Sentenza n. 431 del 1990

 CONSULTA ONLINE 

 

SENTENZA N.431

 

ANNO 1990

 

 

REPUBBLICA ITALIANA

 

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

 

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

composta dai signori Giudici:

 

Dott. Francesco SAJA, Presidente

 

Prof. Giovanni CONSO

 

Prof. Ettore GALLO

 

Dott. Aldo CORASANITI

 

Prof. Giuseppe BORZELLINO

 

Dott. Francesco GRECO

 

Prof. Renato DELL'ANDRO

 

Prof. Gabriele PESCATORE

 

Avv. Ugo SPAGNOLI

 

Prof. Francesco Paolo CASAVOLA

 

Prof. Antonio BALDASSARRE

 

Prof. Vincenzo CAIANIELLO

 

Avv. Mauro FERRI

 

Prof. Luigi MENGONI

 

Prof. Enzo CHELI

 

ha pronunciato la seguente

 

SENTENZA

 

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 425 del codice di procedura penale, promosso con ordinanza emessa il 6 febbraio 1990 dal G.I.P. presso il Tribunale di Catanzaro nel procedimento penale a carico di Figliano Antonio, iscritta al n. 309 del registro ordinanze 1990 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 22, prima serie speciale, dell'anno 1990.

 

Visto l'atto di intervento del Presidente del consiglio dei ministri;

 

udito nella camera di consiglio dell'11 luglio 1990 il Giudice relatore Ettore Gallo.

 

Ritenuto in fatto

 

1.- Con ordinanza 6 febbraio 1990 il Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Catanzaro sollevava questione di legittimità costituzionale dell'art. 425 del codice di procedura penale per asserito contrasto con gli artt. 3 e 24 della Costituzione.

 

Esponeva il Giudice nell'ordinanza che il pubblico ministero, con atto 28 dicembre 1989, aveva chiesto decreto di citazione a giudizio di un imputato di truffa aggravata à sensi dell'art. 640, secondo comma, codice penale, per avere ottenuto, con artifizi e raggiri, inducendo in errore i dirigenti della sede di Catanzaro della B.N.L., un prestito agrario di Lit. 35 milioni.

 

E fatto si era verificato nell'agosto 1983, ma - riferisce l'ordinanza - nessun atto di sorta era stato compiuto da allora, benchè il fascicolo processuale fosse stato formato presso l'autorità giudiziaria subito dopo il fatto. Il primo atto di esercizio dell'azione penale era, perciò, rappresentato dalla detta richiesta del pubblico ministero, sicchè oltre sei armi erano trascorsi fra la commissione del fatto e il promovimento dell'azione penale senza che fosse intervenuto alcun atto interruttivo della prescrizione del reato. La quale, però, ai sensi dell'art. 157 n. 3 cod. pen. si matura .in dieci anni se si tratta di delitto per cui la legge stabilisce la reclusione non inferiore ad anni cinque: e tale é sicuramente la pena prevista per il delitto di truffa ai danni di ente pubblico per cui é causa, punibile con la reclusione da uno a cinque anni.

 

Ritiene, tuttavia, il giudice che, essendo scarsamente rilevanti i precedenti penali dell'imputato, e dato il tempo trascorso e le modalità operative del fatto (che ha potuto avere successo anche per l'indifferenza dell'Istituto in ordine ai previ opportuni accertamenti), all'imputato potrebbero essere riconosciute attenuanti generiche, equivalenti alla contestata aggravante: il che determinerebbe la prescrizione del reato.

 

Senonchè rileva il Giudice che nè la lettera nè lo spirito degli artt. 425 e 429 del codice di procedura penale consentirebbero di concepire il rinvio a giudizio in termini di prognosi colpevolistica, come accade, invece, nell'ambito delle disposizioni transitorie. L'art. 256 di queste ultime, infatti, prevede espressamente il rinvio a giudizio soltanto quando l'autorità giudiziaria ritiene "che gli elementi di prova raccolti siano sufficienti a determinare, all'esito dell'istruttoria dibattimentale, la condanna dell'imputato": Mentre poi il successivo art. 257 consente al giudice di "tenere conto delle diminuzioni di pena derivanti da circostanze attenuanti e applicare le disposizioni dell'art. 69 del codice penale", "ai fini della pronuncia delle sentenze istruttorio di proscioglimento ovvero di quelle previste dall'art. 421 del codice abrogato".

 

Secondo l'ordinanza, ciò determinerebbe ingiustificato disparità di trattamento, uguale essendo la ratio che é alla base di ambo i procedimenti, sostanziata da esigenza di economia processuale, essendo costoso e defatigatorio disporre un giudizio che sicuramente si risolverà a favore del giudicabile. Il che, peraltro, si porrebbe altresì in contrasto con l'art. 24 della Costituzione perchè impedisce alla difesa di conseguire il proscioglimento istruttorio.

 

2.- É intervenuto nel giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato dall'Avvocatura generale dello Stato, che ha sostenuto l'inammissibilità della questione o, in subordine, la sua infondatezza.

 

Considerato in diritto

 

1 -Secondo il Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Catanzaro, sussisterebbe ingiustificata disparità di trattamento fra la situazione di cui all'art. 425 cod.proc.pen., che non consente al giudice dell'udienza preliminare di riconoscere la sussistenza di circostanze attenuanti, nè di procedere al giudizio di comparazione fra circostanze, ai fini della declaratoria di una causa di estinzione del reato, e quella di cui al regime previsto negli artt 256 e 257 Disposizioni Transitorie.

