Ordinanza n. 353 del 1990

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ORDINANZA N.353

ANNO 1990

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori Giudici:

Dott. Francesco SAJA, Presidente

Prof. Giovanni CONSO

Prof. Ettore GALLO

Dott. Aldo CORASANITI

Prof. Giuseppe BORZELLINO

Dott. Francesco GRECO

Prof. Renato DELL'ANDRO

Prof. Gabriele PESCATORE

Avv. Ugo SPAGNOLI

Prof. Francesco Paolo CASAVOLA

Prof. Antonio BALDASSARRE

Prof. Vincenzo CAIANIELLO

Avv. Mauro FERRI

Prof. Enzo CHELI

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

nel giudizio di legittimità costituzionale del combinato disposto degli artt. 563, primo e terzo comma, 447, primo comma, 448, primo comma e 562 codice di procedura penale in relazione agli artt. 132 e 133 del codice penale; combinato disposto degli artt. 563, primo e terzo comma, 444, primo e secondo comma, 445, 447, primo comma e 448, primo e secondo comma, codice di procedura penale; combinato disposto degli artt. 555, primo comma, lettera e, e 563, secondo e quarto comma, codice di procedura penale, promosso con ordinanza emessa il 29 gennaio 1990 dal G.I.P. presso la Pretura di Verbania nel procedimento penale a carico di Perazzi Gianni, iscritta al n. 194 del registro ordinanze 1990 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 18, prima serie speciale, dell'anno 1990.

Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 13 giugno 1990 il Giudice relatore Ettore Gallo.

Ritenuto che il Giudice per le indagini preliminari presso la Pretura circondariale di Verbania ha sollevato, con ordinanza 29 gennaio 1990, questione di legittimità costituzionale degli artt. 563 primo e terzo comma, 444 primo e secondo comma, 445, 447 primo comma, 448 primo e secondo comma, 555 primo comma, lett. e, e 563 secondo e quarto comma, codice procedura penale 1988, in riferimento agli artt. 3 primo comma, 13 primo e secondo comma, 24, 25 primo comma, 27 primo e secondo comma, 101 secondo comma, 102 primo comma, 111 primo e secondo comma, 112 della Costituzione;

che, secondo quanto è riferito nell'ordinanza, il giudice avrebbe dovuto applicare la sanzione di Lit. 500 mila di multa, in sostituzione della pena di giorni venti di reclusione, ad un imputato del reato di cui all'art. 612 secondo comma, codice penale (minaccia grave) che l'aveva richiesta con il consenso del pubblico ministero;

che, però, il giudice, pur trovando corretto il procedimento mediante cui le parti erano pervenute a richiedere la pena entro i detti limiti, senza esprimere alcun giudizio sulla sua congruità lamenta che le norme applicabili non consentono al giudice alcun sindacato circa la legalità della pena e circa la sua congruità, secondo i criteri dettati dagli artt. 132 e 133 cod. pen., nè consentono almeno, in tali casi, la trasformazione del rito ex art. 562 cod. proc. pen.;

che una siffatta situazione comprometterebbe altresì l'esercizio della giurisdizione, in quanto non sarebbe nemmeno consentito l'accertamento della responsabilità, nè il proscioglimento fuori dei casi di cui all'art. 129 detto codice, sì che ne resterebbe sacrificato anche il principio di presunzione di non colpevolezza, nonchè la necessaria funzione rieducativa della pena;

che se poi la richiesta di applicazione concordata dalle parti riguarda una pena detentiva, l'imputato finirebbe per disporre della propria libertà, che è diritto indisponibile garantito dall'art. 13 della Costituzione;

che le nuove disposizioni avrebbero anche reso più angusta là riserva di giurisdizione di cui all'art. 102, primo comma, della Costituzione, che sotto il codice previgente era invece estesa anche al pubblico ministero;

che non potrebbe ritenersi <motivazione> quella prevista nell'art. 444 cod. proc. pen. in discorso, mentre poi la concessione di incentivi soltanto per chi rinunzia al giudizio ordinario violerebbe il diritto di difesa;

che, infine, significherebbe distogliere l'imputato dal giudice naturale consentirgli di scegliere a quale giudice affidare l'applicazione della pena su richiesta;

che si è costituito nel giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato dall'Avvocatura generale dello Stato, la quale ha opposto l'inammissibilità della questione concernente l'art. 13 della Costituzione perchè la pena di specie è pecuniaria, sia pure in quanto sanzione sostitutiva, e l'infondatezza di ogni altra questione.

