SENTENZA N.490
ANNO 1989
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori Giudici:
Prof. Giovanni CONSO, Presidente
Prof. Ettore GALLO
Dott. Aldo CORASANITI
Prof. Giuseppe BORZELLINO
Dott. Francesco GRECO
Prof. Renato DELL'ANDRO
Prof. Gabriele PESCATORE
Avv. Ugo SPAGNOLI
Prof. Francesco Paolo CASAVOLA
Prof. Antonio BALDASSARRE
Prof. Vincenzo CAIANIELLO
Avv. Mauro FERRI
Prof. Luigi MENGONI
Prof. Enzo CHELI
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nei giudizi di legittimità costituzionale dell'art. 230, comma terzo, del codice penale militare di pace, promossi con le seguenti ordinanze: 1) ordinanza emessa il 10 gennaio 1989 dal Tribunale militare di Padova nel procedimento penale a carico di Solla Giovanni, iscritta al n. 234 del registro ordinanze 1989 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 20, prima serie speciale, dell'anno 1989;
2) ordinanza emessa il 31 gennaio 1989 dal Tribunale militare di Verona nel procedimento penale a carico di Fiore Franco, iscritta al n. 235 del registro ordinanze 1989 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 20, prima serie speciale, dell'anno 1989.
Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio del 4 ottobre 1989 il Giudice relatore Ettore Gallo.
Considerato in diritto
1. -Le due ordinanze prospettano la stessa questione con identiche argomentazioni e con riferimento almeno ad un parametro comune (art. 3 Costituzione). I procedimenti possono, pertanto, essere riuniti per essere definiti con unica sentenza.
2. -Il problema riguarda l'automaticità della pena accessoria, della < rimozione>, prevista in via generale, in relazione ad una certa gravita della pena principale inflitta, nell'art. 29 codice penale militare di pace, e specificamente poi comminata, indipendentemente dall'entità della pena irrogata, a seguito di condanna per determinati reati, e non soltanto militari (cfr. art. 33 n. 2 e 3 codice penale militare di pace): fra questi e anche il furto militare (art. 230 codice penale militare di pace) di cui alla fattispecie dei due casi in esame, come del resto il furto comune, anche semplice (art. 33 n. 2 codice penale militare di pace).
Secondo i giudici a quibus, un siffatto automatismo viola innanzitutto l'art. 3 della Costituzione perché determina un trattamento gravemente differenziato a danno dei militari rispetto agli impiegati civili dello Stato, per i quali, in situazioni analoghe, la Corte ha eliminato la < destituzione di diritto> con sentenza 12 ottobre 1988 n. 971.
Ma - secondo il Tribunale di Padova - esso automatismo contrasta altresì con l'art. 27, I e III comma, della Costituzione perché impedisce al giudice di avvalersi del suo potere discrezionale per adeguare il trattamento sanzionatorio alla concreta gravita dell'illecito: e ciò tanto al fine di adempiere al principio di proporzionalità quanto allo scopo di favorire la rieducazione del condannato.
L'Avvocatura, però, contrasta siffatti assunti, affermando che lo specifico dell'ordinamento militare, ispirato ad esigenze e ad assetti diversi da quello civile, non consentirebbe l'estensione del principio affermato nella citata sentenza di questa Corte per gli impiegati civili dello Stato.
Peraltro, poi, la sanzione accessoria, non essendo pena in senso proprio, avrebbe realtà ontologica cosi diversa dalla pena principale da non postulare le stesse garanzie.
3.-Proprio quest'ultima opinione non può essere accolta, in quanto, se fosse esatta, il problema sollevato nemmeno si porrebbe.
In realtà la pena accessoria, anche a prescindere dalla denominazione normativa, é vera e propria pena criminale, anche se a carattere interdittivo, (almeno limitatamente alle specie che incidono sulla libertà del cittadino) e come tale considerata dai Lavori preparatori (cfr. Relazione ministeriale progetto codice penale, lavori preparatori, V, l, p. 64); non esiste, pertanto, altro criterio di distinzione dalla pena principale se non appunto la sua astratta < complementarietà>. < Astratta> perché, in effetti, esistono invece rilevanti situazioni nelle quali la pena accessoria e virtualmente la sola ed unica residua risposta sanzionatoria al reato, dato che viene a scindersi l'apparente indissolubilità con la pena principale. Si allude all'ipotesi della sospensione condizionale, che incide sulla pena principale rendendola ineseguibile, ma non sulla pena accessoria (art. 166 codice penale), nonché a quella della liberazione condizionale che sottrae il condannato all'esecuzione della pena principale ma non lo libera dalla pena accessoria (come si argomenta dal silenzio degli art.li 176-177 codice penale). Altrettanto dicasi per l'indulto e la grazia, se il decreto non dispone diversamente (art. 174, I comma, codice penale). Del resto, a riprova di quanto radicata negli ordinamenti sia la consapevolezza dell'omologia fra le due specie di sanzioni, riferibili ad una stessa natura penale, va ricordato che il codice Zanardelli utilizzava talune delle attuali pene accessorie (come - ad esempio - l'interdizione dai pubblici uffici) come pene principali.
