SENTENZA N. 200
ANNO 1987
REPUBBLICA ITALIANA
In nome del Popolo Italiano
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori Giudici
Prof. Antonio LA PERGOLA, Presidente
Prof. Virgilio ANDRIOLI
Prof. Giuseppe FERRARI
Prof. Giovanni CONSO
Prof. Ettore GALLO
Prof. Aldo CORASANITI
Prof. Giuseppe BORZELLINO
Dott. Francesco GRECO
Prof. Renato DELL'ANDRO
Prof. Gabriele PESCATORE
Avv. Ugo SPAGNOLI
Prof. Francesco P. CASAVOLA
Prof. Antonio BALDASSARRE
Prof. Vincenzo CAIANIELLO
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nei giudizi di legittimità costituzionale dell'art. 106 del d.P.R. 29 gennaio 1958, n. 645 (Testo Unico delle leggi sulle imposte dirette), in relazione all'art. 20 della legge 5 gennaio 1956, n. 1, promossi con le seguenti ordinanze:
1) ordinanza emessa l'8 marzo 1979 dalla Corte di Cassazione sui ricorsi riuniti proposti dall'Amministrazione delle Finanze dello Stato contro la Società Agricola Riviera, iscritta al n. 693 del registro ordinanze 1979 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 338 dell'anno 1979;
2) n. 2 ordinanze emesse il 12 dicembre 1979 dalla Corte di Cassazione sui ricorsi proposti dalla Società Civile Agricola Immobiliare contro l'Amministrazione delle Finanze dello Stato, iscritte ai nn. 350 e 351 del registro ordinanze 1980 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 173 dell'anno 1980.
Visti gli atti di costituzione della Società Agricola Riviera e dell'Amministrazione delle Finanze dello Stato nonché gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
Udito nell'udienza pubblica del 13 gennaio 1987 il Giudice relatore Renato Dell'Andro;
Udito l'Avvocato dello Stato Sergio Laporta, per l'Amministrazione delle Finanze dello Stato.
Ritenuto in fatto
- - Con ordinanza dell'8 marzo 1979 (Reg. Ord. n.693/79) la Corte di Cassazione ha sollevato questione di legittimità costituzionale, in riferimento all'art. 76 Cost., dell'art. 106, primo comma, del t.u. 29 gennaio 1958, n. 645, "nella parte in cui prevede, in contrasto col disposto dell'art. 20 della legge 5 gennaio 1956, n. 1, e fuori dei limiti della delega di cui all'art. 63 della stessa legge, la tassazione in R.M. delle plusvalenze realizzate dalle società in genere, in quanto tali, indipendentemente dall'esercizio di un'attività imprenditoriale".
L'ordinanza é stata emessa a seguito di un ricorso proposto dall'Amministrazione delle Finanze dello Stato contro una decisione della Commissione Centrale delle Imposte, la quale aveva dichiarato non dovuta dalla S.p.a. "Agricola Riviera" l'imposta di Ricchezza Mobile per la plusvalenza realizzata con la cessione ai creditori degli immobili di sua proprietà, in sede di concordato preventivo, in quanto mancava nel soggetto la qualità d'imprenditore esercente un'attività commerciale, così come richiesto dall'art. 106 del t.u. 29 gennaio 1958, n. 645, nel testo risultante a seguito della sentenza n. 32 del 1975 di questa Corte. Nel ricorso l'Amministrazione delle Finanze aveva invece sostenuto la soggezione delle società per azioni, in quanto tali, all'imposizione. Aveva proposto ricorso incidentale la Società lamentando il mancato accoglimento della tesi dell'intassabilità delle plusvalenze in ipotesi di cessio bonorum in sede concordataria.
Il giudice a quo ricorda che la sentenza n. 32 del 1975 di questa Corte ha dichiarato illegittimo, per eccesso di delega, il primo comma del suddetto art. 106 "nella parte in cui prevede la tassabilità delle plusvalenze e sopravvenienze attive di enti tassabili in base a bilancio", ma osserva che tale decisione riguarda esclusivamente gli enti di cui alla lettera c) dell'art. 8, terzo comma, del t.u. n. 645 del 1958, e cioè gli enti diversi dalle società di cui alle lettere a) e b) del medesimo articolo.
Resta pertanto impregiudicato il dubbio di legittimità in ordine alla differenza di formulazione fra l'art. 106 e l'art. 20 citati per quanto attiene alla tassabilità delle plusvalenze delle società. L'art. 106 del t.u., infatti, sottopone ad imposta le plusvalenze di tutti i beni appartenenti a soggetti tassabili in base a bilancio, fra i quali, a norma dell'art. 2200 c.c., sono comprese tutte "le società costituite secondo uno dei tipi regolati nei capi III e segg. del titolo V e le società cooperative, anche se non esercenti un'attività commerciale". L'art. 20 della legge n. 1 del 1956, invece, prevede come soggetti passivi della tassazione le imprese e gli imprenditori, nel senso che fissa come presupposto dell'imposta l'esercizio di un certo tipo d'attività, dal quale possano derivare determinati redditi. Il che, del resto, si desume dal fatto che entrambi i commi dell'art. 20 si riferiscono agli "imprenditori", termine questo adoperato nel secondo comma come qualificativo di tutti i soggetti d'imposta, fra i quali il medesimo secondo comma opera poi una distinzione. In altri termini, il predetto art. 20 ancora la tassazione non alla presenza di determinate strutture bensì all'esercizio in concreto di un'attività imprenditoriale. Pertanto, la ragion d'essere della diversa regolamentazione contenuta nei due commi dell'art. 20 deve rinvenirsi non nella conseguenzialità della tassazione al semplice presupposto dell'esistenza o meno d'una strutturazione del soggetto come società, ma, fermo restando il presupposto dell'esercizio effettivo di un'attività imprenditoriale, nella presunzione assoluta di riferibilità delle plusvalenze a tale attività, se posta in essere da un soggetto (quale una società costituita a tale scopo) ontologicamente tale da non poter conseguire fini diversi da quelli di lucro, e nella necessità, invece, di una ricerca di un nesso di causalità per le plusvalenze realizzate da soggetti, in ipotesi, capaci di perseguire anche fini diversi.
Così inteso però il predetto art. 20 - conclude la Corte di Cassazione - ne consegue che il suo contenuto non appare correttamente trasfuso nell'art. 106 del t.u., che fa derivare la tassabilità unicamente da un elemento meramente formale, ampliando quindi la sfera degli atti tassabili, in violazione dell'art. 63 della medesima legge n. 1 del 1956, che attribuiva all'esecutivo solo una certa discrezionalità in materia d'organizzazione dei servizi e d'attività d'accertamento dell'Amministrazione e non anche in materia di tassabilità vera e propria.
L'ordinanza é stata regolarmente notificata, comunicata e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale.
- - Dinanzi alla Corte si é costituita la S.p.a. Agricola Riviera, rappresentata e difesa dagli avv.ti proff. Gaetano Castellano e Floriano d'Alessandro, chiedendo l'accoglimento della questione.
La società osserva che la sentenza n. 32 del 1975 interpretò l'art. 20 della legge n. 1 del 1956 nel senso che la soggezione ad imposta delle plusvalenze presuppone che esse siano realizzate nell'esercizio d'attività d'impresa commerciale e che tale condizione ricorre necessariamente e costantemente soltanto per gli enti ritenuti imprenditori commerciali istituzionali, mentre in tutti gli altri casi, ossia in tutti i casi in cui l'attività d'impresa non si presenti come necessariamente esclusiva del soggetto, il nesso tra tale attività e la realizzazione della plusvalenza deve essere accertato di volta in volta.
Da questa interpretazione discende che é estraneo al contenuto normativo del citato art. 20 il principio dell'automatica tassabilità delle plusvalenze realizzate da società per azioni, con la conseguenza che l'art. 106 del t.u. deve reputarsi innovativo per questo riguardo e quindi illegittimo per eccesso di delega. Non può invero ritenersi che alla nozione di atto di società per azioni appartenga concettualmente (e quindi necessariamente) il carattere speculativo, ossia d'impresa commerciale. Una tale equiparazione é, infatti, resistita sia dall'erroneità dell'identificazione della società con l'impresa esercitata in forma collettiva sia dalla possibilità d'utilizzare il tipo della società azionaria per l'esercizio d'attività di (c.d.) impresa agricola sia, comunque, dal fenomeno della c.d. neutralizzazione delle strutture societarie, il cui rigido legame con una causa-scopo determinati, quale potrebbe essere l'esercizio d'attività speculativa ovvero d'impresa commerciale, pur sussistendo in origine, si é successivamente attenuato fino a scomparire del tutto.