 

Per queste ultime, infatti, è espressamente previsto che, ai fini della pronunzia delle sentenze istruttorie di proscioglimento ovvero di quelle di cui all'art. 421 del codice abrogato, il giudice possa tenere conto delle diminuzioni di pena derivanti da circostanze attenuanti e applicare le disposizioni dell'art. 69 del codice penale.

 

Secondo il giudice a quo la violazione dell'art. 3 Cost. deriverebbe dal fatto che alla base di ambo i procedimenti sta la stessa ratio, rappresentata dall'esigenza di economia processuale secondo cui il dibattimento va liberato da processi < inutilmente costosi e giuridicamente defatigatori>, quando è prevedibile un esito processualmente o sostanzialmente favorevole al giudicabile.

 

Il che poi comporterebbe anche la violazione dell'art. 24 della Costituzione perchè si preclude alla difesa la possibilità di ottenere il proscioglimento istruttorio.

 

L'Avvocatura generale dello Stato, intervenuta nel giudizio a rappresentare il Presidente del Consiglio dei ministri, ha chiesto che la questione sia dichiarata inammissibile o, in subordine, infondata.

 

2.-L'eccezione di inammissibilità prospettata dall'Avvocatura generale dello Stato non può essere accolta. Essa è stata avanzata evidentemente nell'opinione che il delitto di truffa fosse circostanziato da aggravante comune, nel qual caso-secondo l'Avvocatura-essendosi comunque il reato estinto, sarebbe venuta a mancare la rilevanza della questione.

 

Ma-come s'è visto-l'aggravante contestata è, invece, quella specifica del secondo comma dell'art. 640 cod. pen., la cui pena edittale non è inferiore ad anni cinque di reclusione, sicchè il reato, salvo l'eliminazione dell'aggravante, si prescrive in dieci anni.

 

Nel merito la questione non è fondata É esatto che - come osserva il Giudice rimettente - esiste nello spirito del nuovo processo, anche nelle sue norme transitorie, un intento di semplificazione che tende ad escludere dal dibattimento tutto ciò che può trovare definizione nell'udienza preliminare o in taluni procedimenti speciali: al che sicuramente sono ispirate le disposizioni di cui agli artt. 256 e 257 delle disposizioni transitorie e 425 cod. proc. pen.

 

Ma la ratio che giustifica il diverso trattamento, in ordine al potere del giudice dell'udienza preliminare di riconoscere circostanze attenuanti e di procedere a giudizio di bilanciamento, a seconda che trattasi di situazione transitoria o di regime ordinario, ha natura diversa.

 

Appare evidente che il legislatore ha tenuto conto del fatto che nella situazione transitoria il giudice è di norma in possesso di un fascicolo processuale contenente gli atti dell'istruttoria, sia essa sommaria che formale, condotta sotto l'imperio del codice abrogato. Egli, pertanto, si trova in condizione di esaminare un vero e proprio complesso probatorio che gli consente di riconoscere agevolmente la sussistenza di circostanze attenuanti e di acquisire elementi utili all'instaurazione di un giudizio di comparazione.

 

Di qui l'esplicita autorizzazione al giudice a procedere nei sensi di cui all'art. 257 delle disposizioni transitorie.

 

Ben diversa, invece, è la situazione nella quale versa il giudice dell'udienza preliminare in regime codicistico. Quando il pubblico ministero deposita nella cancelleria del giudice la richiesta di rinvio a giudizio, egli vi accompagna altresì il fascicolo che di norma contiene soltanto la notizia di reato e la documentazione relativa alle indagini da lui espletate (art. 416 cod. proc. pen.). Indagini dirette ad acquisire quelle fonti di prova che il pubblico ministero indica nella sua richiesta (art. 417, lett. c), e sulla base delle quali poi le parti potranno promuovere la raccolta della prova nel dibattimento, presentando liste di testi e di periti su specifiche circostanze e indicando prove contrarie, negli atti preliminari (art. 468 cod. proc. pen.).

 

Salvo il caso degli incidenti probatori, che tuttavia riguardano particolari aspetti non sempre idonei a delineare la fisionomia generale dei fatti, non esistono, dunque, prove nell'udienza preliminare nè significativo accertamento dei fatti, che si profileranno soltanto al dibattimento, sicchè è perfettamente giustificato che in quella fase il legislatore non abbia potuto autorizzare il giudice a tenere conto di quanto, invece, è previsto nell'art. 257 delle disposizioni di attuazione.

 

Certo, esiste la possibilità che il giudice si avvalga della procedura di cui all'art. 422 cod. proc. pen., ma si tratta di un'ipotesi supplementare che presume la sussistenza agli atti di elementi tali da < rendere necessario acquisire ulteriori informazioni ai fini della decisione>. Ipotesi che spetta al giudice di merito verificare, e che comunque è estranea alla prospettazione della specie sul piano della rilevanza.

 

Di regola, il giudice dell'udienza preliminare non dispone degli elementi necessari a riconoscere circostanze attenuanti e procedere all'applicazione delle disposizioni di cui all'art. 69 cod. pen., sicchè non sussiste la violazione dell'art. 3 della Costituzione; nè conseguentemente dell'art. 24, giacchè i diritti della difesa devono rapportarsi-come bene rileva l'Avvocatura generale-all'ambito proprio di ciascuna fase del procedimento.

 

PER QUESTI MOTIVI

 

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 425 cod. proc. pen. in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione, sollevata dal Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Catanzaro con ordinanza 6 febbraio 1990.

 

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 24/09/90.

 

Francesco SAJA, PRESIDENTE

 

Ettore GALLO, REDATTORE

 

Depositata in cancelleria il 03/10/90.