensiva del fallimento. Ha, poi, asserito che l'esame di una eventuale proposta di concordato preventivo da parte degli organi competenti e la emanazione di una pronuncia su detta proposta non costituiscono di per sé presupposti per la legittimità di una sentenza dichiarativa di fallimento, essendo la procedura fallimentare del tutto autonoma rispetto a quella relativa alla detta proposta, per quanto riguarda l'accertamento della insolvenza.
Ha rilevato, inoltre, il contrasto tra la motivazione ed il dispositivo dell'ordinanza di rimessione, censurandosi nell'una la mancata previsione dei diritti del socio receduto e nell'altro omettendosi la menzione dell'art. 152 della legge fallimentare nonostante il suo coinvolgimento nella censura e denunciandosi, invece, la norma che consente la estensione del fallimento, sulla cui legittimità non sembra avanzato in motivazione alcun dubbio. Infine, nel merito ha rilevato la impossibilità della partecipazione di ex soci alla formazione della maggioranza di cui all'art. 152 della legge fallimentare perché essi non rappresentano, nell'attualità, nessuna quota di capitale sociale mentre la presentazione da parte degli stessi di una autonoma proposta di concordato preventivo sembrerebbe consentita dalla vigente normativa.
Considerato in diritto
1. - La Corte di appello di Salerno dubita della legittimità costituzionale degli artt. 147, 160 e 161 della legge fallimentare, in correlazione agli artt. 2269, 2290 e 2293 del codice civile, nella parte in cui non consentono al socio, che, sebbene receduto, è soggetto, siccome illimitatamente responsabile, all'estensione del fallimento della società, di partecipare alla formazione della maggioranza per la scelta e l'approvazione del concordato preventivo da proporre per evitare il fallimento o, quanto meno, di formulare idonea, autonoma proposta di concordato preventivo.
A parere della Corte remittente risulterebbero violati l'art. 3 della Costituzione per la disparità di trattamento che si determina tra i soci receduti e gli altri soci cui detta partecipazione è consentita e l'art. 24 della Costituzione per la compressione dei diritti dei soci receduti ai quali non è concesso lo stesso mezzo accordato agli altri soci per evitare le conseguenze pregiudizievoli del fallimento.
2. - La questione è inammissibile.
Invero, non può dubitarsi che le attuali norme che regolano il fallimento creino una disparità di trattamento fra i soci attuali della società e i soci receduti, egualmente illimitatamente responsabili per le obbligazioni contratte durante la vigenza del loro stato di socio, le quali hanno anch'esse contribuito a determinare la insolvenza della società, onde la legittimità della estensione nei loro confronti del fallimento della società. Per essi, le norme vigenti non prevedono alcun rimedio per evitare la suddetta estensione e le gravi conseguenze, materiali e morali che ne derivano, a differenza di quanto avviene per i soci "attuali". Ai soci receduti non è consentita la partecipazione all'assemblea dei soci per l'approvazione della proposta e delle condizioni del concordato preventivo (art. 152 legge fallimentare), mentre possono fare proposta di concordato solo dopo la dichiarazione di fallimento della società ( art. 154 legge fallimentare), secondo l'interpretazione delle relative norme da parte della Corte remittente.
Inoltre, nel sistema attuale non sembra possibile una ulteriore proposta di concordato preventivo dopo che sia intervenuta la dichiarazione di fallimento. Mentre la possibilità di un concordato dopo la dichiarazione di fallimento, esteso anche ai soci receduti, secondo il disposto dell'art. 154 legge fallimentare, non sembra del tutto appagante, in quanto restano egualmente gli effetti gravemente pregiudizievoli che ha già prodotto la intervenuta dichiarazione di fallimento.
3. - D'altro canto, non può disconoscersi che l'eventuale concordato preventivo offerto dal socio receduto potrebbe arrecare vantaggi agli stessi creditori della società, i quali potrebbero ottenere il pagamento dei loro crediti o per intero o per una percentuale maggiore di quella che possono ottenere alla chiusura del fallimento, evitando, comunque, la più lunga e dispendiosa procedura fallimentare concorsuale. Ma la scelta del rimedio più efficace nella gamma delle sussistenti possibilità spetta necessariamente alla discrezionalità del legislatore, donde la inammissibilità della questione sollevata.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
Dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale degli artt. 147, 160 e 161 del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 (Disciplina del fallimento, del concordato preventivo, dell'amministrazione controllata e della liquidazione coatta amministrativa), in correlazione agli artt. 2269, 2290 e 2293 del codice civile, in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione, sollevata dalla Corte di appello di Salerno con l'ordinanza indicata in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 28 gennaio 1991.
Giovanni CONSO - Ettore GALLO - Aldo CORASANITI – Giuseppe BORZELLINO - Francesco GRECO - Gabriele PESCATORE - Ugo SPAGNOLI - Francesco Paolo CASAVOLA - Antonio BALDASSARRE - Vincenzo CAIANIELLO - Luigi MENGONI - Enzo CHELI - Renato GRANATA.
Depositata in cancelleria il 6 febbraio 1991.