Sentenza n. 1087 del 1988

SENTENZA N.1087

ANNO 1988

 

REPUBBLICA ITALIANA

In nome del Popolo Italiano

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

composta dai signori:

Presidente

Prof. Francesco SAJA,

Giudici

Prof. Giovanni CONSO

Prof. Ettore GALLO

Dott. Aldo CORASANITI

Prof. Giuseppe BORZELLINO

Dott. Francesco GRECO

Prof. Renato DELL'ANDRO

Prof. Gabriele PESCATORE

Avv. Ugo SPAGNOLI

Prof. Francesco Paolo CASAVOLA

Prof. Antonio BALDASSARRE

Prof. Vincenzo CAIANIELLO

Avv. Mauro FERRI

Prof. Luigi MENGONI

Prof. Enzo CHELI

ha pronunciato la seguente

 

SENTENZA

 

nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 22 e 23 della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull'ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), promosso con ordinanza emessa il 20 ottobre 1986 dal Pretore di Roma nei procedimenti civili riuniti vertenti tra Andreani Norma ed altri e il Ministero di Grazia e Giustizia, iscritta al n. 73 del registro ordinanze 1988 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 11/I ss. dell'anno 1988.

Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 12 ottobre 1988 il Giudice relatore Francesco Greco.

Ritenuto in fatto

1. - Il giudice a quo esclude che, sotto il profilo retributivo, possano ravvisarsi ragionevoli motivi giustificativi del possibile deteriore trattamento dei lavoratori detenuti (soprattutto per il lavoro eseguito in semilibertà e per imprese pubbliche o private) rispetto agli ordinari lavoratori subordinati, attesa la natura non afflittiva (ex art. 20 l. cit.) del lavoro obbligatoriamente (ma solo per i condannati ed i sottoposti alle misure di sicurezza della colonia agricola e della casa di lavoro, e solo "sulla carta", poiché risulterebbe che meno della metà dei detenuti abbia la effettiva possibilità di lavorare e lavori) svolto e considerato che i detenuti, più ancora degli altri lavoratori, hanno bisogno di guadagnare per mantenere, oltre che se stessi, la propria famiglia.

In ordine all'art. 23 (in parte de qua abrogato dall'art. 29 della l. 10 ottobre 1986, n. 663) il Pretore di Roma osserva che la riduzione della remunerazione ai 7/10 dei 2/3 per detenuti imputati e condannati, comporta per costoro un compenso pari al 46,67% di quello corrisposto ai lavoratori esterni con ancora più accentuati effetti deteriori sotto i già illustrati profili. Ove poi si consideri - continua l'ordinanza - che la "cassa per il Soccorso e l'Assistenza alle vittime del delitto" (cui gli altri 3/10 erano destinati) è stata soppressa con l. n. 641 del 1978, che ha attribuito alle regioni ed agli enti locali le relative entrate (delle quali solo il 16% è destinato a soddisfare gli stessi fini cui attendeva la Cassa: v. artt. 119 e 132 d.P.R. n. 616 del 1977), risulta evidente la natura impositiva della trattenuta, con ulteriore violazione del parametro di cui all'art. 53, primo comma, Cost.

2. - L'Avvocatura dello Stato, intervenuta per il Presidente del Consiglio dei ministri, preliminarmente prospetta l'inammissibilità della questione per non avere il giudice a quo chiarito se i ricorrenti fossero imputati o condannati e se avessero prestato il proprio lavoro in favore di altri soggetti ovvero dell'amministrazione penitenziaria, nel qual ultimo caso soltanto la retribuzione può essere ridotta.

