SENTENZA N.30
ANNO 1991
REPUBBLICA ITALIANA
In nome del Popolo Italiano
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
Prof. Giovanni CONSO Presidente
Prof. Ettore GALLO Giudice
Dott. Aldo CORASANITI “
Prof. Giuseppe BORZELLINO “
Dott. Francesco GRECO “
Prof. Gabriele PESCATORE “
Avv. Ugo SPAGNOLI “
Prof. Francesco Paolo CASAVOLA “
Prof. Antonio BALDASSARRE “
Prof. Vincenzo CAIANIELLO “
Avv. Mauro FERRI “
Prof. Luigi MENGONI “
Prof. Enzo CHELI “
Dott. Renato GRANATA “
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 154, quarto comma, della legge 11 luglio 1980, n. 312 (Nuovo assetto retributivo-funzionale del personale civile e militare dello Stato), promosso con ordinanza emessa il 30 marzo 1990 dal Tribunale amministrativo regionale per la Lombardia - Sezione staccata di Brescia, nei ricorsi riuniti proposti da Venditti Alfonsino contro il Ministero di grazia e giustizia ed altri, iscritta al n. 536 del registro ordinanze 1990 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della repubblica n. 36, prima serie speciale, dell'anno 1990;
Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei Ministri;
Udito nella camera di consiglio del 12 dicembre 1990 il Giudice relatore Gabriele Pescatore;
Ritenuto in fatto
1. - Nel corso di due giudizi riuniti, promossi da un magistrato per ottenere che l'equo indennizzo concessogli venisse calcolato sulla base dello stipendio, già conseguito, di magistrato nominato alle funzioni direttive superiori, anziché sulla base dello stipendio di magistrato di cassazione, il Tribunale amministrativo regionale per la Lombardia - Sezione staccata di Brescia, con ordinanza in data 30 marzo 1990 ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell'art. 154, quarto comma, della legge 11 luglio 1980, n. 312.
Nell'ordinanza si rileva che l'amministrazione ha rispettato il principio secondo il quale l'equo indennizzo non si calcola in base allo stipendio concretamente spettante all'interessato in virtù delle sue personali vicende di carriera e di progressione economica, bensì in base allo stipendio virtualmente spettante ad un ipotetico impiegato della medesima carriera che si trovi nella posizione iniziale di una determinata qualifica o livello retributivo. Tale posizione, per il personale di magistratura, è individuata dall'art. 154, quarto comma, della legge 11 luglio 1980, n. 312, in quella del magistrato di cassazione.
Il giudice remittente ha sollevato dubbi circa la legittimità costituzionale di tale disciplina, deducendo che la norma in esame, in combinazione con l'art. 49, secondo comma, del d.P.R. 3 maggio 1957, n. 686, in virtù del quale "l'indennizzo è ridotto del 25 per cento se l'impiegato ha superato i cinquanta anni di età e del 50 per cento se ha superato il sessantesimo anno di età", pone in essere un meccanismo irrazionale, non ponderato adeguatamente dal legislatore. Infatti, se si tiene conto che la carriera del magistrato si può svolgere sino a settanta anni e che, inoltre, successivamente alla qualifica di consigliere di cassazione, essa può, teoricamente, svilupparsi su altre tre qualifiche (funzioni direttive superiori, Presidente aggiunto, Primo Presidente), si rileva che a mano a mano che il magistrato di cassazione consegue la promozione alle qualifiche superiori nell'eventualità che egli incorra in una delle menomazioni dell'integrità fisica, riconosciute dipendenti da causa di servizio e che, quindi, danno titolo alla concessione dell'equo indennizzo egli da un lato, vedrebbe arrestarsi la base di calcolo di quest'ultimo ad un livello stipendiale inferiore a quello in godimento; dall'altro lato, subirebbe la decurtazione, sino alla metà, dell'importo spettantegli, proprio in corrispondenza di quel periodo della vita (dai cinquanta ai settanta anni di età) in cui è più concretamente possibile che egli raggiunga le suddette promozioni.
Siffatta iniqua concomitanza di fattori riduttivi non si verifica, al contrario, per gli altri dipendenti statali, rispetto ai quali l'art. 154, secondo comma, della legge n. 312 del 1980 fissa quale indice di riferimento, per la determinazione dell'equo indennizzo, "la classe iniziale di stipendio della qualifica o del livello di appartenenza", senza, quindi, porre limiti in caso di conseguimento (per promozione, per concorso, per sanatoria o altri titoli idonei al passaggio di qualifica o di livello) di posizioni funzionali superiori.