- - Si é altresì costituita l'Amministrazione delle Finanze, rappresentata e difesa dall'Avvocatura Generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata inammissibile per manifesta irrilevanza o, comunque, infondata.
Quanto alla rilevanza, l'Avvocatura osserva che nel ricorso per cassazione l'Amministrazione aveva lamentato, in primo luogo, l'omessa motivazione sul punto della natura (agricola o commerciale) dell'attività imprenditrice svolta, facendo presente che, essendo stata la società ammessa al concordato preventivo, la sua attività doveva considerarsi necessariamente commerciale; ed aveva sostenuto, in secondo luogo, che la tassabilità delle plusvalenze doveva riconoscersi a prescindere dalla natura agricola o commerciale dell'attività, svolgendo la società attività d'impresa. Con il ricorso incidentale la contribuente aveva invece sostenuto che con l'apertura della procedura concorsuale era venuto meno l'esercizio normale dell'impresa e che, pertanto, nella specie non esistendo impresa, non vi poteva essere tassazione di plusvalenze, senza dimostrazione dell'intento speculativo fin dall'acquisto. É, pertanto, manifestamente evidente l'irrilevanza della proposta questione di legittimità costituzionale, dal momento che nella specie é pacifico lo svolgimento, da parte della società contribuente, di attività imprenditoriale, controvertendosi soltanto in ordine alla natura (commerciale od agricola) dell'attività stessa ed alla necessità dello svolgimento dell'attività imprenditoriale al momento dell'alienazione del bene.
Quanto al merito, l'Avvocatura osserva che il presunto contrasto fra l'art. 20 e l'art. 106 consisterebbe nella circostanza che, nel primo, la presunzione d'attività speculativa sarebbe legata all'esercizio dell'attività d'impresa mentre nel secondo la stessa presunzione sarebbe legata alla struttura societaria assunta a prescindere dalla natura dell'attività svolta (civile o imprenditoriale). Tale contrasto in realtà non sussiste. Secondo la dottrina e la giurisprudenza assolutamente prevalenti, infatti, la nozione di imprenditore e quella di società, di cui agli artt. 2082 e 2247 cod. civ., coincidono. Ed invero, anche se l'art. 2247 non contiene l'espressa menzione dell'elemento della professionalità, mentre contiene quello dello scopo di lucro di cui non é cenno nell'art. 2082, non é dubitabile che, avendo per scopo unico l'esercizio d'una attività economica, la società svolga necessariamente in via esclusiva l'attività economica prevista nel suo oggetto e quindi l'esercizio di attività abbia il carattere della professionalità, cioè dell'attività svolta in via abituale e continuativa. D'altro lato, anche se la nozione d'imprenditore non fa riferimento espresso allo scopo di lucro, non si dubita che tale finalità, intesa in senso oggettivo (come obiettiva economicità della gestione) deve sussistere perché si abbia la figura dell'imprenditore. Se, dunque, secondo il diritto comune, v'é perfetta coincidenza fra impresa e società, nel senso che quest'ultima non é che l'esercizio collettivo dell'impresa, non può conseguentemente esservi il denunciato contrasto fra le due disposizioni in esame.
Tuttavia - prosegue l'Avvocatura - anche volendo aderire alla tesi minoritaria per la quale non vi sarebbe perfetta coincidenza fra imprenditore collettivo e società (nel senso che la società non sarebbe sempre un imprenditore) tale coincidenza dovrebbe comunque sempre affermarsi ai fini tributari.
L'art. 106, allorché assoggetta a tassazione le plusvalenze realizzate da società o da enti esercenti in via principale o esclusiva attività economiche senza necessità di provare l'intento speculativo, riprodurrebbe pertanto fedelmente il contenuto dell'art. 20 della legge n. 1 del 1956, il quale assoggetta a tassazione le società e gli enti suddetti in quanto hanno come finalità la realizzazione di un lucro così come l'imprenditore individuale ha come fine la realizzazione del lucro. Del resto, che questo sia il significato e lo spirito della norma, sarebbe confermato dall'ulteriore evoluzione della disciplina legislativa. La legislazione di riforma, infatti - come si evince, fra l'altro, dall'art. 51 d.P.R. 29 settembre 1973, n. 597, e dall'art. 12 d.P.R. 29 settembre 1973, n. 598 - assoggetta ad imposizione tutte le plusvalenze realizzate da società, siano personali che di capitale, a prescindere dalla dimostrazione sia dell'intento speculativo sia dell'esercizio dell'impresa, ritenendosi quest'ultimo connaturato alla società.
L'Avvocatura, infine, invita la Corte a correggere un errore materiale che sarebbe contenuto nel dispositivo della sentenza n. 32 del 1975 e che consisterebbe nell'uso della locuzione "commerciale" in luogo di quella "imprenditoriale", come chiaramente s'evincerebbe dalla lettura della motivazione della sentenza stessa.
- - Analoga questione di legittimità costituzionale, in riferimento all'art. 76 Cost., dell'art. 106 del t.u. n. 645 del 1958 é stata sollevata dalla Corte di Cassazione con due ordinanze, identicamente motivate, emesse il 12 dicembre 1979 (Reg. Ord. nn. 350/80 e 351/80) a seguito di ricorsi proposti dalla S.r.l. "Agricola Immobiliare" avverso decisioni della Commissione tributaria centrale che avevano affermato il principio della assoggettabilità ad imposta di R.M., per presunzione dell'intento speculativo e per il solo fatto obiettivo dell'incremento di ricchezza, delle plusvalenze realizzate dalle società indicate nell'art. 2200 c.c. anche se non esercenti attività commerciale.
Nel merito, le ordinanze contengono considerazioni analoghe a quelle già contenute nell'ordinanza precedente.
Le ordinanze sono state regolarmente notificate, comunicate e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale.
- - Nei giudizi si é costituita l'Amministrazione delle Finanze, rappresentata e difesa dall'Avvocatura Generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata inammissibile per manifesta irrilevanza o, comunque, infondata.
Sull'ammissibilità l'Avvocatura osserva che la decisione impugnata in Cassazione aveva ritenuto la tassabilità delle plusvalenze, realizzate dalla vendita dei beni sociali, prescindendo dalla dimostrazione dell'intento speculativo fin dall'acquisto, in quanto la società svolgeva un'attività imprenditrice agricola. Nel ricorso la contribuente aveva invece sostenuto che ciò era possibile solo ricorrendo l'esercizio d'impresa commerciale.
Tale tesi però - prosegue l'Avvocatura - é infondata, perché l'art. 20 citato usa la locuzione "imprese" senza indicare alcuna qualificazione dell'attività svolta, senza cioè richiedere che si tratti d'impresa commerciale o agricola o civile. Del resto la nozione d'imprenditore di cui all'art. 2082 c.c. non fa riferimento ad un'attività specifica, richiedendo soltanto che si tratti d'attività economica, cioè lucrativa. Ed é appunto la natura necessariamente lucrativa dell'impresa (quale che sia l'oggetto dell'attività: agricola o commerciale) che giustifica la presunzione della natura speculativa di tutte le operazioni compiute dall'imprenditore afferenti all'impresa e, quindi, la tassabilità delle plusvalenze ricavate dalla cessione di beni pertinenti all'impresa.
É pertanto evidente - conclude l'Avvocatura - che, nella specie, essendo pacifico che la contribuente svolgeva attività d'impresa agricola, le plusvalenze realizzate dovevano ritenersi soggette a tassazione, a prescindere dall'accertamento della costituzionalità dell'art. 106 del t.u. n. 645 del 1958, dato che la fattispecie rientra perfettamente nel disposto dell'art. 20 della legge n. 1 del 1956 e dell'art. 100 del t.u. n. 645 del 1958 che lo riproduce.
L'unico ostacolo alla dichiarazione d'irrilevanza - secondo l'Avvocatura - sarebbe dato dal dispositivo della sentenza n. 32 del 1975, che ha dichiarato illegittimo il primo comma dell'art. 106 citato "nella parte in cui prevede la tassabilità della plusvalenze e sopravvenienze attive di enti tassabili in base a bilancio, ma non esercenti attività commerciale". Si tratterebbe però, come risulterebbe chiaramente dalla motivazione della sentenza, di un errore materiale nell'uso della locuzione "commerciale" in luogo di quella "imprenditoriale", che questa Corte dovrebbe provvedere a correggere.