Nel merito osserva, quanto ai condannati, che l'attività lavorativa è obbligatoria, onde l'amministrazione deve affrontare oneri ulteriori rispetto a quelli propri dell'imprenditore, essendo tenuta ad assicurare il lavoro al di là di ogni valutazione di convenienza economica; e, inoltre, che il lavoro è elemento essenziale del trattamento carcerario, da riguardarsi dunque anche alla luce delle finalità rieducative di cui all'art. 27 Cost. In ordine ai detenuti in genere, che in tanto l'apposita commissione può legittimamente fissare una retribuzione inferiore alle tariffe sindacali in quanto la produttività del lavoro penitenziario sia inferiore a quella dell'analogo lavoro libero (clima psicologico, assenze per motivi processuali, scarsa attitudine al lavoro, etc.) e che l'intento perseguito dal legislatore non è certo volto allo sfruttamento del lavoro, bensì alla creazione del maggior possibile numero di posti di lavoro, nell'ambito delle risorse disponibili. Di tutto ciò costituirebbe sicuro sintomo la previsione di cui all'art. 5 della legge n. 663 del 1986, che autorizza le direzioni degli istituti penitenziari a vendere sotto costo i prodotti delle lavorazioni.

Quanto alle censure mosse alla disposizione di cui all'art. 23 l. n. 354 del 1975, l'Avvocatura preliminarmente riconosce la rilevanza della questione per la non retroattività della sua intervenuta abrogazione, sostenendo la legittimità della detrazione per i condannati (per gli imputati l'accantonamento è provvisorio) secondo quanto riconosciuto anche dal Consiglio di Stato nel parere n. 1315 del 1984, e la totale destinazione dei proventi al perseguimento delle funzioni già prima espletate dalla Cassa (art. 119, d.P.R. n. 616 del 1977).

Per quanto concerne le censure mosse all'art. 22 della legge n. 354/75, può sostenersi la infondatezza della questione.

Va, anzitutto, rilevato, al riguardo, che il lavoro dei detenuti ha una specifica finalità, quella della rieducazione di cui all'art. 27 Cost., che lo colloca fuori della logica economica dell'ordinario lavoro subordinato.

Del resto, premesso che una corretta interpretazione della norma in questione induce ad escludere che essa possa applicarsi al lavoro prestato in favore di datori di lavoro privati o pubblici diversi dall'amministrazione penitenziaria, va considerato che la stessa amministrazione ha l'obbligo di assicurare il lavoro ai condannati, e deve, comunque, favorire la destinazione al lavoro di tutti i detenuti, anche, quindi, ove essi abbiano scarsa capacità lavorativa.

A ciò si aggiunga che non sempre i detenuti garantiscono la continuità nella prestazione di lavoro, a causa, ad esempio, delle esigenze di allontanamento collegate a motivi processuali, dei colloqui con i familiari ed altro.

La disposizione censurata, pertanto, non determina una disparità di trattamento irragionevole tra situazioni obiettivamente uguali ma si limita ad autorizzare la fissazione, da parte dell'apposita commissione, di una remunerazione inferiore - peraltro entro un limite predeterminato, sì da escludere anche la fondatezza del riferimento al parametro costituzionale dell'art. 36 Cost., tenuto anche conto delle esigenze di vita del detenuto - alle tariffe sindacali.

Quanto alle censure mosse all'art. 23 della legge n. 354, la questione potrebbe essere fondata.

Infatti, in seguito alla soppressione della Cassa per il soccorso alle vittime del delitto, disposta con legge n. 641 del 1978, la ritenuta di cui all'art. 23 della legge n. 354 del 1975 è andata a far parte delle entrate dei Comuni destinate in generale alla beneficenza pubblica, di cui solo uno degli aspetti è costituito dall'assistenza alle vittime dei reati.

In tal modo si è realizzata una forma di prelievo coattivo nei confronti dei detenuti lavoratori per le esigenze della spesa pubblica, posta a carico dei soli detenuti (e, fra costoro, solo di quelli che prestano attività lavorativa) e non anche di tutti gli altri cittadini, con duplice violazione del disposto dell'art. 53 Cost., in riferimento sia al principio dell'uguale trattamento impositivo, sia a quello secondo cui l'imposta deve essere proporzionata alla capacità contributiva di ciascuno, mentre nel caso di specie si prescinde dalla considerazione delle effettive disponibilità economiche del detenuto lavoratore.