Sussistono quindi dubbi - ad avviso del Tribunale amministrativo regionale - di contrasto dell'art. 154, quarto comma, della legge n. 312 del 1980, con l'art. 3 della Costituzione, in quanto, da un lato, esso introduce un'ingiustificata disparità di trattamento di una categoria di personale rispetto alla generalità dei dipendenti statali; dall'altro lato, la norma realizza un irragionevole e perverso congegno di riduzione del beneficio in parola, in senso inversamente proporzionale alla progressione di carriera del magistrato.
La norma si porrebbe inoltre in conflitto con l'art. 32 della Costituzione, sulla tutela della salute, intesa non quale bene astratto, indifferenziato e fine a se stesso, quanto, piuttosto, come reale attitudine psico-fisica che permette all'individuo di agire utilmente nei rapporti sociali e di lavoro.
Infine, sarebbe dubbia la conformità dell'impugnato art. 154 al dettato dell'art. 38 della Costituzione, che garantisce la tutela della salute e l'incolumità dei lavoratori, anche mediante la predisposizione di misure e rimedi successivi, in caso di malattia e di infortuni non totalmente invalidanti.
2. - È intervenuto nel giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, secondo il quale il legislatore, con l'art. 154, quarto comma, della legge n. 312 del 1980, ha dettato una disciplina unitaria, ai fini della misura dell'equo indennizzo, per il personale della magistratura, riconoscendo a tutti i magistrati un identico trattamento (con l'attribuzione dell'indennizzo in misura pari a due volte lo stipendio del magistrato di cassazione), indipendentemente dalle funzioni esercitate dal singolo.
Detto trattamento (che, se può pregiudicare i magistrati che esercitano funzioni superiori a quelle di magistrato di cassazione, avvantaggia coloro che svolgano funzioni inferiori), secondo l'Avvocatura generale dello Stato, è il frutto di una scelta del legislatore che non appare irragionevole rispetto alla generalità dei pubblici dipendenti (per i quali il calcolo dell'equo indennizzo si basa sullo stipendio della qualifica di appartenenza). Sono da tener presenti, infatti, il particolare status che la Costituzione riserva ai magistrati (rispetto ai quali possono operarsi distinzioni soltanto in relazione alle funzioni), nonché i maggiori livelli retributivi del personale della magistratura rispetto alle diverse categorie di pubblici dipendenti.
La questione sarebbe manifestamente infondata anche con riferimento agli artt. 32 e 38 della Costituzione, dato che la natura indennitaria del compenso di cui al citato art. 154, riferito ad una menomazione verificatasi, non può avere alcuna attinenza, proprio per la sua funzione riparatoria, con la tutela da parte dello Stato del diritto dei singoli alla salute (art. 32), né con l'assicurazione di mezzi adeguati per la garanzia di esigenze di vita in caso di malattia, infortunio o invalidità (art. 38): diritti per la salvaguardia dei quali l'ordinamento appresta sistemi specifici come quello dell'assistenza sanitaria e della previdenza.
Considerato in diritto
1. - Ad avviso del Tribunale amministrativo regionale per la Lombardia - Sezione staccata di Brescia, l'art. 154, quarto comma, della legge 11 luglio 1980, n. 312 - nella parte in cui prevede che l'equo indennizzo riconosciuto al magistrato che fruisce di stipendio superiore a quello di consigliere di cassazione venga calcolato sulla base dello stipendio iniziale del magistrato di cassazione, anziché sulla base del più elevato stipendio percepito al momento della liquidazione - si pone in contrasto con gli artt. 3, 32 e 38 della Costituzione.
2. - La questione deve ritenersi infondata in riferimento a tutti i parametri costituzionali invocati.
La violazione dell'art. 3 della Costituzione viene sostenuta con riguardo a due aspetti. La mancata previsione di un incremento dell'indennizzo, rapportato al crescere della retribuzione in conseguenza degli avanzamenti nella carriera, comporterebbe una ingiustificata disparità di trattamento del magistrato rispetto alla generalità dei dipendenti statali, per i quali nella determinazione dell'equo indennizzo si fa riferimento al trattamento economico da considerare nell'ambito della qualifica funzionale o del livello retributivo di appartenenza del dipendente al momento di presentazione della domanda.
Il secondo motivo di censura concerne l'irragionevole meccanismo di riduzione del beneficio, che agisce in senso inverso alla progressione di carriera del magistrato.
L'art. 49, secondo comma, del d.P.R. 3 maggio 1957, n. 686, dispone infatti che l'indennizzo è ridotto del 25 per cento se l'impiegato ha superato i cinquanta anni di età e del 50 per cento se ha superato il sessantesimo anno di età. Tali riduzioni, collegate con l'agganciamento fisso dell'indennizzo alla retribuzione del consigliere di cassazione, comportano - osserva il giudice a quo - una accentuata decurtazione del beneficio proprio negli anni in cui è più probabile l'avanzamento del magistrato nelle qualifiche.
