SENTENZA N.209
ANNO 1988
REPUBBLICA ITALIANA
In nome del Popolo Italiano
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori Giudici:
Prof. Francesco SAJA Presidente
Prof. Giovanni CONSO
Dott. Aldo CORASANITI
Prof. Giuseppe BORZELLINO
Dott. Francesco GRECO
Prof. Renato DELL'ANDRO
Prof. Gabriele PESCATORE
Avv. Ugo SPAGNOLI
Prof. Francesco Paolo CASAVOLA
Prof. Antonio BALDASSARRE
Prof. Vincenzo CAIANIELLO
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nei giudizi di legittimità costituzionale dell'art. 17, ultimo comma, della legge 2 dicembre 1975, n. 576 avente ad oggetto: <Disposizioni in materia di imposte sui redditi e sulle successioni>, promossi con le seguenti ordinanze: 1) n. 2 ordinanze emesse l'11 giugno 1986 dal Pretore di Salerno nei procedimenti civili vertenti tra il Banco di Napoli e il Monte dei Paschi di Siena e il Ministero delle Finanze, iscritte ai nn. 696 e 697 del registro ordinanze 1986 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 57 - Prima Serie Speciale dell'anno 1986; 2) ordinanza emessa il 21 ottobre 1986 dal Tribunale di Bari nei procedimenti civili riuniti vertenti tra il Banco di Napoli e l'Amministrazione delle Finanze dello Stato, iscritta al n. 231 del registro ordinanze 1987 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 26 - Prima Serie Speciale dell'anno 1987.
Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei Ministri;
udito nella camera di consiglio del 28 ottobre 1987 il Giudice relatore Antonio Baldassarre.
Considerato in diritto
l. -Le due ordinanze del Pretore di Salerno e la ordinanza del Tribunale di Bari prospettano dubbi di legittimità costituzionale della medesima disposizione: i relativi giudizi vanno quindi riuniti per essere decisi con unica sentenza.
2.-La prima questione sottoposta al giudizio di questa Corte concerne l'art. 17, u.c., della legge 2 dicembre 1975, n. 576, per la parte in cui stabilisce una penale del 2% per ogni giorno di ritardo in relazione alle somme riscosse e non tempestivamente (entro cinque giorni) versate alla tesoreria da parte delle aziende di credito delegate alla riscossione delle imposte sul reddito delle persone fisiche. Ammesso che tale penale abbia natura privatistica, e non tributaria, i giudici a quibus ravvisano un possibile contrasto con l'art. 3 Cost., in quanto sussisterebbe un'irragionevole disparità di regime tra la suddetta penale, che non può esser ridotta, e le sanzioni pecuniarie di diritto tributario o le clausola penale di diritto civile, ambedue riducibili.
2.l.- La questione é infondata.
Non vi può esser dubbio che la penale ex art. 17, u.c., della legge n. 576 del 1975, abbia natura privatistica. A ciò concorrono tanto la sua inerenza a un rapporto diverso da quello intercorrente tra il contribuente e l'amministrazione tributaria, quanto le sue finalità, le quali sono dirette a evitare che le aziende di credito lucrino in misura eccessiva dal ritenere le somme riscosse oltre un ragionevole termine. Su tale premessa, si deve concludere, innanzitutto, che viene meno quel minimo di omogeneità necessario per l'instaurazione di un giudizio di ragionevolezza tra la penale di cui alla disposizione impugnata e le sanzioni pecuniarie di diritto tributario. Di ciò non può dubitarsi per il semplice fatto che, come ha già affermato questa Corte (sent. n. 109 del 1973), l'inadempimento di un'obbligazione di natura privatistica, ipotizzato nel caso in capo alle aziende di credito nei confronti dello Stato, non é affatto equiparabile all'inadempimento relativo alle obbligazioni tributarie verso lo stesso Stato.