Considerato in diritto

1.-Il Pretore di Roma dubita della legittimità costituzionale dell'art. 22, legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull'ordinamento penitenziario e sulle misure privative e limitative della libertà):

A) nella parte in cui prevede che la mercede dei lavoratori detenuti possa essere inferiore, anche se entro il limite minimo dei due terzi, rispetto al trattamento economico previsto dai contratti collettivi di lavoro;

B) dell'art. 23 della stessa legge n. 354 del 1975 nella parte in cui prevede che la remunerazione corrisposta per il lavoro e determinata nella misura di sette decimi della mercede per gli imputati e condannati, mentre gli altri tre decimi sono versati alle Regioni e agli enti locali, a seguito della soppressione della Cassa per il soccorso e l'assistenza alle vittime del delitto (legge 21 ottobre 1978, n. 641) alla quale precedentemente erano erogati.

Il giudice a quo ritiene che risulterebbero violati gli artt. 3 e 36 Costit. in quanto, non essendovi alcuna differenza tra il lavoro svolto dai detenuti e il lavoro subordinato ordinario, e soprattutto tra il lavoro eseguito in semilibertà e quello svolto in favore di imprese pubbliche e private, non e ne ragionevole ne giustificata la sussistente disparità di trattamento dei primi rispetto agli altri lavoratori, tanto più che il detenuto che lavora deve soddisfare i bisogni suoi e della sua famiglia con i proventi del suo lavoro.

Inoltre, l'art. 23 in esame contrasterebbe non solo con l'art. 36 Cost., per la riduzione operata alla remunerazione del detenuto lavoratore, ma anche con gli artt. 53, 1° comma, e 3 Cost. in quanto, a seguito della soppressione della Cassa per il soccorso e l'assistenza alle vittime del delitto, le somme trattenute finanzierebbero in gran parte funzioni amministrative proprie delle Regioni e degli Enti locali e solo in minima parte i medesimi fini cui attendeva la soppressa Cassa, sicché la trattenuta, divenuta di natura impositiva, non risulterebbe adeguata alla capacita contributiva degli obbligati e per giunta colpirebbe solo i detenuti lavoratori e non tutti i cittadini onde la sussistenza di una ingiustificata disparità di trattamento.

2. - La questione sub A non è fondata.

Si considera, anzitutto, che il lavoro prestato dai detenuti è uno strumento per la loro redenzione ed il loro riadattamento alla vita sociale; non è un elemento di espiazione della pena ma è un metodo di trattamento.

E' infatti testualmente stabilito che il lavoro penitenziario non ha carattere afflittivo ed e remunerato (art. 20 L. 26 luglio 1975 n. 354), pur essendo obbligatorio per i condannati ed i sottoposti alle misure di sicurezza della colonia agricola e della casa di lavoro.

Negli istituti penitenziari deve essere favorita in ogni modo la destinazione al lavoro dei detenuti e degli internati.

Tuttavia, le condizioni attuali della organizzazione penitenziaria e degli stabilimenti non danno a tutti i detenuti la possibilità di svolgere un lavoro secondo le loro capacita e attitudini.

Quelli che lavorano sono solo una minima parte di essi.

Comunque, si verificano almeno tre situazioni: a) quella del detenuto che si trova in semilibertà e lavora fuori dello stabilimento; b) quella del detenuto che lavora alle dipendenze di imprese private sotto il diretto controllo della direzione dell'istituto a cui il detenuto o l'internato e assegnato; c) quella del detenuto che lavora all'interno dello stabilimento carcerario, alla diretta dipendenza dell'amministrazione penitenziaria.

La questione sollevata riguarda solo quest'ultima situazione. Né vi è omogeneità tra essa e le altre due situazioni, non potendosi dubitare che il rapporto che ivi si instaura è disciplinato dal diritto comune negli elementi essenziali tra cui la retribuzione, pur ritenendosi che, in ogni caso, il lavoro del detenuto è un diritto. In particolare, per quanto riguarda il lavoro svolto nello stabilimento alle dipendenze dell'amministrazione penitenziaria, la fattispecie ha delle proprie peculiarità che incidono profondamente sulla struttura del rapporto e sui suoi elementi essenziali.