Nel merito l'Avvocatura ripropone le stesse considerazioni già svolte nel precedente giudizio.
Considerato in diritto
- - Le ordinanze di rimessione propongono questioni identiche od analoghe e possono, pertanto, esser discusse e decise con unica sentenza.
L'ordinanza n. 693 dell'8 marzo 1979 della Corte di Cassazione, premesso che la Commissione centrale delle imposte aveva dichiarato non dovuta dalla Società p.a. "Agricola Riviera" l'imposta di ricchezza mobile ed assimilate, per la plusvalenza realizzata mediante cessione ai creditori, in sede di concordato preventivo, di immobili di proprietà della società stessa, mancando nel soggetto tassabile la qualità d'imprenditore esercente attività commerciale, richiesta dall'art. 106 del testo unico 29 gennaio 1958, n. 645, nella formulazione risultante dalla "parziale abrogazione" conseguita alla sentenza di questa Corte del 25 febbraio 1975, n. 32; premesso che l'amministrazione delle Finanze dello Stato aveva proposto, avverso la precitata decisione, ricorso per cassazione, sostenendo la soggezione delle società per azioni, in quanto tali, all'imposizione delle plusvalenze, in sede d'imposta di ricchezza mobile; ritenuto che, anche dopo la precitata sentenza di questa Corte, rimaneva impregiudicata la questione della conformità dell'art. 106 del testo unico delle leggi sulle imposte dirette del 1958 alla norma delegante, di cui all'art. 20 della legge n. 1 del 1956, in ordine alla tassabilità delle plusvalenze delle società; proponeva questione di legittimità costituzionale, in riferimento all'art. 76 Cost., dell'art. 106, primo comma, del testo unico 29 gennaio 1958, n. 645, nella parte in cui prevede, in contrasto col disposto dell'art. 20 della legge 5 gennaio 1956, n. 1, e fuori dai limiti della delega di cui all'art. 63 della stessa legge, la tassazione in ricchezza mobile delle plusvalenze realizzate dalle società in genere, in quanto tali, indipendentemente dall'esercizio di attività imprenditoriale.
L'ordinanza del 12 dicembre 1979 della Corte di Cassazione (Reg.ord.n. 350/80) premesso che la Commissione tributaria centrale (nell'annullare la decisione della Commissione provinciale di secondo grado, impugnata dall'amministrazione finanziaria, relativa al ricorso presentato dalla Società agricola immobiliare S.C.A.I., a responsabilità limitata, avverso l'avviso d'accertamento d'un plusvalore patrimoniale realizzato a seguito di vendite immobiliari, nell'esercizio 1968/69) aveva affermato il principio dell'assoggettabilità ad imposta di ricchezza mobile, per presunzione dell'intento speculativo e per il solo fatto obiettivo dell'incremento di ricchezza, delle plusvalenze realizzate dalle società indicate dall'art. 2200 c.c., anche se non esercitino attività commerciali; premesso che la predetta Società civile agricola immobiliare (S.C.A.I.) aveva proposto ricorso per cassazione avverso la citata decisione della Commissione tributaria centrale; e premesso che, pertanto, anche dopo la sentenza di questa Corte n. 32 del 1972, rimaneva da verificare l'applicazione dell'art. 106 del testo unico delle leggi sulle imposte dirette del 1958 anche alle società di capitali (nella specie, a responsabilità limitata) che non esercitino attività commerciali; sollevava questione di legittimità costituzionale dell'articolo da ultimo citato, in riferimento all'art. 76 Cost.
L'ordinanza indicata con il n. 351 del registro ordinanze del 1980 é una copia dell'ordinanza n. 350 del 1980.
- - Vanno anzitutto disattese le eccezioni d'irrilevanza che, nei confronti delle predette ordinanze, sono state proposte dall'amministrazione finanziaria.
Anche quando fosse accertato che le società agricole innanzi citate realizzino attività imprenditoriali (il che, peraltro, non sembra, vertendosi, almeno in uno dei procedimenti a quo, anche sull'esistenza, al momento dell'acquisto e sulla perdita, al momento dell'alienazione dei beni, della qualità di "imprenditore" della società) rimarrebbe sempre da precisare, come si dirà oltre, se sia sufficiente tale generica qualità od occorra lo specifico esercizio di attività commerciali o di attività imprenditoriali di natura commerciale per rendere sottoponibili all'imposta mobiliare le plusvalenze e sopravvenienze attive di cui si discute.
Né può accedersi alla richiesta di correzione dell'"errore materiale" nel quale sarebbe incorsa la sentenza di questa Corte n. 32 del 1975 allorché, nel dispositivo, avrebbe usato la parola "commerciale" in luogo di quella "imprenditoriale". A parte le ragioni, che oltre s'indicheranno, per escludere che si tratti di "errore materiale", la verità é che appunto l'esame di merito deve chiarire con esattezza, almeno in sede di società, se, al fine di sottoporre le plusvalenze e sopravvenienze attive all'imposta di ricchezza mobile, non occorra anche l'esercizio di attività commerciali da parte delle società comunque strutturate.
Va subito precisato che le ordinanze di rimessione interpretano la sentenza di questa Corte n. 32 del 1975 nel senso che essa si riferisca soltanto agli enti non strutturati in società: il dispositivo della precitata sentenza cita, infatti, gli "enti tassabili in base al bilancio" senza alcuna specificazione e parte da casi di specie non relativi ad enti strutturati in forma societaria.
Tenuto conto di ciò, questa sentenza avrà ad oggetto soltanto le società, in relazione, s'intende, alle presunzioni di cui all'art. 106 del testo unico del 1958. In questa sede, pertanto, si verificherà l'eventuale esistenza, per le società in genere, d'un contrasto tra il primo comma dell'art. 106 del testo unico del 1958 e l'art. 20 della legge 5 gennaio 1956, n. 1.
É quasi superfluo aggiungere che l'esame che qui si svolgerà sarà altresì delimitato dalla normativa di cui alle ordinanze di rimessione; esso non potrà, dunque, tener conto dell'evoluzione legislativa in materia (della quale questa sentenza si varrà soltanto per alcuni confronti concettuali) e dovrà riferirsi alla legge n. 1 del 1956 ed al testo unico del 1958, in quanto queste leggi, e non le successive, sono, sempre a parere delle ordinanze di rimessione, le uniche applicabili ai casi di specie.
- - L'esame del merito della questione di legittimità costituzionale sollevata dalle precitate ordinanze comporta la risoluzione non di uno ma di tre quesiti.
Il primo é, certamente, quello prospettato nelle conclusioni dell'ordinanza n. 693/79: é l'art. 106, primo comma, del testo unico delle leggi sulle imposte dirette del 1958 illegittimo nella parte in cui prevede la tassazione in ricchezza mobile delle plusvalenze e sopravvenienze attive realizzate dalle società in genere, in quanto tali, indipendentemente dall'esercizio di un'attività imprenditoriale?
Se, tuttavia, si rispondesse monosillabicamente a tale quesito, si correrebbe il rischio, almeno nel caso di risposta affermativa, di considerare l'art. 106 legittimo nella parte in cui sottopone a ricchezza mobile le plusvalenze e sopravvenienze attive di società imprenditoriali ma non realizzanti "fini di lucro". In tal caso, il problema centrale, e cioè quello di verificare se é la struttura (o qualità) delle società, costituenti soggetto dell'impresa (o la forma dell'impresa) a fondare la presunzione (di "fine di lucro") ex art. 106, primo comma, oppure se é il concreto esercizio di un certo tipo o qualità di attività delle società stesse, comunque costituite, la ragione principale della citata presunzione ex art. 106, finirebbe con l'essere eluso. Invero, se si concludesse nel senso che é l'esercizio di un'impresa, quale che sia a condizionare l'assoggettamento a ricchezza mobile delle plusvalenze delle società, mentre si prescinderebbe dalla qualità dell'attività esercitata dall'impresa, si condizionerebbe il predetto assoggettamento sempre ad una "forma", l'impresa appunto; e non si indicherebbero le ragioni per le quali é quest'ultima struttura dell'attività esercitata e non la "forma" della società (che, fra l'altro, potrebbe, invece, far riferimento ad una qualità dell'attività) a generare l'assoggettamento delle plusvalenze societarie all'imposta mobiliare.
