SENTENZA N. 301
ANNO 1983
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori Giudici:
Prof. Leopoldo ELIA, Presidente
Prof. Antonino DE STEFANO
Prof. Guglielmo ROEHRSSEN
Avv. Oronzo REALE
Dott. Brunetto BUCCIARELLI DUCCI
Prof. Livio PALADIN
Dott. Arnaldo MACCARONE
Prof. Antonio LA PERGOLA
Prof. Virgilio ANDRIOLI
Prof. Giuseppe FERRARI
Dott. Francesco SAJA
Prof. Giovanni CONSO,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nei giudizi riuniti di legittimità costituzionale del d.l. Lgt. 19 ottobre 1944, n. 279 (Concessione ai contadini delle terre incolte), come integrato e modificato dal d.l. Lgt. 26 aprile 1946, n. 597, dai d.l.C.p.S. 6 settembre 1946, n. 89 e 27 dicembre 1947, n. 1710, dalla legge 18 aprile 1950, n. 199 e dall'art. 27 della legge 11 febbraio 1971, n.11, e degli artt. 1 e 2 della legge 18 aprile 1950, n. 199 (Norme modificative delle disposizioni vigenti in materia di concessione di terreni incolti ai contadini), promossi con le ordinanze emesse in data 18 novembre 1977 dal Tribunale amministrativo regionale delle Marche, 14 marzo e 18 aprile 1978 dal Consiglio di Stato - Sezione IV giurisdizionale, rispettivamente iscritte ai nn. 128 e 677 del registro ordinanze 1978 e n. 676 del registro ordinanze 1979 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 128 dell'anno 1978 nn. 59 e 332 dell'anno 1979.
Visti gli atti di costituzione di Ceccarelli Anna Maria, di Adinolfi Maria e Cecilia, della Cooperativa Ninfina e dei Prefetti di Ancona, Reggio Emilia e Latina, nonché gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nell'udienza pubblica del 15 giugno 1982 il Giudice relatore Guglielmo Roehrssen;
uditi gli avvocati Franco Pandolfi per Ceccarelli Anna Maria, Giuseppe Guarino per Adinolfi Maria e Cecilia, Guido Cervati per la Cooperativa Ninfina e l'avvocato dello Stato Renato Carafa per i Prefetti di Ancona, Reggio Emilia e Latina e per il Presidente del Consiglio dei ministri.
Ritenuto in fatto
Con ordinanza 18 novembre 1977, il TAR delle Marche - nel corso di due giudizi promossi dalla proprietaria di un terreno assegnato dal prefetto di Ancona ad una società cooperativa agricola - ha sollevato, ritenutane la rilevanza, questione di legittimità costituzionale dell'art. 1 del d.l. Lgt. 19 ottobre 1944, n. 279 e degli artt. 1 e 2 della legge 18 aprile 1950, n. 199, in riferimento agli artt. 42, 43, 44, 3, 24, 97 e 113 della Costituzione.
Nell'ordinanza si osserva che in base a tali norme i provvedimenti di assegnazione di fondi incolti prescindono da ogni indagine sulle cause che han determinato tale carente sfruttamento, sicché il proprietario può perdere il godimento del terreno anche se la mancanza o inadeguatezza della coltivazione non sia dipesa da sua volontà o colpa. Si sottolinea l'irragionevolezza di subordinare i provvedimenti di assegnazione al solo fatto obbiettivo della mancata o inadeguata coltivazione, quando ciò - come nel caso all'esame del TAR - sia avvenuto per fatto dell'affittuario, contro cui penda giudizio per la risoluzione del contratto.
La normativa impugnata contrasterebbe con la Costituzione sotto i seguenti profili:
1) L'art. 42, secondo comma, della Costituzione, nel prescrivere la funzione sociale della proprietà, ha inteso fissare un dovere di esercizio in senso rispondente alle finalità dell'ordinamento, la cui osservanza od inosservanza ha carattere volontario. Ancora il mancato rispetto della funzione sociale non può far carico al titolare del diritto se quest'ultimo - per circostanze estranee alla sua concreta disponibilità - si sia trovato in condizione di non poter attuare quel dovere e non abbia avuto modo di esercitare concretamente il godimento effettivo del bene produttivo.