Il rapporto trae origine da un obbligo legale e non da un libero contratto; ha una propria particolare regolamentazione tra cui assumono rilievo le qualità delle parti: quella del lavoratore che è un detenuto e quella del datore di lavoro che e l'amministrazione penitenziaria. Ma soprattutto rilevano le finalità da raggiungere: la redenzione ed il riadattamento del detenuto alla vita sociale; l'acquisto o lo sviluppo dell'abitudine al lavoro e della qualificazione professionale che valgono ad agevolare il reinserimento nella vita sociale.

Dette finalità sono assolutamente prevalenti.

L'amministrazione non si prefigge ne utili ne guadagni; si avvale di una mano d'opera disorganica, a volte non qualificata, disomogenea, variabile per le punizioni ed i trasferimenti da stabilimento a stabilimento; i prodotti non sono sempre curati e sempre rifiniti; essi, il più delle volte, si vendono sottocosto.

Il compenso previsto per le prestazioni non si denomina retribuzione ma o remunerazione o mercede, determinata con una procedura particolare.

E' infatti stabilita con atto amministrativo da parte di una apposita commissione, variamente composita, della quale però fanno parte anche delegati di ciascuna delle organizzazioni sindacali più rappresentative sul piano nazionale.

Tuttavia, per quanto non possa ritenersi che tale genere di lavoro sia del tutto identico, specie per la sua origine, per le condizioni in cui si svolge, per le finalità cui è diretto e che deve raggiungere, non può assolutamente affermarsi che esso non debba essere protetto specie alla stregua dei precetti costituzionali (artt. 35 e 36 Cost.).

Peraltro, una remunerazione di gran lunga inferiore alla normale retribuzione sarebbe certamente diseducativa e controproducente; il detenuto non troverebbe alcun incentivo ed interesse a lavorare e, se lavorasse egualmente, non avrebbe alcun interesse ad una migliore qualificazione professionale.

Gran parte delle finalità attribuite al lavoro carcerario sarebbero frustrate e vanificate.

Il che in concreto non è alla stregua della legislazione in esame.

Infatti, la norma censurata stabilisce anzitutto il principio della equa remunerazione. Essa sancisce che la mercede per ciascuna categoria di lavoratori è equitativamente stabilita.

Inoltre, sono specificamente richiamati i contenuti del precetto costituzionale (art. 36 cost.). Si prevede, infatti, che la mercede debba essere determinata in relazione alla quantità ed alla qualità del lavoro effettivamente prestato, alla organizzazione ed al tipo di lavoro del detenuto. Infine, si prende in considerazione il trattamento previsto dai contratti collettivi.

Vero è che è stabilito un trattamento minimo non inferiore ai due terzi del salario previsto da quest'ultimi, ma trattasi solo di una determinazione nel minimo, mentre non può escludersi l'osservanza del criterio della relazione con la quantità e la qualità del lavoro prestato e nemmeno possono trascurarsi, secondo il precetto costituzionale, i bisogni della famiglia di chi lavora.

Infine, non può del tutto escludersi che, trattandosi di un diritto soggettivo, il lavoratore possa adire, come nella specie, il giudice del lavoro il quale può disapplicare l'atto determinativo della mercede se importi violazione dei surrichiamati precetti costituzionali.

Per la questione sub B, si rileva che l'art. 23 della legge n. 354 del 1975, dopo una prima modificazione da parte della legge 21 ottobre 1978, n. 641, che ha soppresso la Cassa per il soccorso e l'assistenza alle vittime del delitto, e stato abrogato dall'art. 29 della legge 10 ottobre 1986, n. 663.

Pertanto, gli atti vanno restituiti al giudice a quo per una nuova valutazione della questione alla stregua dell'attuale stato della legislazione.

 

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 22 della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull'ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà) sollevata, in riferimento agli artt. 3 e 36 Cost., dal Pretore di Roma con la ordinanza in epigrafe;

ordina la restituzione degli atti al Pretore di Roma per la questione di legittimità costituzionale dell'art. 23 della stessa legge n. 354 del 1975, sollevata, in relazione agli artt. 3 e 36, 1° comma, e 53 Cost., con la stessa ordinanza in epigrafe.

 

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 30/11/88.

Francesco SAJA, PRESIDENTE

Francesco GRECO, REDATTORE

Depositata in cancelleria il 13/12/88.