Ordinanza n. 203 del 1990

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ORDINANZA N.203

 

ANNO 1990

 

 

REPUBBLICA ITALIANA

 

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

 

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

composta dai signori Giudici:

 

Prof. Francesco SAJA, Presidente

 

Prof. Giovanni CONSO

 

Prof. Ettore GALLO

 

Dott. Aldo CORASANITI

 

Dott. Francesco GRECO

 

Prof. Renato DELL'ANDRO

 

Prof. Gabriele PESCATORE

 

Avv. Ugo SPAGNOLI

 

Prof. Francesco Paolo CASAVOLA

 

Prof. Antonio BALDASSARRE

 

Prof. Vincenzo CAIANIELLO

 

Avv. Mauro FERRI

 

Prof. Luigi MENGONI

 

Prof. Enzo CHELI

 

ha pronunciato la seguente

 

ORDINANZA

 

nei giudizi di legittimità costituzionale dell'art. 8, secondo comma, della legge 15 dicembre 1972, n. 772 (Norme per il riconoscimento dell'obiezione di coscienza) così come modificata dalla sent. n. 409/89 della Corte costituzionale in relazione all'art. 28 della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale) promossi con tre ordinanze emesse il 16 novembre 1989 dal Tribunale militare di Torino, iscritte ai nn. 2, 3 e 4 del registro ordinanze 1990 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 3/1a s.s. dell'anno 1990.

 

Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

 

udito nella camera di consiglio del 7 marzo 1990 il Giudice relatore Renato Dell'Andro.

 

Ritenuto che questa Corte con sentenza n. 409 del 1989 ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 8, secondo comma, della legge 15 dicembre 1972, n. 772, come sostituito dall'art. 2 della legge 24 dicembre 1974, n. 695, < nella parte in cui determina la pena edittale ivi comminata nella misura minima di due anni anzichè in quella di sei mesi e nella misura massima di quattro anni anzichè in quella di due anni>;

 

che la Corte è pervenuta a tale declaratoria avendo accertato la manifesta irrazionalità della sanzione comminata, per il delitto di rifiuto del servizio militare per motivi di coscienza, dal citato art. 8, secondo comma, della legge n. 772 del 1972, in relazione alla sanzione prevista per il delitto di mancanza alla chiamata sanzionato dall'art. 151 del codice penale militare di pace;

 

che, invero, la citata sentenza n. 409/1989 ha rilevato che i comportamenti previsti dalle due ipotesi criminose ledono, con modalità oggettive analoghe, lo stesso bene giuridico (l'interesse alla regolare incorporazione degli obbligati al servizio di leva nell'organizzazione militare) e che è identico il rimprovero di colpevolezza che si muove ai soggetti attivi dei due delitti e che pertanto appariva sproporzionata, arbitraria ed irrazionale la maggior pena comminata dal citato art. 8, secondo comma, della legge n. 772 del 1972 unicamente in ragione dell'esistenza di motivi di coscienza dedotti a giustificazione del comportamento tenuto;

 

che, in particolare, la sentenza stessa ha dichiarato che il citato art. 8, secondo comma, della legge n. 772 del 1972 aveva irrazionalmente contraddetto la valutazione già operata dal legislatore < in via generale e senza tener tipicamente conto dei motivi dell'azione criminosa> con l'art.151 del codice penale militare di pace.

 