2) Gli artt. 43 e 44 Cost. sarebbero violati perché il trasferimento del potere inerente all'impresa agraria viene effettuato attraverso un provvedimento avente formalmente natura non ablativa - ripetendone però la sostanza - mentre i limiti di godimento del bene in relazione alla coltivazione non appaiono fissati sulla base di idonei criteri legislativi od amministrativi e la determinazione di assegnazione del terreno incolto é avulsa dalla predisposizione di congrue direttive sulla conduzione del fondo.
3) Il carattere episodico dell'applicazione della normativa impugnata, dato che non prevede piani e programmi di intervento, sarebbe in contrasto con l'art. 3 Cost., comportando il trattamento differenziato di situazioni uguali, con l'irrogazione di provvedimenti di assegnazione in danno di alcuni soltanto dei proprietari di terre del genere senza alcuna logica.
4) La natura del provvedimento, essendo afflittivo, richiederebbe una fase di contestazione con termine per la difesa, e facoltà di dedurre gli elementi a discolpa, che la normativa non assicura. Inoltre, nel corso della fase giurisdizionale dinanzi al giudice amministrativo, mentre in materia edilizia é ammissibile la consulenza tecnica, analogo mezzo istruttorio non é consentito per le impugnazioni dei provvedimenti di assegnazione di terre incolte.
Tutto ciò comporterebbe violazione degli artt. 24, 97, primo comma, e 113 della Costituzione, violazione alla quale non ha posto rimedio la legge della reg. Marche 12 novembre 1974, n. 38.
Davanti a questa Corte si é costituita una parte privata chiedendo che la questione sollevata sia ritenuta fondata.
Si sono costituiti pure il Presidente del Consiglio dei ministri ed il prefetto di Ancona, chiedendo che la questione sia dichiarata non fondata.
L'Avvocatura dello Stato contesta il carattere punitivo dei provvedimenti di concessione delle terre incolte ed afferma che essi hanno lo scopo di realizzare la funzione sociale della proprietà, che a norma dell'art. 42 Cost. va realizzata prescindendo dallo stato soggettivo del proprietario. Allo stato soggettivo del proprietario - si osserva - parimenti non dà rilievo l'art. 44 della Costituzione.
Si contesta altresì che l'assegnazione sia avulsa dalla predisposizione di congrue direttive sulla conduzione del fondo, in quanto per l'art. 2 della legge n. 199 l'Ispettorato provinciale dell'agricoltura deve formulare il disciplinare della concessione, col quale si impartiscono al concessionario direttive sul tipo di coltura da effettuare e sulle modalità di coltivazione, ponendo adeguate garanzie per il raggiungimento dei fini di pubblico interesse perseguiti dal legislatore e salvaguardando il proprietario del terreno da una gestione improduttiva.
Quanto alla violazione del principio di uguaglianza, si osserva che questa non può sussistere, essendo ogni proprietario di fondi non adeguatamente coltivati assoggettabile alla normativa impugnata.
Quanto alle altre censure, l'Avvocatura sottolinea:
1) che il decreto del prefetto é adottato su conforme parere della commissione prevista dall'art. 1 della legge n. 199/1950, idoneo a garantire la obiettività del giudizio sullo stato del fondo e la salvaguardia delle posizioni delle parti coinvolte;
2) che l'art. 4 del d.l. Lgt. n. 597 del 1946 stabilisce che davanti alla commissione, le parti debbono comparire personalmente o a mezzo di procuratore speciale, per esporre le loro ragioni;
3) che al proprietario é consentito di agire dinanzi al giudice amministrativo a tutela del suo diritto.
Con ordinanza 14 marzo 1978, nel corso di un giudizio promosso dalla proprietaria di terre assegnate in concessione ad una cooperativa agricola, il Consiglio di Stato ha sollevato a sua volta questione di legittimità costituzionale delle stesse norme, in relazione agli artt. 3, 41, 42 e 44 della Costituzione.
Si premette che la concessione forzosa di terre insufficientemente coltivate, incide sulla proprietà dei fondi sia perché sottrae al proprietario il godimento del fondo ed esclude la sua libera scelta della destinazione economica di esso, sia perché tali limitazioni possono comportare una diminuzione di reddito, tutte le volte che l'indennità dovuta dal concessionario risulti inferiore all'utile ricavato dal proprietario; eventualità, questa, non impossibile a verificarsi, tenuto conto che l'indennità é ragguagliata al canone legale per l'affitto dei fondi rustici e che quest'ultimo é inferiore al reddito che il proprietario potrebbe ricavare con un minimo di attività colturale. L'incidenza sul diritto di proprietà é resa più sensibile dal fatto che la concessione può avere durata indeterminata, per effetto del rinvio alla disciplina dell'affitto (legge n. 11/1971).