Quanto all'altro argomento dell'Avvocatura, esso non può essere assunto nell’estrema genericità in cui viene proposto. Parlare ancora di aree < completamente diverse nei loro assetti e nelle loro esigenze> quando si mettono a raffronto l'organizzazione militare e quella civile, e per lo meno imprudente. C'é il rischio, infatti, di scivolare verso desuete concezioni istituzionistiche dell'ordinamento militare, trascurando l'evoluzione che l'istituzione ha subito nell'ultimo trentennio, sottovalutando il principio di democrazia repubblicana che la Costituzione vi ha immesso (art. 52, ultima parte, Costituzione), e ignorando la generale tendenza al maggiore possibile avvicinamento dei diritti del cittadino militare a quelli del cittadino che tale non e.
Il che, tuttavia, non esclude che talune particolari situazioni, proprie dello specifico dell'una o dell'altra istituzione, effettivamente sussistano.
Esse, però, vanno esaminate caso per caso, nella razionalità dell'eventuale particolarità che le giustifichi, e non nel contesto di una presunta generale diversità delle due aree.
4.-In realtà, sul piano metodologico, il quesito si propone in termini diversi. Ciò che va considerata, infatti, é la natura delle due sanzioni che vengono poste a raffronto, visto che si chiede di estendere alla pena accessoria il principio che la Corte ha applicato alla < destituzione di diritto> di cui all'art. 85 a) del citato decreto presidenziale.
Ora, si é già visto che la pena accessoria, benché interdittiva, ha natura di vera e propria < pena criminale>; non cosi, invece, per la < destituzione di diritto> che la pubblica amministrazione doveva applicare agli impiegati civili dello Stato condannati per taluni reati. Si consideri che, proprio perché pena, soltanto il magistrato può applicare la prima, mentre la competenza ad infliggere la seconda e attribuita dal legislatore alla pubblica amministrazione. Basta già questo per ravvisare nella seconda una sanzione amministrativa, sia pure di carattere afflittivo - interdittivo, che rivela, specie dopo la sentenza n. 971 del 1988 della Corte che ha prescritto il previo procedimento, la sua manifesta natura disciplinare.
La giurisprudenza di questa Corte ha ripetutamente affermato che la sanzione amministrativa, quando non sia meramente risarcitoria o ripristinatoria o revocatoria, ha bensì carattere eterogeneo afflittivo, ma va tenuta assolutamente distinta dalla sanzione penale, soprattutto perché adempie a funzioni diverse. Ben é vero che la sanzione disciplinare ha caratteri e trattamento particolari nel campo delle sanzioni amministrative punitive, come dimostra la legge 24 novembre 1981, n. 689 (Modifiche al sistema penale) che, nell'ultimo inciso dell'art. 12, ha escluso le sanzioni disciplinari dall'applicazione di quei principi generali, largamente invece dettati per le altre sanzioni amministrative. Ed é proprio questa specie di jus singulare, che ha sempre regolato l'illecito disciplinare (come, del resto, quello finanziario- tributario; cfr. art. 39 della citata legge n. 689 del 1981), a giustificare l'adozione di una particolare previa garanzia processuale che questa Corte ha ritenuto di introdurre, con la più volte richiamata sentenza, nell'art. 85 a) del d.P.R. n. 3 del 1957.
Ma né talune apparenti affinità esteriori del procedimento disciplinare amministrativo, nè quelle analoghe adombrate dalle sanzioni disciplinari (derivanti soltanto dal comune carattere punitivo) possono mai fondare una comparazione con l'illecito e con le sanzioni penali, attesa la loro natura assolutamente diversa e le ben distinte funzioni cui adempiono i due settori.
Tanto meno, perciò, é ipotizzabile una specie di applicazione analogica al campo del diritto penale di ciò che questa Corte ha statuito in quello delle sanzioni amministrative, sia pure disciplinari.
5.-Va confermato, tuttavia, come più volte, del resto, é stato riconosciuto, che il problema esiste: esso resta, pero, nei termini già ventilati nelle precedenti sentenze, e non é nemmeno un problema che riguardi soltanto il diritto penale militare.
