ORDINANZA N.355
ANNO 1990
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori Giudici:
Dott. Francesco SAJA, Presidente
Prof. Giovanni CONSO
Prof. Ettore GALLO
Dott. Aldo CORASANITI
Prof. Giuseppe BORZELLINO
Dott. Francesco GRECO
Prof. Renato DELL'ANDRO
Prof. Gabriele PESCATORE
Avv. Ugo SPAGNOLI
Prof. Francesco Paolo CASAVOLA
Prof. Antonio BALDASSARRE
Prof. Vincenzo CAIANIELLO
Avv. Mauro FERRI
Prof. Enzo CHELI
ha pronunciato la seguente
ORDINANZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 248 delle norme d'attuazione, di coordinamento e transitorie del codice di procedura penale del 1988 (testo approvato con decreto legislativo 28 luglio 1989, n. 271) in relazione all'art. 444 stesso codice, promosso con ordinanza emessa il 20 dicembre 1989 dal Tribunale di Torino nel procedimento penale a carico di Bellosio Luca ed altro, iscritta al n. 147 del registro ordinanze 1990 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 14/1a s.s. dell'anno 1990.
Visto l'atto d'intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio del 13 giugno 1990 il Giudice relatore Renato Dell'Andro.
Ritenuto che, con ordinanza del 20 dicembre 1989, il Tribunale di Torino ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 25 e 97 Cost., questione di legittimità costituzionale dell'art. 248 delle norme d'attuazione, di coordinamento e transitorie del codice di procedura penale (testo approvato con il decreto legislativo 28 luglio 1989, n. 271) nella parte in cui non consente, mediante la previsione d'un apposito termine, l'applicazione della pena su richiesta delle parti, a norma dell'art. 444 del codice di procedura penale, anche ai procedimenti per i quali siano state compiute le formalità d'apertura del dibattimento di primo grado;
che, invero, secondo il Tribunale di Torino, l'istituto dell'applicazione della pena su richiesta delle parti, oltre ad esplicare efficacia processuale, comporta anche rilevanti conseguenze sostanziali (in ordine alla quantificazione della pena, all'esclusione dell'applicazione di pene accessorie, alla possibilità d'estinzione del reato) sicchè si viene a determinare un'irrazionale disparità di trattamento tra gli imputati, fondata esclusivamente sulla circostanza, del tutto occasionale, del compimento delle formalità d'apertura del dibattimento;
che, inoltre, a parere del giudice a quo, il principio d'irretroattività della legge penale di cui all'art. 25, secondo comma, Cost., dovrebbe essere integrato da quello dell'applicazione della legge più favorevole al reo di cui all'art. 2 del codice penale, il quale avrebbe rilevanza costituzionale, nel senso che potrebbe essere derogato solo da una norma rispondente ad un principio avente anch'esso rilevanza costituzionale;
che tale ultimo principio potrebbe individuarsi in quello del buon andamento dell'attività giudiziaria, garantito dall'art. 97 Cost., giacchè proprio ad esso si ispirano gli artt. 248 delle norme d'attuazione, di coordinamento e transitorie del codice di procedura penale e 444 del codice di procedura penale in quanto l'effetto deflattivo da loro originato persegue lo scopo di meglio utilizzare le risorse dell'apparato giudiziario;
che, pertanto, sempre a parere del giudice a quo, è irragionevole la mancata previsione, da parte dell'art. 248 citato, della possibilità di chiedere l'applicazione della pena su richiesta delle parti per i dibattimenti già iniziati alla data d'entrata in vigore del nuovo codice di procedura penale, poichè tale possibilità non solo eviterebbe la già evidenziata disparità di trattamento tra imputati ma rispetterebbe anche l'intento deflattivo al quale si ispira l'istituto in questione;
che nel giudizio è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall' Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata infondata;
che, a parere dell'Avvocatura, la finalità dell'istituto dell'applicazione della pena su richiesta delle parti è quella d'incentivare l'immediata definizione del processo, eliminando la fase dibattimentale e quella dell'appello, di modo che la riduzione della pena non rappresenta un beneficio bensì una contropartita-premio per la rinuncia al rito ordinario;
che, di conseguenza, il termine per avanzare la richiesta d'applicazione della pena su richiesta delle parti è stato non illogicamente individuato nella dichiarazione d'apertura del dibattimento di primo grado, superata la quale non potrebbe più realizzarsi la funzione dell'istituto e verrebbe meno il collegamento fra incentivo e rito differenziato, sicchè la prospettata diversità di trattamento trova razionale giustificazione nella diversità delle situazioni processuali.