La dottrina comunemente ritiene che l'esercizio d'una impresa condizioni l'assoggettamento in discussione in quanto il legislatore "presume" che tale esercizio comporti una determinata natura (speculativa, lucrativa) dell'attività esercitata: ma, in tal caso, é la natura, presunta, dell'attività esercitata dall'impresa, e non quest'ultima, come struttura formale, la ragione della sottoposizione delle plusvalenze societarie all'imposta mobiliare.
E se, a parte il problema dell'onere della prova, risulti sicuramente esclusa in fatto, ad esempio, la natura speculativa dell'esercizio d'una determinata impresa societaria? Se mancassero, in ogni caso, in determinate attività (ad esempio agricole) fini di lucro, come sarebbe possibile "presumerli"? Vero é che, in tali casi, una presunzione legale iuris et de iure, si trasformerebbe in un'ingiustificata finzione. L'annoso problema della "presunzione" del fine di lucro, nell'esercizio delle attività od imprese commerciali, é nato dall'impossibilità o superfluità d'una prova, di volta in volta, dell'esistenza dello stesso fine, quando ad altro talune società non tendono se non a realizzare fini speculativi. Ma se questi ultimi fossero sicuramente esclusi, nell'esercizio di imprese, sia pur costituite in forma commerciale, la "presunzione legale" si trasformerebbe in sottoposizione a ricchezza mobile di plusvalenze non derivanti da attività lucrative: si tratterebbe, cioè, di redditi "non prodotti" dalla fonte.
E, da ciò, il secondo quesito, inscindibilmente connesso al primo: l'art. 106 é illegittimo nella parte in cui sottopone tutte le plusvalenze societarie ad imposta di ricchezza mobile, indipendentemente dall'esercizio d'una qualsiasi attività imprenditoriale, oppure, più particolarmente, d'una specifica attività, quella commerciale, nella quale é appunto "presumibile" il fine speculativo?
Nel rispondere a questo secondo quesito occorre subito chiarire che, anche a prescindere da ogni normativa, é logicamente impossibile ritenere che una serie di attività, mai caratterizzate da fini di lucro (ad esempio, attività di società senza impresa od esercitanti imprese agricole che non perseguono fini di lucro) acquistino, poi, "alla fine", in virtù della forma societaria, natura speculativa, "per presunzione". Come mai il risultato unitario di diversi atti, sia pure "vestito" di una certa forma, può assumere natura esattamente contraria a quella dei singoli atti componenti? É per questa ragione logica (prima che per virtù normativa) che la forma della società non può costituire il fondamento della sottoponibilità del reddito (prodotto) derivante dalle plusvalenze patrimoniali, realizzate dalle società stesse, all'imposta di ricchezza mobile: é, invece, l'esercizio effettivo di un'impresa commerciale o d'un'attività commerciale, per le quali é legittimo, appunto, presumere la natura speculativa, a costituire la base per l'ulteriore presunzione di cui al primo comma dell'art. 106 del testo unico del 1958.
Vero é che al primo quesito é dato rispondere solo rispondendo anche al secondo. E, da questo aspetto, sembrerebbe, almeno a prima vista, di poter affermare che l'art. 106 é illegittimo nella parte in cui sottopone le plusvalenze e sopravvenienze attive, realizzate dalle società, all'imposta di ricchezza mobile, "indipendentemente dall'esercizio di attività imprenditoriali commerciali".
Sennonché, sorge subito il terzo quesito: quid iuris nelle ipotesi in cui si tratti di attività imprenditoriali ex art. 2082 c.c., o di semplici attività, sia pur abitualmente realizzate dalle società, ex art. 2195 c.c.? Quest'ultimo quesito é anch'esso strettamente "legato" ai primi due. Dalla risposta che si va ad offrire al medesimo, risulta, infatti, ulteriormente qualificata l'illegittimità dell'art. 106: come si dirà oltre, questo articolo é illegittimo non soltanto perché dispone la sottoposizione all'imposta di ricchezza mobile delle plusvalenze e sopravvenienze attive realizzate dalle società, in quanto tali, "indipendentemente dall'esercizio di attività imprenditoriali commerciali", ma anche perché prevede la predetta sottoposizione, in via più generale, indipendentemente dall'esercizio, da parte delle società, di attività commerciali.
Ciò, peraltro, non significa che, appena una società realizzi, comunque, attività commerciali, debba essere sottoposta all'art. 106, primo comma; bensì equivale ad affermare che spetta al giudice di merito stabilire se, nei singoli casi, ed a prescindere, sempre, dalla forma della società, vi sia uno svolgimento abituale di attività commerciali da parte della società ed esista, pertanto, come si dirà oltre, un "reddito d'impresa"; che spetta, cioè, allo stesso giudice stabilire se possa farsi riferimento all'art. 8, quinto comma, del testo unico delle leggi sulle imposte dirette del 1958 (applicabilità a società che esercitano attività commerciali delle norme, previste dallo stesso testo unico, per le imprese commerciali) oppure possa applicarsi analogicamente, anche alle società non organizzate ex art. 2082 c.c. ma esercitanti attività di cui all'art. 2195 c.c., l'art. 106, primo comma, del testo unico del 1958.
- - Nell'iniziare l'esame del merito della questione va anzitutto rilevato che é soltanto considerando il modo come si sono storicamente posti i problemi, che l'art. 20 della legge n. 1 del 1956 cerca di risolvere, é possibile procedere ad una approfondita interpretazione dello stesso articolo. Se si parte dall'articolo ora citato, prescindendo dalla storia, dai precedenti dottrinali e giurisprudenziali, dai quali esso, si può dire, é nato, non soltanto non si riesce a spiegarne le incertezze ma non s'intendono appieno neppure le ragioni dell'incostituzionalità del primo comma dell'art. 106 del testo unico delle leggi sulle imposte dirette del 1958.
Vero é che, non potendosi, dal testo unico del 1877, ricavare una precisa nozione di reddito tassabile, ai fini dell'imposta di ricchezza mobile, la dottrina tentò di delineare una nozione di "reddito prodotto" che, mentre rifiutava la nozione di "reddito entrata", chiariva che le azioni umane, per essere considerate produttrici di reddito, non era sufficiente che, comunque, condizionassero il medesimo ma dovevano anche esser mosse da un "intento di lucro" oppure tendere, sia pur solo obiettivamente, a realizzare un guadagno.
Ed é in seguito a ciò che si é posto, ben prima del 1956, il problema delle plusvalenze e sopravvenienze attive: queste, ove si fosse accolta la nozione di "reddito entrata" (e cioè di reddito come "puro" incremento patrimoniale) sarebbero state senza dubbio ricondotte, quali specie, alla generale nozione di reddito tassabile, costituendo esse certamente un incremento patrimoniale. Accogliendosi, invece, dalla maggioranza della dottrina, il concetto di "reddito prodotto", le plusvalenze e sopravvenienze attive, essendo, almeno per una parte, il risultato d'un aleatorio, oggettivo, aumento patrimoniale, non erano riconducibili alla nozione di "reddito prodotto", e quindi tassabile, finché non si fosse dimostrato d'essere state realizzate anche attraverso attività speculative. E qui, per non appesantire l'esame che si va compiendo, si prescinde dalle controverse questioni sul modo d'intendere l'espressione "attività speculative" o "lucrative": la soluzione delle predette controversie non compete, infatti, a questa sede.
Risolto il problema del necessario collegamento delle plusvalenze e sopravvenienze attive con un'attività "di carattere speculativo" del soggetto passivo d'imposta, si apriva, già, all'incirca, dall'inizio di questo secolo, un'altra gravissima disputa relativa all'accertamento dell'intento speculativo o della "natura lucrativa" delle attività attraverso le quali le plusvalenze e sopravvenienze attive venivano realizzate. Ed a questo proposito é sorto il problema in ordine alla "presunzione" del carattere lucrativo delle attività realizzate dalle società (industriali e) commerciali. Il quale, pertanto, sorge come problema di presunzione della natura lucrativa delle attività svolte dalle società; e, in particolare, ovviamente, dalle società (industriali e) commerciali.
Nulla quaestio, infatti, per i privati non esercenti attività commerciali: le plusvalenze realizzate da questi ultimi andavano assoggettate all'imposta mobiliare soltanto quando si fosse accertato, di volta in volta, il collegamento delle medesime con un'attività lucrativa o con un "intento speculativo" del soggetto passivo d'imposta: ma, per le plusvalenze realizzate da commercianti o da società commerciali, era da presumersi, ope legis, l'intento speculativo oppure, potendo la presunzione legale risolversi, in concreto, in una tassazione di plusvalenze e sopravvenienze attive non speculativamente realizzate, era, sempre, da accertarsi la natura lucrativa delle attività dalle quali la plusvalenza patrimoniale derivava?