Quest'ultima argomentazione, per la parte che può rilevare, coincide in realtà con la prima.
La riduzione dell'indennizzo in rapporto al crescere dell'età è comune a tutti i possibili beneficiari, siano o non magistrati. Essa trova comprensibile fondamento nel rilievo che la menomazione comporta tanto più danno quanto più giovane è l'età dell'interessato, e viceversa; non può dunque non essere di applicazione generale. Indubbiamente, la riduzione percentuale, collegata con la mancata crescita della base di calcolo, può comportare effetti relativamente più sensibili nei confronti del magistrato. Ma è evidente che si ha qui riguardo ad uno solo dei diversi effetti del particolare meccanismo indennitario, il quale va invece considerato nel suo complesso e non limitatamente a quel segmento che trova applicazione nel singolo caso.
Il quesito da porsi è dunque soltanto se sia censurabile, in riferimento al principio di eguaglianza, la previsione che impone di rapportare sempre l'entità dell'indennizzo da liquidarsi al magistrato a due volte l'importo dello stipendio del magistrato di corte di cassazione.
Invero, il quinto comma dell'art. 154 contempla la disciplina relativa al personale dirigente dello Stato e agli ufficiali superiori (colonnelli e generali delle Forze armate e dei Corpi di polizia). Per tutti costoro, in modo analogo a quanto disposto per i magistrati, l'equo indennizzo è sempre pari a due volte lo stipendio del dirigente generale.
Se si ha riguardo anche a tale previsione, risulta ancor più evidente lo scopo che si è perseguito con la particolare disciplina. Si è inteso cioè assicurare un trattamento nel suo complesso privilegiato rispetto all'esterno e uniforme invece all'interno di categorie caratterizzate per un verso da una posizione di particolare rilievo nell'organizzazione statuale e per l'altro dall'elevato grado di omogeneità e quindi dalla pari dignità dei rispettivi appartenenti.
Detti criteri risultano attagliarsi in modo particolare ai magistrati, i quali, secondo il dettato dell'art. 107, terzo comma, della Costituzione, si distinguono fra loro soltanto per diversità di funzioni.
Nell'ambito di tali valutazioni, non si presta quindi a censure una normativa che dispone un trattamento nel suo complesso più vantaggioso, sulla base della particolare posizione e dello speciale statuto riconosciuti alla magistratura; che non distingue il trattamento tra i diversi componenti in ragione della pari dignità di tutti gli appartenenti all'ordine giudiziario; che trova peraltro puntuali corrispondenze nella disciplina prevista per corpi professionali provvisti anch'essi, come i magistrati, di un loro statuto particolare.
Del resto, la norma in esame ha già superato il vaglio dell'applicazione da parte della giurisdizione amministrativa, la quale si è limitata a statuire che l'equo indennizzo concesso ai magistrati deve essere determinato sulla base dello stipendio del consigliere di cassazione, quale risulta dall'applicazione della legge 6 agosto 1984, n. 425, e quindi con il computo dell'anzianità pregressa minima, necessaria e sufficiente per l'accesso alla detta posizione (Cons. Stato, Sez. IV, 20 maggio 1987).
3. - Il richiamo agli artt. 32 e 38 della Costituzione risulta a sua volta di scarsa pertinenza.
Come osserva puntualmente l'Avvocatura generale dello Stato, alla tutela del diritto dei singoli alla salute (art. 32) e all'assicurazione di mezzi adeguati alle esigenze di vita in casi di infortunio, malattia o invalidità (art. 38) l'ordinamento provvede con gli appositi sistemi dell'assistenza sanitaria e della previdenza. Il beneficio previsto dall'impugnato art. 154 ha invece natura indennitaria e risponde ad una funzione soltanto riparatoria.
Come in riferimento all'art. 3 della Costituzione, così in relazione agli artt. 32 e 38, la sollevata questione va dunque dichiarata non fondata.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
Dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 154, quarto comma, della legge 11 luglio 1980, n. 312 (Nuovo assetto retributivo-funzionale del personale civile e militare dello Stato), sollevata, in riferimento agli artt. 3, 32 e 38 della Costituzione, dal Tribunale amministrativo regionale per la Lombardia - Sezione staccata di Brescia, con l'ordinanza in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 17 gennaio 1991.
Giovanni CONSO - Ettore GALLO - Aldo CORASANITI - Giuseppe BORZELLINO - Francesco GRECO - Gabriele PESCATORE - Ugo SPAGNOLI - Francesco Paolo CASAVOLA - Antonio BALDASSARRE - Vincenzo CAIANIELLO - Mauro FERRI - Luigi MENGONI - Enzo CHELI - Renato GRANATA.
Depositata in cancelleria il 24 gennaio 1991.