SENTENZA N. 245
ANNO 1987
REPUBBLICA ITALIANA
In nome del Popolo Italiano
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori Giudici
Prof. Virgilio ANDRIOLI , Presidente
Prof. Giuseppe FERRARI
Dott. Francesco SAJA
Prof. Giovanni CONSO
Prof. Aldo CORASANITI
Prof. Giuseppe BORZELLINO
Dott. Francesco GRECO
Prof. Renato DELL'ANDRO
Prof. Gabriele PESCATORE
Avv. Ugo SPAGNOLI
Prof. Francesco P. CASAVOLA
Prof. Antonio BALDASSARRE
Prof. Vincenzo CAIANIELLO
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 63 della legge 25 giugno 1865, n. 2359 ("Disciplina delle espropriazioni forzate per causa di utilità pubblica"), promosso con ordinanza emessa il 3 dicembre 1985 dalla Corte d'Appello dell'Aquila nel procedimento civile vertente tra D'Ilio Iolanda ed altri e il Consorzio per l'area di sviluppo industriale della Valle del Pescara, iscritta al n. 592 del registro ordinanze 1986 e pubblicato nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 51 prima serie speciale dell'anno 1986;
Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
Udito nell'udienza pubblica del 19 maggio 1987 il Giudice relatore Gabriele Pescatore;
Udito l'Avvocato dello Stato Giorgio D'Amato per il Presidente del Consiglio dei ministri.
Ritenuto in fatto
1. - Alcuni proprietari, espropriati con decreto del prefetto di Chieti del 10 maggio 1971, chiesero al tribunale della stessa città la restituzione in proprietà dei beni, non utilizzati dal Consorzio per l'area di sviluppo della Val Pescara entro i termini previsti.
Il tribunale adito disponeva con sentenza, a norma dell'art. 63 della l. 25 giugno 1865, n. 2359, la retrocessione degli immobili, stabilendo i corrispettivi da versare all'espropriante. Contro tale sentenza gli attori proponevano appello, lamentando che il tribunale avesse determinato detti corrispettivi in misura maggiore alle indennità di espropriazione. La Corte d'Appello dell'Aquila, con ordinanza 3 dicembre 1985, ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell'art. 63 della l. 25 giugno 1865, n. 2359, in quanto non prevede che il prezzo della retrocessione non possa eccedere l'ammontare dell'indennità di espropriazione ricevuta dal proprietario, qualora l'espropriante non abbia eseguito sui beni espropriati opere che ne abbiano aumentato il valore.
Il giudice a quo osserva che secondo l'art. 42 Cost. l'indennità di espropriazione non deve corrispondere necessariamente al valore venale del bene espropriato. Pertanto sarebbe incongruo e contrastante con lo stesso articolo 42 Cost. che, in base alla norma impugnata, per ottenere la retrocessione dei beni non utilizzati dall'espropriante, all'espropriato possa essere richiesta una somma maggiore di quella da lui ricevuta a titolo d'indennità.
A tale evenienza si opponeva la norma - abrogata dal r.d.l. 11 marzo 1923, n. 691 - secondo la quale il prezzo da pagare per la retrocessione "non potrà eccedere l'ammontare dell'indennità ricevuta dal proprietario per l'espropriazione", salvo che l'espropriante abbia eseguito sui beni da retrocedere opere nuove che ne abbiano aumentato il valore (art. 60 della l. n. 2359 del 1865). Il giudice a quo chiede una sentenza d'illegittimità costituzionale che ripristini tale previsione, sottolineandosi che la normativa impugnata ingiustificatamente finisce con l'imporre, in alcuni casi, al proprietario espropriato, una diminuzione patrimoniale derivante dalla differenza tra l'indennità percepita e il prezzo che egli deve versare per ottenere la retrocessione, con l'aggravante che egli non ha potuto godere del bene per il periodo durante il quale l'espropriazione si é protratta e l'espropriante finisce con l'ottenere un arricchimento ingiustificato.
2. - Dinanzi a questa Corte é intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri chiedendo che la questione sia dichiarata non fondata. Nelle note depositate si osserva che il diritto alla retrocessione (nella fattispecie prevista dall'art. 63 l. n. 2359 del 1865 cit.) nasce dopo che siano scaduti i termini per la realizzazione dell'opera pubblica ed é esercitabile nel termine ordinario di prescrizione. Pertanto la retrocessione può essere richiesta anche dopo molti anni dall'espropriazione, con la conseguenza che i fenomeni inflattivi possono rendere la semplice restituzione dell'indennità non adeguata a compensare equamente l'espropriante. Proprio per tale ragione la l. n. 691 del 1923, per attenuare le conseguenze dei processi inflattivi verificatisi dopo la prima guerra mondiale, abrogò il disposto dell'art. 60, terzo comma, della l. n. 2359 del 1865, il quale prevedeva che, di regola, il prezzo di retrocessione non potesse superare l'ammontare dell'indennità di espropriazione. D'altro canto, secondo l'interpretazione giurisprudenziale della normativa impugnata, alla determinazione del prezzo della retrocessione deve procedersi con gli stessi criteri in base ai quali é stata determinata l'indennità di esproprio. Il che - secondo l'Avvocatura generale dello Stato - garantisce il dovuto contemperamento dei contrapposti interessi dell'espropriante e dell'espropriato, mentre a tal fine sarebbero privi di significato il semplice riferimento ai termini monetari in cui, in tempi diversi, risultano espresse le entità rappresentate dall'indennizzo di esproprio e dal prezzo di retrocessione. Né avrebbe rilievo che l'espropriato non abbia potuto godere il bene per periodo durante il quale si é protratta l'espropriazione, avendo egli goduto dell'indennizzo percepito, che avrebbe potuto congruamente investire, e, comunque, la retrocessione non é configurabile come risoluzione, con effetto retroattivo, del precedente trasferimento.