Dottrina e giurisprudenza erano, in ordine alla risposta da dare a questo interrogativo, grandemente incerte: si dibattevano tra l'orientamento per il quale, anche nel caso di società commerciali, la tassabilità, quale reddito, del plusvalore realizzato dalla rivendita d'un immobile era da ritenersi subordinata all'intento speculativo nell'acquisto dell'immobile stesso (a meno che la speculazione in compravendite immobiliari costituisse l'oggetto normale dell'attività della società) e l'orientamento secondo il quale, mentre le plusvalenze relative ai beni "strumentali" dell'impresa dovevano esser sempre assoggettate all'imposta mobiliare, la tassazione delle plusvalenze relative a beni estranei all'impresa era subordinata alla sussistenza dell'intento speculativo, tranne che si fosse trattato di società commerciali, per le quali doveva sempre presumersi il carattere lucrativo dei relativi "incrementi patrimoniali".
Il criterio "soggettivo" ora indicato, riferito alla società (e non all'attività esercitata dalla medesima) costituiva, pertanto, il risultato d'una "presunzione", relativa, tuttavia, alla natura lucrativa dell'attività esercitata. Per le società aventi la speculazione in compravendite immobiliari quale oggetto normale delle attività, si "presumeva" che tutte le compravendite fossero speculativamente realizzate e tutti i plusvalori derivanti dalle medesime dovessero, in conseguenza, essere tassati. Oppure: trattandosi di società commerciali, veniva a presumersi il carattere speculativo di tutte le attività realizzate; e, pertanto, tutte le plusvalenze e sopravvenienze attive derivanti da compravendite, anche di beni "estranei" all'esercizio dell'impresa delle società commerciali stesse, dovevano esser tassate in ricchezza mobile. Ci si riferiva, insomma, sempre, oggettivamente, alla natura dell'attività esercitata dalla società commerciale, anche se la forma commerciale o l'oggetto (lucrativo) normale della società rendevano "presumibile" tale natura. Di qui l'inizio della concezione per la quale sarebbe la forma della società, o l'oggetto normale della medesima, a condizionare, prescindendo da ogni altra indagine, l'assoggettamento delle plusvalenze e sopravvenienze attive, comunque realizzate dalle società, all'imposta di ricchezza mobile.
Sennonché, la concezione da ultimo riportata é nettamente respinta dall'art. 20 della legge n. 1 del 1956.
L'articolo ora citato pone un punto fermo: distinguendo le attività "afferenti all'esercizio dell'impresa" dalle rimanenti, sancisce che "soltanto" per le prime gli imprenditori diversi dalle società e dagli enti tassabili in base a bilancio sono tenuti a scontare le plusvalenze, indipendentemente dalla prova dell'esistenza dell'intento speculativo; mentre, in generale, per le "imprese" delle società, in qualsiasi forma costituite, tutte le plusvalenze realizzate, distribuite od iscritte in bilancio, concorrono a formare il reddito imponibile.
Soprattutto nei confronti di chi riteneva che, talvolta, come nel caso delle società per azioni, la connessione tra l'intento speculativo ed il lucro "di differenze" si presumesse sempre, l'art.20 della legge 5 gennaio 1956 n. 1 "risponde" che "mai" il modo di costituzione, la struttura formale delle società può costituire il fondamento della presunzione secondo la quale tutte le plusvalenze, indipendentemente dalla loro connessione con attività afferenti all'esercizio dell'impresa, concorrono a formare il reddito imponibile di società ed enti tassabili in base a bilancio: il primo comma dell'articolo in esame inizia appunto statuendo che "I maggiori valori delle attività delle imprese, in qualsiasi forma costituite, concorrono a formare il reddito imponibile...".
Tenuto conto dei ricordati precedenti storici, l'articolo in discussione non poteva che fondare la predetta presunzione soltanto sull'esercizio effettivo di un'attività, sulla natura di un'attività che, appunto, si presumeva caratterizzata da scopo di lucro. La tesi secondo la quale non é esatto che una società (commerciale) non possa compiere altro che atti di natura commerciale e che, quand'anche ciò fosse vero, non si ritrova, nel nostro sistema, un principio generale per il quale ogni atto di commercio é, per sé, atto di speculazione, viene disattesa dall'articolo in discussione: per le imprese (come si dirà oltre, commerciali) tutte le plusvalenze, e per gli imprenditori diversi dalle società e dagli enti tassabili in base a bilancio, soltanto le plusvalenze relative ad attività afferenti all'esercizio dell'impresa, si "presumono" condizionate da attività speculative.
Il criterio oggettivo, scelto dall'art. 20 della legge n.1 del 1956, in funzione del fatto che soltanto la natura lucrativa dell'attività di produzione del reddito può giustificare l'assoggettabilità all'imposta mobiliare delle plusvalenze e sopravvenienze attive, non può esser trasformato in criterio soggettivo sol perché si presume che siano lucrative tutte le attività delle "imprese" di società commerciali, che producono plusvalenze, e le attività afferenti all'esercizio dell'impresa degli enti diversi dalle società: non importa se si tratti di società per azioni od a responsabilità limitata, quale che sia il soggetto dell'impresa, si risponde tributariamente per le plusvalenze derivanti da attività commerciali.
Da ciò consegue l'imprescindibilità dell'esercizio effettivo di attività imprenditoriali di natura commerciale (o, comunque, come si preciserà più innanzi, di attività commerciali) ai fini della sottoposizione di tutte le plusvalenze, anche di quelle relative a beni estranei all'impresa, delle società, comunque costituite, all'imposta mobiliare e la non sottoposizione alla stessa imposta delle plusvalenze di società (ed enti) non svolgenti attività commerciali.
Questa Corte, peraltro, aveva già chiarito, con la sentenza 25 febbraio 1975, n. 32, che il termine "imprenditori" usato nel secondo comma dell'articolo in esame "si riferisce anche alle società ed enti tassabili in base a bilancio e che non questa forma di tassabilità ma l'esercizio di un'attività imprenditoriale caratterizzata da uno scopo di lucro costituisce il fondamento giuridico della presunzione che per esse tutte le plusvalenze o le sopravvenienze attive vanno comprese nell'accertamento del reddito imponibile".
La stessa sentenza aveva anche chiarito l'esatta interpretazione dell'articolo in discussione, rilevando che, per le società ed imprese tassabili in base a bilancio, "si presume, senza che occorra la dimostrazione, l'intento speculativo di tutte le partite attive riportate in bilancio, anche se costituite da plusvalenze o sopravvenienze attive di beni facenti parte del capitale dell'impresa stessa, mentre per le altre imprese, di cui al secondo comma, tale presunzione é limitata alle attività afferenti all'esercizio dell'impresa stessa".
- - A questo punto va fatta una precisazione.
Poiché l'amministrazione finanziaria ritiene che nel dispositivo della sentenza, ora citata, di questa Corte sia contenuto un errore "materiale", consistente nell'uso della locuzione "commerciale" in luogo di quella "imprenditoriale", va sottolineato che é impossibile rinvenire un errore "materiale" nell'uso, nel dispositivo, della locuzione "commerciale" quando, nella motivazione della predetta sentenza, dopo aver fatto riferimento ad "attività imprenditoriale caratterizzata da scopo di lucro" ed all'applicabilità, ai sensi dell'art. 8 del testo unico del 1958, delle norme di quest'ultimo, che fanno riferimento alle "imprese commerciali", anche ai soggetti indicati nello stesso articolo, che esercitano attività commerciali, si conclude ricordando che l'art. 20 del d.P.R. n. 598 del 1973 esclude la tassabilità delle plusvalenze o sopravvenienze attive di enti che "non esplicano attività imprenditoriale o commerciale". E vale aggiungere che é almeno molto discutibile, in sede di sottoposizione a ricchezza mobile delle plusvalenze societarie, la distinzione tra "attività imprenditoriale" ed "attività commerciale", giacché il riferimento all'impresa, contenuto nel primo comma dell'art. 20 della legge n. 1 del 1956 (come innanzi notato e come confermato dai precedenti storici sopra ricordati) va interpretato come "specifico" riferimento all'impresa commerciale e cioè allo svolgimento di attività presuntivamente lucrative. D'altra parte, la dottrina ritiene che le plusvalenze societarie rientrino tra i redditi sottoponibili a ricchezza mobile di categoria B (diversi dai redditi di capitale, di lavoro autonomo o subordinato) tra i redditi, cioè, alla produzione dei quali concorrono insieme il capitale ed il lavoro. E va anche ricordato che l'art. 85 del testo unico del 1958, nell'esemplificare i redditi di categoria B, si riferisce appunto ai redditi derivanti dall'esercizio di imprese commerciali o da attività commerciali, ai sensi dell'art. 2195 c.c., o da operazioni speculative anche isolate.