Considerato che gli argomenti svolti da questa Corte nella sentenza n. 277 del 1990- relativa all'impossibilità (a norma dell'art. 247 del medesimo testo approvato con il decreto legislativo n. 271 del 1989) di chiedere il giudizio abbreviato quando siano già state compiute le formalità d'apertura del dibattimento-valgono anche per l'analoga questione qui trattata, relativa alla possibilità di richiedere l'applicazione della pena su richiesta delle parti soltanto prima del compimento delle formalità d'apertura del dibattimento di primo grado;
che, in particolare, nella citata sentenza, la Corte ha fra l'altro sottolineato-con osservazione valida anche in ordine alla disposizione oggetto del presente giudizio-l'<inscindibile unità finalistica> della disposizione in quella sede impugnata, osservando che la riduzione della pena in tanto è consentita in quanto è diretta a sollecitare la richiesta, da parte dell'imputato, dell'attivazione d'un istituto inteso ad assicurare la rapida definizione del maggior numero di processi. Divenuto, invece, impossibile, con l'apertura del dibattimento, raggiungere le finalità che il legislatore si prefigge, diventa conseguentemente e razionalmente impossibile all'imputato realizzare il c.d. <diritto> alla riduzione della pena;
che questo essendo lo scopo degli istituti del giudizio abbreviato e dell'applicazione della pena su richiesta delle parti (esclusione della fase dibattimentale) è del tutto razionale che, per i procedimenti in corso all'entrata in vigore del nuovo codice di procedura penale, tali istituti siano stati resi applicabili soltanto quando il loro scopo sia interamente perseguibile;
che la precitata sentenza ha altresì aggiunto - con considerazione anch'essa estensibile all'istituto dell'applicazione della pena su richiesta delle parti-che irrazionale sarebbe semmai l'applicabilità del giudizio abbreviato dopo l'apertura del dibattimento; giacchè in tal caso i benefici concessi all'imputato non sarebbero più giustificati nè dallo scopo (ormai impossibile) d'eliminare la fase dibattimentale nè dal rischio assunto dall'imputato (il quale si troverebbe nella comoda situazione di decidere dopo che il pubblico ministero ha già offerto le sue prove e comunque dopo aver valutato l'andamento del dibattimento stesso);
che non è producente il confronto fra imputati per i quali il dibattimento sia o non sia stato ancora aperto, proprio perchè si tratta di situazioni oggettivamente diverse;
che nella medesima sentenza n. 277 del 1990 si è altresì osservato che il principio dell'applicazione della legge più favorevole all'imputato, fissato dall'arte 2 del codice penale, opera soltanto quando vi sia stato un mutamento, favorevole all'imputato, nella valutazione sociale del fatto tipico oggetto del giudizio, mentre si è fuori dell'ambito d'applicabilità del principio stesso nelle ipotesi in cui non si è verificato un mutamento nella valutazione sociale rispetto al fatto tipico incriminato;
che, analogamente a quanto osservato nella predetta sentenza in ordine all'istituto del giudizio abbreviato, anche nel caso d'applicazione della pena su richiesta delle parti, non è mutata la valutazione sociale negativa in ordine ai fatti oggetto del processo penale, dal momento che la possibilità di fruire della riduzione della pena e di altri benefici vale soltanto a stimolare, nei limiti della sua esperibilità, la richiesta, da parte dell'imputato, del procedimento speciale in questione;
che, per le stesse ragioni, analoghe questioni di legittimità costituzionale dell'art . 248 - nella parte in cui non consente l 'applicazione della pena su richiesta delle parti, a norma dell'art. 444 del codice di procedura penale, anche ai procedimenti per i quali siano state compiute le formalità d'apertura del dibattimento di primo grado - sollevate, in riferimento agli artt. 3 e 24 Cost., dal Pretore di Breno con ordinanza del 30 novembre 1988 (Reg. ord. n. 57/1990) e dal Pretore di Milazzo con ordinanza del 27 ottobre 1989 (reg. ord. n. 67/1990) sono già state dichiarate manifestamente infondate da questa Corte con l'ordinanza n. 320 del 1990;
che, di conseguenza, anche la questione di legittimità costituzionale sollevata con l'ordinanza in epigrafe va dichiarata manifestamente infondata.
Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87 e 9, secondo comma, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell'art. 248 delle norme d'attuazione, di coordinamento e transitorie del codice di procedura penale del 1988 (testo approvato con il decreto legislativo 28 luglio 1989, n. 271) sollevata, in riferimento agli artt. 3, 25 e 97 Cost., dal Tribunale di Torino con l'ordinanza indicata in epigrafe.
Così deciso in Roma, in camera di consiglio, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 11/07/90.
Francesco SAJA, PRESIDENTE
Renato DELL'ANDRO, REDATTORE
Depositata in cancelleria il 20/07/90.