L'Avvocatura generale dello Stato conclude affermando che va riconosciuta la legittimità della regula iuris espressa nella norma impugnata "a prescindere da ogni dubbio in ordine alla pertinenza del parametro costituzionale richiamato nonché all'individuazione della specifica disposizione oggetto di censura".
Considerato in diritto
3. - Il giudice rimettente, occupandosi di una fattispecie relativa a retrocessione di beni espropriati per mancata utilizzazione nei termini stabiliti, ha dubitato della legittimità costituzionale dell'art. 63 della l. 25 giugno 1865, n. 2359 in riferimento all'art. 42, secondo e terzo comma, Cost. Secondo l'ordinanza di rimessione tale illegittimità sarebbe da ascrivere alla circostanza che l'art. 63 cit. non prevede che il prezzo della retrocessione non debba eccedere l'ammontare dell'indennità di espropriazione ricevuta dal proprietario, salvo che dall'espropriante siano state eseguite nuove opere che abbiano aumentato il valore del fondo.
Ai fini di valutare il fondamento della impugnazione, va preliminarmente osservato che le due fattispecie di retrocessione, previste dalla l. n. 2359 del 1865, concernono, rispettivamente, il caso di parziale utilizzazione del fondo espropriato (art. 60) e la mancata esecuzione, nei termini previsti, dell'opera, in funzione della quale l'espropriazione era stata disposta (art. 63).
Per quanto riguarda la seconda fattispecie - in cui si colloca l'incidente di costituzionalità - é da rilevare che la retrocessione diventa operativa per effetto della sola scadenza del termine di espropriazione, poiché non occorre alcuna valutazione dell'autorità amministrativa.
La posizione soggettiva del retrocessionario riceve diretta tutela dalla pronuncia giudiziaria di decadenza della dichiarazione di pubblica utilità e dall'ordine di restituzione del bene espropriato, verso il pagamento del prezzo da determinare con le stesse modalità previste per la retrocessione parziale (art. 63 l. cit.).
4. - É ancora da osservare, quanto al contenuto del corrispettivo dovuto dal retrocessionario, che é consolidato indirizzo della Corte di Cassazione, attesa la correlazione esistente tra le vicende espropriative e retrocessorie, che il corrispettivo stesso debba essere determinato - con riferimento al valore del bene al momento della pronuncia di retrocessione - in base agli identici criteri, alla stregua dei quali si provvide alla stima del bene, ai fini della determinazione dell'indennità di espropriazione (cfr. Cass. 30 novembre 1985, n. 5979; 9 novembre 1977, n. 4779; 21 giugno 1968, n. 2062).
É chiaro il fondamento di tale indirizzo; esso opera sul presupposto che la retrocessione attua un nuovo trasferimento del bene, del tutto autonomo rispetto al trasferimento coattivo realizzato dall'atto di espropriazione; la retrocessione trova in quest'atto il suo antecedente meramente storico, ma ad esso non é collegata né strutturalmente, né funzionalmente.
Dalla pronuncia di decadenza della dichiarazione di pubblica utilità ( ex art. 63 l. n. 2359 del 1865) deriva all'espropriato il diritto potestativo di acquisto, con corrispondente obbligo dell'espropriante di trasferirgli l'immobile non utilizzato. Si tratta di un potere dell'espropriato, rispetto al quale non rileva precisare, in questa sede, se dia luogo ad un trasferimento volontario, coattivo o potestativo.
5. - L'ordinanza di rimessione si sofferma a considerare la inadeguata tutela che il sistema vigente offrirebbe alla posizione dell'espropriato e la collega al "sacrificio" che questo sopporterebbe "per essere mancata la destinazione dell'immobile posta a base del decreto di espropriazione" o, inoltre, "sotto un profilo più sostanzialmente economico", per "una diminuzione patrimoniale, ancora più grave, atteso che il mancato godimento del bene dopo la pronuncia di espropriazione" rimarrebbe "in ogni caso senza indennizzo".