L'art. 20 della legge n. 1 del 1956 va, dunque, interpretato nel senso che l'impresa, di cui allo stesso articolo, é da intendersi, specificamente, come impresa commerciale, ossia impresa consistente, come si preciserà meglio oltre, in abituali attività commerciali. Dall'ambito di comprensione del primo comma dell'articolo in discussione vanno escluse, pertanto, non soltanto le così dette società senza impresa ma anche le società non esercenti un'impresa commerciale e, "a fortiori", quelle che non svolgono attività commerciali.
- - La presunzione di cui al primo comma dell'art. 20 della legge n. 1 del 1956 rinvia, dunque, ad un effettivo esercizio d'impresa commerciale od almeno, come si preciserà meglio oltre, ad uno svolgimento d'un certo tipo di attività (commerciale appunto). Benché costituita in forma di società commerciale, personale o di capitali, una determinata società può, infatti, avere un oggetto non riconducibile all'art. 2195 c.c. (ad esempio, società di mera gestione od avente come unico oggetto l'esercizio di un'impresa agricola): in tal caso la medesima non diviene destinataria dell'art. 20 della legge n. 1 del 1956. Va, infatti, ricordato che, se é vero che l'art. 2249 c.c. fa obbligo alle società che hanno per oggetto l'esercizio di un'attività commerciale di costituirsi secondo uno dei tipi regolati nei capi III e seguenti del titolo quinto del libro quinto del codice civile e statuisce altresì che le società che hanno per oggetto l'esercizio di un'attività diversa sono regolate dalle disposizioni sulla società semplice; é, tuttavia, anche vero che lo stesso articolo fa salva la volontà dei soci di costituire anche una società non avente per oggetto l'esercizio di un'attività commerciale secondo uno degli altri tipi regolati nei capi III e seguenti del titolo quinto del libro quinto del codice civile. Come é stato già posto in luce dalla dottrina, non la forma commerciale della società o la sua iscrizione nel registro delle imprese ex art. 2200 c.c. comportano, pertanto, l'automatica attribuzione alla medesima del carattere imprenditoriale. L'effettivo esercizio di attività commerciale imprenditoriale, presuntivamente caratterizzata da scopo di lucro, condiziona, senza dubbio, ai sensi del primo comma dell'art. 20 della legge n. 1 del 1956, la presunzione per la quale tutte le plusvalenze patrimoniali delle società vanno comprese nel reddito imponibile. Ma anche il semplice esercizio d'un certo tipo di attività (commerciale appunto) é sufficiente, come si dirà meglio oltre, a rendere applicabili alle plusvalenze societarie, realizzate dalle predette attività, la norma di cui al primo comma dell'art. 20 della legge n. 1 del 1956. Le società che non esercitano attività commerciali devono, in ogni caso, ritenersi escluse dall'ambito d'operatività del primo comma del predetto art. 20.
Va, peraltro, sottolineato che (appunto per il fatto che non é la forma di costituzione della società che condiziona l'assoggettamento delle plusvalenze, di cui al primo comma dell'art. 20 della legge n. 1 del 1956, all'imposta di ricchezza mobile) ove una società non commerciale (ad esempio una società avente come unico oggetto l'esercizio di un'impresa agricola, anche se costituita in uno dei tipi indicati nel primo comma e nella seconda parte del secondo comma dell'art. 2249 c.c.) svolgesse, oltre alle attività previste nell'atto costitutivo, attività imprenditoriali commerciali o, comunque, attività commerciali, alle quali fossero, ad esempio, applicabili le norme del testo unico del 1958, che si riferiscono alle imprese commerciali, detta società entrerebbe, senz'altro, nell'ambito di comprensione del primo comma del più volte citato articolo 20 e, pertanto, opererebbe nei suoi confronti la presunzione di tassabilità di tutte le plusvalenze societarie realizzate, distribuite od iscritte a bilancio.
- - Se, dunque, per un verso l'interpretazione del termine "impresa", di cui al primo comma dell'art. 20 della legge n. 1 del 1956 é da restrittivamente assumersi come riferentesi alla sola "specie" dell'impresa commerciale (e non al "genere" che, contraddittoriamente rispetto alla ratio della norma, comprenderebbe anche le imprese, ad esempio agricole, eventualmente non realizzanti fini speculativi) per altro verso, l'interpretazione dello stesso termine é da estensivamente assumersi come riferentesi non ad una entità imprenditoriale avente tutti i requisiti di cui all'art. 2082 c.c.
A parte l'ampio, ed estraneo a questa sede, dibattito sull'autonomia del diritto tributario e sull'impossibilità di assumere i concetti (ed i termini) ai quali si riferisce il diritto tributario nella stessa comprensione nella quale sono assunti da altri rami del diritto, l'"impresa" alla quale allude il primo comma dell'art. 20 della legge n. 1 del 1956 non é esattamente quella di cui all'art. 2082 c.c. (...attività economica organizzata al fine della produzione o dello scambio di beni o di servizi). L'ora citato art. 20, non va dimenticato, dispone in ordine alla formazione del reddito imponibile relativamente alle plusvalenze e sopravvenienze attive: si riferisce, pertanto, al reddito d'impresa, e cioé al reddito che deriva dall'esercizio di "imprese commerciali". Preparando ed anticipando la nozione di "reddito d'impresa", che sarà limpidamente chiarita dai primi due commi dell'art. 51 del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 597, non soltanto si riferisce, restrittivamente, al reddito derivante, specificamente, dall'esercizio di imprese commerciali (e non, in generale, dall'esercizio di qualsiasi impresa) ma estensivamente, considerando non determinante la "forma" dell'impresa (come non determinante la "forma" della società), per esercizio d'imprese commerciali intende l'esercizio abituale, anche se non esclusivo, delle attività commerciali di cui all'art. 2195 del codice civile, ancorché non organizzate al fine della produzione o dello scambio di beni o servizi, e cioè anche se non organizzate nella forma civilistica dell'impresa.
Non si vede perché mai soltanto l'esercizio d'una "perfetta" impresa ex art. 2082 c.c. dovrebbe condurre all'assoggettamento delle plusvalenze societarie all'imposta di ricchezza mobile e non anche l'esercizio abituale di attività commerciali ex art. 2195 c.c.. La ratio dell'assoggettamento di tutte le plusvalenze e sopravvenienze attive all'imposta di ricchezza mobile é l'effettivo, abituale esercizio di attività commerciali, che, per presunzione legislativa, perseguono fini di lucro; non necessariamente l'esercizio di queste attività attraverso la forma dell'impresa ex art. 2082 c.c., e cioè attraverso la forma civilistica dell'impresa, "organizzata al fine della produzione o dello scambio di beni o servizi": la forma civilistica dell'impresa può ben esser sostituita, in diritto tributario, almeno ai fini della materia qui in esame, dall'esercizio abituale di attività commerciali. Diversamente, si darebbe luogo ad una sperequazione contrastante, in maniera stridente, con i fini e le ragioni delle norme che si stanno esaminando. Per queste ultime, pertanto, costituiscono redditi prodotti, validi ai fini dell'assoggettabilità delle plusvalenze all'imposta di ricchezza mobile, non soltanto i redditi realizzati dalle imprese commerciali ex art. 2082 c.c. ma anche quelli prodotti dall'esercizio abituale di attività commerciali non organizzate nella forma civilistica dell'impresa.
Mentre il primo comma dell'art. 51 del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 597, dichiara che "Il reddito d'impresa é quello che deriva dall'esercizio di imprese commerciali", il secondo comma dello stesso articolo, precisando e concettualizzando il discorso testé riferito, assunto dai precedenti legislativi, recita: "Per esercizio di imprese commerciali s'intende l'esercizio per professione abituale, ancorché non esclusiva, delle attività commerciali di cui all'art. 2195 del codice civile anche se non organizzate in forma d'impresa".
D'altra parte, lo stesso testo unico del 1958, esattamente interpretando, su questo punto, la delega legislativa, al quinto comma recita: "Ove non sia diversamente disposto, le norme del testo unico che fanno riferimento alle imprese commerciali si applicano anche ai soggetti indicati nei commi terzo e quarto, che esercitano attività commerciali...".