Come bene ha osservato l'Avvocatura generale, se un confronto é da instaurarsi, esso semmai andrebbe posto nei riguardi dell'analoga pena accessoria, prevista dal codice penale comune: l'interdizione perpetua dai pubblici uffici. Anche questa, infatti, come la rimozione, consegue in via generale a pene inflitte che superino un determinato limite (anni 5 di reclusione), ed é poi prevista in via specifica, indipendentemente dalla pena irrogata, per taluni più gravi delitti, come quelli di peculato o malversazione, previsti negli articoli da 314 a 317 codice penale.
Ora, si deve convenire che, dal diritto penale in genere, presunzioni e pene fisse de jure dovrebbero essere bandite. Specie dopo l'avvento della Costituzione, sia l'art. 3 che il primo e il terzo comma dell'art. 27 comportano effettivamente che la pena sia proporzionata all'entità del fatto commesso e alla personalità dell'autore, e che consenta la rieducazione del condannato: ed é ovvio che soltanto il giudice può compiere questo dosaggio, valutando le circostanze tutte del fatto e la personalità del soggetto agente.
E' possibile che l'introduzione di quegli strumenti illiberali nascondesse, in realtà, una certa sfiducia del legislatore nei confronti del potere discrezionale del giudice: anche se poi contraddittoriamente, in altre stagioni, si é ecceduto in senso opposto, ponendo a carico del giudice, mediante un rilevante allargamento del potere discrezionale, operazioni di cui il legislatore avrebbe dovuto assumersi la responsabilità procedendo alla riforma della parte speciale del codice, o almeno di talune fattispecie che più urgentemente la richiedevano (cfr. la riforma n. 220 del 1974).
Ciononostante la difficoltà che questa Corte ha sempre opposto é quella di un intervento settoriale, al di fuori di una riforma legislativa organica, mediato da una giurisprudenza costituzionale che non ha poteri per l'articolazione di provvedimenti conseguenti e coordinatori indispensabili, e per di più in un diritto penale speciale, qual e quello militare, che lascerebbe inalterato il corrispondente settore del diritto penale comune di cui e complementare. Perciò la Corte ha sempre rimandato al legislatore, che ha già in corso una riforma del codice penale militare di pace, e che ha pure attivato finalmente lo studio di una legge- delega per la riforma del codice penale comune. Anche se si ipotizzasse un adeguamento, ad opera della giurisprudenza costituzionale, del III comma dell'art. 230 codice penale militare di pace al temperamento che il secondo inciso del II comma dell'art. 314 codice penale introduce al rigore della perpetuità dell'interdizione dai pubblici uffici, il problema resterebbe tuttavia insoluto. L'art. 314, infatti, non esclude la pena accessoria quando venga inflitta una pena principale inferiore ai tre anni di reclusione, ma si limita a prevedere una pena accessoria più mite, qual é appunto l'interdizione temporanea dai pubblici uffici.
Il codice penale militare, però, non conosce una rimozione temporanea (l'art. 29 la definisce, infatti, esclusivamente < perpetua>), mentre la corrispondente disposizione generale del codice penale comune (che, per coincidenza, porta lo stesso numero 29) distingue l'interdizione dai pubblici uffici in < perpetua> e < temporanea>.
D'altra parte, ogni altra soluzione, quale la possibilità di disporre a discrezione della pena accessoria fino ad escluderla, se del caso, oppure a graduarla per adeguarla al caso concreto in riferimento ai principi costituzionali, postula necessariamente l'intervento del legislatore: sia per la formulazione di criteri e limiti, in relazione alla pena principale inflitta o ad altri parametri, sia e sopratutto per l'eventuale introduzione ex novo di una pena accessoria temporanea, che nel codice penale militare non ha attualmente cittadinanza.
Provvedimenti tutti che sicuramente eccedono i poteri della Corte.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
riuniti i giudizi dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell'art. 230, comma III, codice penale militare di pace con riferimento agli artt. 3 e 27 della Costituzione, sollevata dai Tribunali militari di Padova e Verona, rispettivamente con ordinanze 10 e 31 gennaio 1989.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 25/10/89.
Giovanni CONSO - Ettore GALLO - Aldo CORASANITI - Giuseppe BORZELLINO - Francesco GRECO - Renato DELL'ANDRO - Gabriele PESCATORE - Ugo SPAGNOLI - Francesco Paolo CASAVOLA - Antonio BALDASSARRE - Vincenzo CAIANIELLO - Mauro FERRI - Luigi MENGONI - Enzo CHELI.
Depositata in cancelleria il 07/11/89.
Giovanni CONSO, PRESIDENTE
Ettore GALLO, REDATTORE