Ritenuto che con tre ordinanze, d'identico contenuto (Reg. ord. nn. da 2 a 4/1990) emesse il 16 novembre 1989, il Tribunale militare di Torino ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, primo comma, 25, secondo comma, 27, terzo comma, Cost. e 28 della legge 11 marzo 1953, n. 87, questione di legittimità costituzionale dell'art. 8, secondo comma, della legge 15 dicembre 1972 n. 772, < come modificato dalla sentenza n. 409/1989 della Corte costituzionale>, assumendo che-avendo la detta sentenza erroneamente ritenuto che i delitti di cui al citato art. 8, secondo comma, della legge n. 772 del 1972 ed all'art. 151 del codice penale militare di pace ledono lo stesso bene giuridico mentre in realtà sarebbero lesi beni giuridici diversi (semplice interesse alla regolare incorporazione degli obbligati al servizio di leva, nel caso dell'art. 151 del codice penale militare di pace ed interesse all'effettuazione del servizio di leva globalmente inteso, nel caso dell'art. 8, secondo comma, della legge n. 772 del 1972)-la norma impugnata contrasterebbe, da un lato, con l'art. 28 della legge 11 marzo 1953, n. 87 e con il principio di legalità e tassatività delle pene, di cui all'art. 25, secondo comma, Cost. (in quanto la citata sentenza n. 409/1989 avrebbe modificato una norma penale, sostituendosi al legislatore nella scelta tra più soluzioni possibili) e, da un altro lato, contrasterebbe sia con l'art. 27, terzo comma, Cost. (poichè la sanzione ora applicabile all'ipotesi di cui all'art. 8, secondo comma, citato non sarebbe proporzionata al disvalore del fatto illecito) sia con l'art. 3 Cost. (poichè si sarebbe determinata, da una parte, un'irrazionale equiparazione sanzionatoria tra il delitto di rifiuto del servizio militare per motivi di coscienza e quello di mancanza alla chiamata e, dall'altra, un'ingiustificata disparità di trattamento del predetto delitto di rifiuto del servizio militare per motivi di coscienza rispetto a quelli di rifiuto del servizio militare non armato e di rifiuto del servizio civile sostitutivo di cui al primo comma dell'art. 8 citato ed a quello di disobbedienza di cui all'art. 173 del codice penale militare di pace);

 

che, nel giudizio introdotto dall'ordinanza di cui al n. 2 del registro ordinanze, è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, che ha chiesto che la questione sia dichiarata inammissibile o, comunque, non fondata.

 

Considerato che, per l'identità delle sollevate questioni, i relativi giudizi possono essere riuniti per essere contestualmente definiti;

 

che le censure formulate nelle ordinanze di rimessione sono, all'evidenza, solo formalmente indirizzate alla norma suindicata ma, nella sostanza, sono rivolte a sindacare le statuizioni adottate dalla Corte con la menzionata sentenza n. 409/1989;

 

che, pertanto, il meccanismo del giudizio incidentale di legittimità costituzionale risulta, nella specie, arbitrariamente attivato per esercitare, in forma surrettizia, un sindacato del merito di una decisione costituzionale di accoglimento;

 

che siffatto sindacato è assolutamente precluso dal sistema risultante dagli artt. 136, primo comma e 137, terzo comma, Cost. e 30, terzo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, i quali pongono il principio della non impugnabilità delle decisioni della Corte costituzionale;

 

che, invero, il fine cui mira la proposta impugnativa è soltanto quello d'una sostanziale elusione della forza cogente (ex art. 136 Cost.) della pronunciata declaratoria d'illegittimità costituzionale;

 

che, comunque, è appena il caso di ricordare che, come già esposto in narrativa e contrariamente a quanto ritenuto dal giudice a quo, la sentenza n. 409/1989 ha non già sostituito la pena ex art. 8, secondo comma, della legge n. 772 del 1972 bensì si è più semplicemente limitata a ricavare dal sistema creato dallo stesso legislatore la necessitata applicabilità della pena ex art. 151 del codice penale militare di pace;

 

che, di conseguenza, tutte le sollevate questioni vanno dichiarate manifestamente inammissibili.

 

Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n.87 e 9, secondo comma, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.

 

PER QUESTI MOTIVI

 

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

riuniti i giudizi,

 

dichiara manifestamente inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell'art. 8, secondo comma, della legge 15 dicembre 1972, n. 772 (Norme per il riconoscimento dell'obiezione di coscienza) come sollevata, in riferimento agli artt. 3, primo comma, 25, secondo comma, 27, terzo comma, Cost. e 28 della legge 11 marzo 1953, n. 87, con le ordinanze in epigrafe.

 

Così deciso in Roma, in camera di consiglio, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 04/04/90.

 

Francesco SAJA, PRESIDENTE

 

Renato DELL'ANDRO, REDATTORE

 

Depositata in cancelleria il 12/04/90.