É, dunque, anche l'esercizio d'un certo tipo di attività (appunto commerciali), e non soltanto l'esercizio di imprese commerciali ex art. 2082 c.c., che, ai sensi dell'art. 20 della legge n. 1 del 1956, fa scattare la presunzione ex primo comma dello stesso articolo: tutte le plusvalenze societarie, anche quelle non strettamente riferentesi all'esercizio delle attività commerciali o delle imprese commerciali (relative, ad esempio, a beni, delle società, estranei all'esercizio commerciale) sono sottoponibili ad imposta di ricchezza mobile.
- - Il disposto dell'art. 20 della più volte citata legge 5 gennaio 1956, n. 1, era destinato ad essere trasfuso negli artt. 100 e 106 del testo unico sull'imposta di ricchezza mobile del 1958. Sennonché, ulteriori e, certamente, più forti contrasti si sono manifestati nell'interpretazione degli ora ricordati articoli del testo unico del 1958.
L'art. 81 del testo unico in discussione, nello stabilire i presupposti dell'imposta di ricchezza mobile, mentre nel primo comma precisa che "Presupposto dell'imposta é la produzione di un reddito netto, in denaro o in natura, continuativo od occasionale, derivante da capitale o da lavoro o dal concorso di capitale e lavoro, ovvero derivante da qualsiasi altra fonte...", nel secondo comma recita: "Costituiscono inoltre presupposto dell'imposta le plusvalenze e le sopravvenienze indicate negli artt. 100 e 106, le plusvalenze da chiunque realizzate in dipendenza di operazioni speculative nonché i premi su prestiti e le vincite di lotterie, concorsi a premio, giochi e scommesse".
Non sembra esistere "contrapposizione" tra le norme di cui al primo ed al secondo comma dell'art. 81 ora riportato. Anche i proventi di cui al secondo comma (in particolare le plusvalenze, sopravvenienze ecc.) costituiscono reddito in base al concetto generale, unitario, di reddito mobiliare di cui al primo comma: in tanto il legislatore li ha espressamente menzionati in quanto essi, pur derivando da attività lucrativa (significativa é la menzione della dipendenza da "operazioni speculative" delle plusvalenze "da chiunque realizzate") non ne costituiscono il risultato esclusivo e, per il passato, avevano dato luogo a dubbi d'inquadramento nella nozione di reddito. Precisando il concetto di reddito mobiliare, di cui al primo comma, il legislatore chiarisce che é "reddito prodotto" sia quello che deriva "unicamente" dalle fonti indicate dal primo comma sia quello che deriva, insieme, dalle predette fonti e da altri eventi non imputabili alla fonte del reddito.
In ogni caso, la dottrina che sostiene che, in base all'art. 106 dello stesso testo unico, il legislatore avrebbe accolto per i soli soggetti tassabili in base a bilancio una nozione di reddito (incremento patrimoniale anche "non" collegato ad operazioni produttive) diversa da quella accolta nelle norme generali espresse nell'art. 81, già prospetta una "disarmonia" tra l'art. 106 e l'art. 81, che prevederebbe una nozione (unitaria) di reddito mobiliare, valevole per tutti i soggetti passivi d'imposta meno che per le società ed enti tassabili in base a bilancio. Ma può una caratteristica (tassabilità in base a bilancio) attinente a modalità d'accertamento, estendere a tal punto l'oggetto dell'imposizione, da produrre come effetto, la tassabilità d'una determinata plusvalenza, se realizzata da una società per azioni e la non tassabilità della stessa plusvalenza, se realizzata, ad esempio, da una società in nome collettivo?
- - L'illegittimità costituzionale dell'art. 106 del testo unico del 1958 si profila nettamente anche nel confronto con l'art. 100 dello stesso testo unico, che trasfonde, parzialmente, il disposto dell'art. 20 della legge n. 1 del 1956.
Il precitato art. 100 ha anzitutto il merito d'aver risolto il problema, al quale, per vero, la dottrina non ha dato il dovuto rilievo, innanzi diffusamente trattato: lo "specifico" riferimento alle "imprese commerciali" della generica indicazione di "impresa" di cui all'ora citato art. 20 della legge n. 1 del 1956. La collocazione dell'art. 100 del testo unico del 1958 nella sezione seconda del capo terzo dello stesso testo, sezione il cui titolo é "Redditi delle imprese commerciali", non lascia adito a dubbi: le plusvalenze e sopravvenienze attive, di cui allo stesso articolo 100, conseguite dal realizzo di beni relativi all'impresa od appartenenti alla società, si riferiscono soltanto alle "imprese commerciali". E poiché i destinatari del disposto dell'art. 106 dello stesso testo unico é da ritenersi non debbano essere diversi da quelli dell'art. 100, quest'ultimo, esattamente interpretando l'art. 20 della legge n. 1 del 1956, precisa che il tema relativo alle plusvalenze realizzate attraverso attività e beni estranei all'esercizio dell'impresa é da riferirsi soltanto alle imprese commerciali e non, genericamente, alle "imprese".
D'altra parte, riferendosi alle imprese commerciali, l'art. 100 esclude che l'art. 106 possa disporre "presunzioni" relative a scopi di lucro di società tassabili in base a bilancio ma "non aventi fini di lucro"; ed esclude altresì che l'art. 81, nell'atto in cui distingue le plusvalenze di cui agli artt. 100 e 106 da quelle realizzate da "chiunque", in dipendenza di operazioni speculative (da dimostrare) possa assumere che tra i soggetti tassabili in base a bilancio siano comprese società (ed enti) "non aventi fini di lucro".
Malgrado la chiarissima lettera dell'art. 100, primo comma ("Concorrono a formare il reddito imponibile le plusvalenze, compreso l'avviamento, derivanti dal realizzo di beni relativi all'impresa..." ; "Nei confronti delle società indicate nell'art. 2200 del codice civile si considerano relativi all'impresa tutti i beni ad essa appartenenti e le plusvalenze..."); e malgrado chiaramente lo stesso articolo, come si é già notato allorché si sono ricordati i precedenti storici dell'art. 20 della legge n. 1 del 1956, chiudendo un annoso dibattito, precisi che, in generale, soltanto le plusvalenze derivanti dal realizzo di beni "relativi all'impresa " concorrono a formare il reddito mobiliare imponibile (ad eccezione delle società indicate nell'art. 2200 c.c. per le quali, considerandosi "relativi all'impresa" tutti i beni appartenenti alle predette società, concorrono a formare lo stesso reddito tutte le plusvalenze derivanti dal realizzo di tutti i beni appartenenti alle società) anche per l'articolo in esame é stato posto il problema delle plusvalenze delle società non imprenditoriali. Sennonché la dottrina e la giurisprudenza hanno chiarito che il fatto che la norma consideri come "relativi all'impresa" tutti i beni delle società costituite in forma commerciale, importa che la vis attractiva dell'impresa, lungi dal comportare l'imprenditorialità delle società indicate nell'art. 2200 c.c., presuppone, appunto, l'esercizio effettivo dell'impresa. Le società che non esercitano un'impresa commerciale (o che non esercitano alcuna attività commerciale) sono, pertanto, certamente fuori dell'ambito di comprensione del disposto dell'articolo 100 del testo unico del 1958.
- - Analoghe conclusioni vanno prese in relazione all'art. 106 dello stesso testo unico.
Sennonché, la lettera dell'articolo ora citato contrasta nettamente con l'interpretazione prima offerta dell'art. 20 della legge n. 1 del 1956, e cioè con la norma delegante e contrasta anche con quanto s'é sopra osservato in relazione agli artt. 81 e 100 del testo unico in esame.
Anche l'art. 106 provvede a concludere l'annosa questione sull'assoggettabilità a ricchezza mobile delle plusvalenze e sopravvenienze attive dei soli beni "relativi all'impresa" o di tutti i beni appartenenti alla società. E, mentre nel secondo comma statuisce che, per i soggetti indicati all'art. 104, la disposizione del primo comma si applica soltanto alle plusvalenze dei beni "relativi all'impresa", nel primo comma (non avendo necessità di citare l'impresa, giacché si statuiva che concorrevano a formare il reddito imponibile tutti i beni appartenenti ai soggetti ivi indicati) s'esprime in questo modo: "Le plusvalenze di tutti i beni appartenenti ai soggetti tassabili in base a bilancio concorrono a formare il reddito imponibile...".