V'é, poi, un secondo motivo che impedisce di instaurare una comparazione, sempre ai fini del giudizio di ragionevolezza, tra l'impugnata penale e le sanzioni pecuniarie di diritto tributario.
Mentre per queste ultime l'art. 15 della legge n. 4 del 1929 prevede che il trasgressore delle leggi finanziarie, oltre il tributo, possa pagare all'atto della contestazione della violazione una somma (ridotta) pari al sesto del massimo della pena pecuniaria, nel caso oggetto del presente giudizio, invece, la penale viene determinata in misura fissa dal legislatore in relazione all'inadempimento di un'obbligazione pecuniaria di natura civilistica. Ciò comporta che nel caso di specie non sussistano gli elementi qualificanti dell'ipotesi assunta come tertium comparationis e, in particolare, tanto la determinazione della pena accessoria tra un minimo e un massimo, quanto il parametro (cioé il massimo) cui ragguagliare l'eventuale riduzione della pena pecuniaria.
2.2.-Del pari infondata é la prospettazione della disparità di trattamento tra la penale impugnata e quella di diritto civile prevista dagli artt. 1382 e segg. del codice civile.
Anche se ambedue le penali presentano una sostanziale identità di natura giuridica, deve tuttavia negarsi che siano equiparabili sotto il profilo della riduzione equitativa, di cui all'art. 1384 del codice civile. Le ragioni di questa affermazione sono almeno duplici. Innanzitutto, mentre nel caso disciplinato dall'art. 1384 c.c. il giudice interviene equitativamente nei confronti di un atto di autonomia privata con il quale viene predeterminato il danno cagionato dall'inadempimento di una delle parti del rapporto obbligatorio, al contrario in quello sottoposto al presente giudizio non v'é spazio per tale intervento, in quanto e direttamente una norma giuridica a determinare la misura della penale. In secondo luogo, mentre nell'ipotesi dell'art. 1384 c.c. la riduzione equitativa della clausola penale può avere come presupposto l'adempimento parziale dell'obbligazione da parte del creditore, nell'ipotesi della disposizione impugnata, invece, tale presupposto appare incompatibile con la natura dell'obbligazione intercorrente tra le aziende di credito e lo Stato.
2.3.-Egualmente infondati sono i dubbi di costituzionalità sollevati dai giudici a quibus in relazione all'entità della penale legislativamente determinata, la quale é sospettata dagli stessi giudici di essere troppo elevata o sproporzionata rispetto al fatto del ritardato versamento alla tesoreria delle somme riscosse.
Non é, infatti, irragionevole che il legislatore, nell'esercizio del suo potere discrezionale, abbia stabilito una penale particolarmente elevata, sol che si consideri che lo scopo perseguito, come rileva esattamente l'Avvocatura dello Stato, e principalmente quello di non rendere neppure accettabile per le aziende di credito il rischio di un ritardo nel versamento e di precludere, così, la benchè minima eventualità di movimenti speculativi su somme ingenti, che appartengono, in definitiva, all'intera collettività nazionale.
Allo stesso modo, non possono desumersi argomenti a favore della fondatezza della questione dalla circostanza che la legge 4 ottobre 1986, n. 657, dispone, all'art. 5, comma terzo, che <la misura della penale prevista dall'ultimo comma dell'art. 17 della legge 2 dicembre 1975, n. 576, e dall'art. 12 della legge 12 novembre 1976, n. 751, e ridotta allo 0,50%, se il mancato versamento e dovuto a errori materiali>. Anche sotto tale profilo non appare irragionevole che il legislatore, nel suo discrezionale apprezzamento, preveda sanzioni più lievi per l'omissione del versamento ove questo sia dovuto a un comportamento colposo, quale un errore materiale, mentre, secondo la consolidata giurisprudenza di questa Corte, non può in alcun modo trarsi motivo di violazione del principio di eguaglianza dalla decorrenza temporale delle modificazioni legislative introdotte.