Entrambi i rilievi formulati dall'ordinanza sono infondati: la mancata destinazione del bene all'opera pubblica non si riflette sulla fase espropriativa, ormai esaurita; essa non può incidere, dunque, ancorché limitata al riflesso economico, sulla sfera dell'espropriato.
É appena il caso di accennare al riguardo che la retrocessione non risolve il precedente trasferimento con effetti ex tunc.
Inoltre la mancata destinazione del bene all'opera pubblica non agisce sulla struttura del bene, che resta immutato nella sua consistenza fisica e non si vede come questa circostanza possa toccare la posizione del soggetto espropriato, il quale, essendo stato privato della proprietà del bene - contrariamente a quanto afferma l'ordinanza di rimessione - non può subire danni per il mancato godimento di esso.
Né é infine esatto affermare - come fa l'ordinanza - che il diritto di proprietà deve "essere tutelato anche dopo l'espropriazione", "essendo fuori della logica costituzionale la ingiusta locupletazione della P.A. espropriante con il correlativo depauperamento del proprietario che aveva dovuto subire la espropriazione".
É agevole osservare che, intervenuta l'espropriazione del bene e corrisposto l'indennizzo, non sono configurabili posizioni, a rilevanza economica, riferibili all'espropriato: dal trasferimento coattivo del bene é l'ente espropriante che emerge come destinatario di quelle posizioni.
6. - L'autonomia dell'atto di retrocessione rispetto a quello espropriativo (cfr. n. 2) é resa ancora più chiara dall'abrogazione del terzo comma dell'art. 60 della l. n. 2359 del 1865, operata dall'art. 1 del d.l. 11 marzo 1923, n. 691. Tale comma disponeva che il prezzo di retrocessione "non potrà eccedere l'ammontare dell'indennità ricevuta dal proprietario per l'espropriazione del suo fondo, salvo che vi si fossero dall'espropriante eseguite nuove opere che ne avessero aumentato il valore". In proposito il Guardasigilli Pisanelli, nella relazione al progetto di legge sulle espropriazioni a causa di pubblica utilità (1864) (Atti parlamentari, Camera dei deputati, sessione 1863-64, doc. n. 206), aveva giustificato il contenimento del prezzo di acquisto per retrocessione entro i limiti dell'indennità di esproprio, osservando che "l'equità non consentirebbe che l'espropriante, il quale spogliò un privato di uno stabile creduto necessario per l'eseguimento di un'opera pubblica, ma che in fatto non fu, riesca a fare un traffico nel rivenderlo al proprietario, da cui egli forzatamente lo ebbe".
In realtà l'abrogazione del terzo comma dell'art. 60 della l. n. 2359 del 1865 cit. ad opera del r.d.l. n. 691 del 1923 cit. non consentiva all'espropriante di realizzare alcun "traffico" sul valore del bene. Essa era diretta, invece, ad evitare l'incidenza sul nuovo proprietario dei flussi inflattivi, verificatisi in misura ragguardevole dopo la prima guerra mondiale.
Non sarebbe stato, né sarebbe equo consentire all'espropriato al quale sia stato corrisposto l'indennizzo, con possibilità di investirlo e di sottrarlo alle conseguenze dell'inflazione - di avvantaggiarsi dell'incidenza dei processi di svalutazione a scapito del soggetto che dovesse retrocedere il bene contro il prezzo consistente nell'indennizzo di espropriazione.
7. - Queste considerazioni chiariscono l'infondatezza del riferimento, nella fattispecie all'art. 42, secondo e terzo comma, Cost., operato dall'ordinanza di rimessione. Proprietario del bene, a seguito dell'espropriazione, é diventato il soggetto a cui favore é destinato il provvedimento ablatorio; é questo l'eventuale destinatario della tutela prevista dall'art. 42 Cost., non il proprietario originario, non più titolare del bene stesso.
La posizione di questo, comunque, resta non priva di equa valutazione, se si tiene presente il principio, già richiamato, secondo il quale alla determinazione del prezzo della retrocessione deve procedersi con gli stessi criteri in base ai quali é stata determinata l'indennità di esproprio (cfr. n. 4).
Siffatto principio, accomunando i trasferimenti del bene nell'omogeneità dei criteri di determinazione del prezzo, attribuisce ai soggetti interessati la stessa posizione nel quadro economico delle relative operazioni.
Tutti i profili delle censure mosse dall'ordinanza di remissione all'art. 63 l. 25 giugno 1865 n. 2359, come modificato dall'art. 1 d.l. 11 marzo 1923, n. 691, sono, dunque, infondati.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 63 l. 25 giugno 1865, n. 2359 (Disciplina delle espropriazioni forzate per causa di utilità pubblica), sollevata in riferimento all'art. 42, secondo e terzo comma, Cost., dalla Corte di appello dell'Aquila, con ordinanza 3 dicembre 1985 (r.o. 1986, n. 592).
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta il 22 maggio 1987.
Il Presidente: ANDRIOLI
Il Redattore: PESCATORE
Depositata in cancelleria il 6 luglio 1987.
Il direttore della cancelleria: VITALE