Il richiamo, generale, alle società (ed enti) specificati nel terzo comma dell'art. 8 del testo unico del 1958 non consente, infatti, d'escludere, almeno secondo la lettera della legge, alcuna delle predette società (ed enti) dalla sottoposizione a ricchezza mobile per le plusvalenze dei beni appartenenti alle stesse società (ed enti).
Il primo comma dell'art. 106 dovrebbe, pertanto, rivolgersi anche alle società (ed enti) tassabili in base a bilancio non esercenti un'impresa commerciale o non esercenti alcuna attività commerciale.
Il contrasto con l'art. 20 della legge n. 1 del 1956, che si riferisce, nel primo comma, ai "maggiori valori delle attività delle imprese" e nel secondo comma agli "imprenditori", non potrebbe essere più netto. Si é già sottolineato che, se é vero che per il secondo comma dell'art. 20 della legge n. 1 del 1956 "gli imprenditori diversi dalle società e dagli enti tassabili in base a bilancio e dalle altre società indicate dall'art. 2200 del codice civile" rispondono soltanto dei maggiori valori delle attività inerenti all'esercizio dell'impresa, non per questo é anche vero che le società (ed enti) tassabili in base a bilancio e le società di cui all'art. 2200 debbano rispondere, sempre, ai sensi del primo comma dello stesso articolo 20, anche se non esercenti un'impresa commerciale (od alcuna attività commerciale). L'art. 20 della legge n. 1 del 1956 statuisce soltanto che le società ed enti tassabili in base a bilancio e le altre società indicate nell'art. 2200 del codice civile sono assoggettate all'imposta di ricchezza mobile per i maggiori valori relativi a tutte le attività imprenditoriali; e cioè scontano l'imposta sulle plusvalenze realizzate ed iscritte, indipendentemente dalla loro specifica inerenza all'impresa. Anche qui la vis attractiva dell'impresa non solo non comporta l'imprenditorialità delle società predette ma appunto presuppone che queste ultime esercitino effettivamente un'impresa commerciale o realmente svolgano abitualmente attività commerciali, produttive di "redditi d'impresa" od alle quali possano applicarsi le norme del testo unico del 1958 che si riferiscono alle imprese commerciali.
Il contrasto tra l'art. 106, primo comma, del testo unico del 1958 con la più volte richiamata norma delegante é talmente stridente che una parte della dottrina, facendo perno, appunto, sulla norma delegante e sull'art. 100 del testo unico in esame, ha proposto un'interpretazione sistematica del primo comma dell'art. 106 in discussione, in base alla quale le società (ed enti) non esercenti attività commerciali sarebbero esclusi dalla comprensione dello stesso primo comma.
Sennonché, diversa dottrina, facendo perno appunto sulla lettera dell'art. 106, primo comma, ha proposto altra, opposta interpretazione sistematica, secondo la quale non soltanto l'art. 106 ma anche l'art. 100, sottoporrebbero all'imposta di ricchezza mobile tutte le plusvalenze delle società (ed enti) tassabili in base a bilancio, a prescindere dall'esercizio effettivo di attività imprenditoriali commerciali o di attività commerciali.
Né la sentenza n. 32 del 1975 di questa Corte é riuscita a sopire i contrasti, aspri, nei quali versava la giurisprudenza. In questa situazione, opportunamente le ordinanze di rimessione hanno sollevato d'ufficio una nuova eccezione d'illegittimità costituzionale del primo comma dell'art. 106 del testo unico del 1958 sotto il profilo innanzi precisato.
Le ordinanze di rimessione hanno, infatti, permesso un riesame della norma delegante di cui all'art. 20 della legge n. 1 del 1956 che ha svelato il contrasto, sotto il profilo delle società in genere, dell'art. 106, primo comma, non solo con la norma delegante ma anche con gli artt. 81, secondo comma, e 100 dello stesso testo unico; quest'ultimi articoli hanno, infatti, rettamente interpretato le norme deleganti.
Il primo comma dell'art. 106 del d.P.R. 29 gennaio 1958, n. 645, arbitrariamente estendendo la sottoposizione ad imposta di ricchezza mobile delle plusvalenze e sopravvenienze attive di tutte, indistintamente, le società ed enti tassabili in base a bilancio (comprese le società ed enti non esercenti attività commerciali) viola l'art. 76 Cost., legiferando oltre i limiti della delega di cui all'art. 63 della legge 5 gennaio 1956 n. 1: questo articolo, infatti, consentiva al testo unico del 1958 soltanto l'eliminazione delle disposizioni in contrasto con i principi contenuti nella legge 11 gennaio 1951, n. 25 e con la stessa legge 5 gennaio 1956, n. 1 (l'art. 106, primo comma, si é esso, invece, posto in contrasto con l'art. 20 della legge n. 1 del 1956); consentiva anche modifiche utili per un migliore coordinamento delle norme nonché modifiche necessarie per soddisfare le esigenze di semplificazione nell'applicazione dei tributi, di razionale organizzazione dei servizi e di perfezionamento delle norme relative all'accertamento dei redditi: non consentiva invece, certamente, l'allargamento delle imposizioni, in ricchezza mobile, delle plusvalenze societarie già individuate dalla norma delegante.
Il primo comma dell'art. 106 del d.P.R. 25 gennaio 1958, n. 645, comprendendo nella sottoposizione ad imposta di ricchezza mobile le plusvalenze di società (ed enti) tassabili in base a bilancio non esercenti attività commerciali, rompe anche l'armonia interna del testo unico del 1958.
Va, infatti, rilevato da un canto che non può una modalità d'accertamento del reddito, e cioè la tassabilità in base a bilancio, costituire, per se stessa, fondamento per l'estensione della sottoposizione ad imposta di ricchezza mobile di plusvalenze non costituenti, per società ed enti non soggetti alla stessa modalità d'accertamento, reddito imponibile e d'altro canto che le società tassabili in base a bilancio sono destinatarie sia dell'art. 106, primo comma, sia dell'art. 100, seconda parte del primo comma; e che, pertanto, le norme di cui agli articoli ora citati vanno necessariamente coordinate. La dichiarazione d'illegittimità costituzionale dell'art. 106, primo comma, nella parte in cui non esclude le plusvalenze e sopravvenienze attive delle società che non realizzano imprese commerciali né esercitano attività commerciali, dalla sottoposizione ad imposta di ricchezza mobile vale anche, in conseguenza, ai fini del coordinamento interno del testo unico del 1958.
Va, infine, ancora una volta ribadito che la formula del dispositivo non può esser interpretata come se, "a contrario", sia necessario e sufficiente qualunque esercizio di attività commerciali a rendere sottoponibile all'imposta mobiliare le plusvalenze e sopravvenienze attive realizzate dalle società. L'articolo 106, primo comma, é illegittimo, si é già detto più volte, nella parte in cui non esclude dalla sottoposizione all'imposta mobiliare le plusvalenze e sopravvenienze attive delle società non esercenti attività commerciali: ma ciò non significa che le stesse società, per il solo fatto d'esercitare, comunque, attività commerciali, siano soggette alle presunzioni di cui all'art. 106. Presupposto necessario l'esercizio di attività commerciali, le società saranno soggette alle precitate presunzioni soltanto nelle ipotesi: 1) in cui il giudice di merito riterrà, in concreto, esistente un esercizio abituale di attività commerciali (anche se non nelle forme dell'impresa di cui all'art. 2082 c.c.) realizzativo, come si é innanzi chiarito, di "reddito d'impresa"; 2) in cui lo stesso giudice riterrà applicabili, ai sensi dell'art. 8, ultimo comma, del testo unico del 1958, le norme che si riferiscono alle imprese commerciali anche a società esercenti attività commerciali; 3) in cui il giudice di merito riterrà le norme da ultimo citate riferibili anche a società esercenti attività commerciali, in base alla sola applicazione analogica delle stesse norme.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara l'illegittimità costituzionale, in riferimento all'art. 76 Cost., dell'art. 106, primo comma, d.P.R. 29 gennaio 1958, n. 645 (testo unico delle leggi sulle imposte dirette) nella parte in cui prevede l'assoggettamento ad imposta di ricchezza mobile delle plusvalenze e sopravvenienze attive di società tassabili in base a bilancio non esercenti attività commerciali.
Così deciso in Roma, in camera di consiglio, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 22 maggio 1987.
Il Presidente: LA PERGOLA
Il Redattore: DELL'ANDRO
Depositata in cancelleria il 28 maggio 1987.
Il direttore della cancelleria: VITALE