Nè, poi, può ipotizzarsi una disparità di trattamento, come invece prospettano i giudici a quibus, in conseguenza della pretesa applicabilità della disposizione impugnata anche nei confronti di soggetti incolpevoli, come nelle ipotesi in cui il ritardato versamento dipenda da cause che non é possibile imputare alle aziende di credito. Occorre sottolineare, infatti, che in tal caso trovano applicazione le disposizioni del decreto legislativo 15 gennaio 1948, n. 1, relative alla sospensione dei termini a causa di eventi eccezionali.
3.-Un'ulteriore questione di costituzionalità concernente il medesimo art. 17, u.c., della legge n. 576 del 1975, é sollevata dai giudici a quibus in relazione all'art. 3 Cost., in quanto l'articolo impugnato assoggetta alla medesima penale tanto le aziende di credito che effettuano in ritardo il versamento allo Stato delle somme riscosse, quanto quelle che lo omettono del tutto.
Anche tale censura non é fondata.
In realtà, la parità di trattamento delle due distinte ipotesi é soltanto apparente, poichè, in concreto, si riscontra una sostanziale diversità nella disciplina delle stesse. In effetti, la differenza di trattamento tra l'una e l'altra ipotesi é resa evidente dalla circostanza che la penale continua a maturare nella rilevante misura del 2% della somma riscossa per ogni giorno di ritardo, sino al momento del versamento. Sicchè, più a lungo si protrae l'inadempimento e più onerosa diviene la penale che l'azienda di credito inadempiente e tenuta a pagare. In altre parole, il mero decorso del tempo costituisce un elemento idoneo a differenziare, in pratica, il trattamento dell'omesso versamento da quello relativo al ritardo.
4. -Un'ultima questione sollevata dai giudici a quibus concerne la pretesa violazione dell'art. 3 Cost. da parte della medesima disposizione impugnata, in quanto la stessa comporterebbe un'irragionevole disparità di trattamento tra un comune debitore che vanta crediti verso la controparte del proprio rapporto debitorio e le aziende di credito delegate alla riscossione dei tributi rispetto all'amministrazione finanziaria, nell'ipotesi che quelle vantino dei crediti verso quest'ultima. Ciò perchè, mentre nel primo caso il debitore potrebbe compensare il proprio debito con i crediti vantati verso la controparte, nel secondo, invece, le aziende di credito non potrebbero seguire la medesima via per le somme dovute all'amministrazione finanziaria a titolo di penale. Occorre rilevare che la censura ora esaminata si basa su un'erronea equiparazione tra la posizione dell'amministrazione e quella delle aziende di credito, poichè, mentre il credito dell'amministrazione discende sempre da un inadempimento delle aziende, al contrario quello di queste ultime nei confronti dell'amministrazione discende sempre da un erroneo versamento da parte delle aziende stesse.
Nè può rilevare in senso contrario, diversamente da quanto affermato dai giudici a quibus, il fatto che l'amministrazione, per accertare l'esatta corrispondenza delle somme versate a quelle riscosse su delega dei contribuenti, impieghi un lasso di tempo anche consistente, per la durata del quale e tenuta a corrispondere, nell'eventualità di crediti accertati delle aziende, l'ordinario tasso di interesse Questo rilievo, infatti, non ha alcuna importanza rispetto alle modalità di estinzione del debito delle aziende di credito a titolo di penale, ai sensi della disposizione impugnata, tanto più che tali accertamenti, come s'é detto, hanno origine da un errore delle aziende di credito.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell'articolo 17, ultimo comma, della legge 2 dicembre 1975, n. 576, in riferimento all'articolo 3 Cost., sollevate dal Pretore di Salerno e dal Tribunale di Bari con le ordinanze di cui in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 11/02/88.
Francesco SAJA, PRESIDENTE
Antonio BALDASSARRE, REDATTORE
Depositata in cancelleria il 25 Febbraio 1988.