Considerato che, per quanto si riferisce all'illegalità della pena e alla mancata previsione, per tale ipotesi, della trasformazione del rito, e così pure per quanto concerne la mancata previsione del potere del giudice di sindacare la congruità della pena proposta, è assolutamente carente nell'ordinanza l'esame della rilevanza e ogni inerente motivazione;

che, infatti, il giudice non definisce illegale o incongrua nella specie nè la pena principale nè quella proposta in sostituzione, nè comunque spiega per quali ragioni tali dovrebbero essere considerate, in guisa che la questione sollevata assume carattere di problema astratto proposto su di un piano del tutto teorico; tanto più che non è desumibile ex re ipsa nè l'uno nè l'altro vizio, non essendo di per se stessa la pena proposta esclusa dalla legge per specie e per quantità (ipotesi d'illegalità) nè essendo manifestamente incongrua, visto che nonostante la tenue entità del reato (fra i minori previsti dal codice), e pur non risultando dall'ordinanza l'entità del fatto (ipotesi dell'incongruità), la pena tuttavia non è stata nemmeno proposta nel minimo;

che, per quanto concerne la riserva di giurisdizione (art. 102, primo comma della Costituzione), non deve stupire che sotto la vigenza del codice di procedura penale del 1988 essa non possa riguardare il pubblico ministero, dato che l'attuale codice ha chiaramente attribuito a questi ruolo e qualità di parte;

che nemmeno è ravvisabile alcuna violazione del principio del giudice naturale per il solo fatto che l'imputato possa richiedere l'applicazione della pena nell'una o nell'altra fase fino alla dichiarazione di apertura del dibattimento, trattandosi soltanto della previsione di un termine ultimo ed essendo ovvio che in ogni fase intercorrente l'imputato sia abilitato ad avanzare la richiesta, senza che ciò significhi sottrazione al giudice naturale, giacchè è pur sempre la legge che precostituisce il giudice competente ad applicare la pena nelle varie fasi durante la pendenza del termine;

che nemmeno può essere accolta l'inammissibilità opposta dall'Avvocatura generale alla questione riguardante l'art. 13 della Costituzione, sotto il riflesso che la sanzione sostitutiva proposta ha carattere pecuniario. Ai sensi , infatti, dell'art.102 cod. pen. esiste sempre la possibilità che il problema della libertà personale si riproponga, in quanto le pene pecuniarie non eseguite per insolvibilità si convertono pur sempre in istituti limitativi della libertà personale, quali la libertà controllata o il lavoro sostitutivo (art. 102 cod. pen.); e se poi queste sanzioni dovessero non essere osservate, ritorna addirittura la vera e propria pena detentiva (art. 108 cod. pen.);

che, comunque, l'ora detta questione, e tutte le residue sollevate dall'ordinanza, sono già state esaminate dalla citata sentenza 26 giugno 1990 n. 313 che le ha dichiarate non fondate, nè l'ordinanza ha prospettato ragioni o profili nuovi che inducano a discostarsi da quella decisione.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, secondo comma, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale;

a) dichiara la manifesta inammissibilità, della questione di legittimità costituzionale degli artt. 563, primo e terzo comma, 444, primo e secondo comma, 445, 447 primo comma, 448, primo e secondo comma, 555 primo comma, lett. e, e 563, secondo e quarto comma, codice procedura penale 1988, in riferimento agli artt. 101, comma secondo, e 27, comma terzo, della Costituzione, sollevata dal Giudice delle indagini preliminari presso la Pretura circondariale di Verbania con ordinanza 29 gennaio 1990;

b) dichiara la manifesta infondatezza delle questioni di legittimità costituzionale delle norme predette sollevate dallo stesso giudice con la medesima ordinanza in riferimento agli artt. 3, primo comma, 13, primo e secondo comma, 24, 25, primo comma, 102, primo comma, 111, primo e secondo comma, e 112 della Costituzione.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 11/07/90.

Francesco SAJA, PRESIDENTE

Ettore GALLO, REDATTORE

Depositata in cancelleria il 20/07/90.