Inoltre il sacrificio imposto al proprietario non consegue ad un atto di pianificazione territoriale (come per i vincoli urbanistici) o comunque alla comparazione imparziale di tutte le possibili soluzioni (come avviene per le espropriazioni per opere pubbliche), essendo la scelta del terreno rimessa esclusivamente al richiedente. L'organo tecnico amministrativo non ha, infatti, il potere di proporre alternative, ma può soltanto respingere la domanda, o per inidoneità del richiedente, o perché il fondo non rientra tra quelli "insufficientemente coltivati". Ma quest'ultima possibilità sarebbe in realtà solo apparente giacché la normativa, statuendo che per terreno "insufficientemente coltivato" s'intende ogni terreno "tale da potervi praticare colture o metodi colturali più attivi ed intensivi, in relazione anche alle necessità della produzione agricola nazionale", ha talmente dilatato la nozione di "terreno insufficientemente coltivato" che vi può rientrare qualunque terreno, compresi quelli condotti con la diligenza del buon padre di famiglia, i quali potrebbero rendere di più, con l'impiego di tecniche d'avanguardia o con l'apporto di nuovo macchinario.
Di fatto, pertanto, l'organo tecnico della P.A. non potrà rifiutare la concessione che in pochissimi casi, con la conseguenza che l'Amministrazione é chiamata a ratificare, a danno di una parte, la scelta insindacabile della controparte interessata.
Ciò comporterebbe la violazione del principio di uguaglianza (art. 3 Cost.) "perché il privato proprietario viene posto in condizione di soggezione (nel senso tecnico della parola) rispetto ad altri privati, piuttosto che all'autorità dell'amministrazione".
La violazione sarebbe aggravata dalla prescrizione che il giudizio si esprime sullo stato del fondo al momento della domanda, il che preclude al proprietario di evitare la concessione apportando quei miglioramenti colturali che in corso d'istruttoria si dimostrino possibili e opportuni e di presentare un programma di miglioramenti in alternativa a quelli proposti dal richiedente, sì che l'amministrazione possa compararli e attribuire il fondo al più meritevole.
Il principio di uguaglianza sarebbe violato anche perché il proprietario del fondo chiesto in concessione risulterebbe discriminato rispetto a tutti gli altri proprietari, senza alcun'altra ragione di differenziazione che l'arbitraria preferenza del richiedente.
La normativa impugnata, inoltre, sarebbe in contrasto anche con il principio di ragionevolezza, giacché il suo meccanismo é tale che i richiedenti si rivolgeranno di preferenza alle terre meglio coltivate, meglio attrezzate, meno bisognose d'investimenti.
Riguardo alla violazione degli artt. 41, 42 e 44 della Costituzione, nell'ordinanza di rimessione si osserva che:
a) la normativa in esame lederebbe la libertà dell'iniziativa economica privata, essendo il proprietario anche imprenditore, ove si tratti di terre insufficientemente coltivate e non incolte senza che tale lesione sembri riferibile a quelle attività di programmazione, coordinamento ed indirizzo a fini sociali, previste dal terzo comma;
b) violerebbe l'art. 42 Cost., in quanto a fronte del sacrificio imposto alla proprietà privata sembra stare non tanto una finalità sociale (perseguibile attraverso una pianificazione generale o quanto meno attraverso una valutazione comparata delle scelte possibili) quanto l'interesse privato del richiedente;
c) il sistema in esame non serve a "conseguire il razionale sfruttamento del suolo" e a "stabilire equi rapporti sociali" come l'art. 44 della Costituzione prescrive.
Nel giudizio così promosso si sono costituiti il Presidente del Consiglio dei ministri ed il Prefetto di Reggio Emilia (parte nel giudizio a quo), chiedendo che la questione sia dichiarata non fondata e richiamando le argomentazioni svolte nel giudizio instaurato con l'ordinanza del TAR del Lazio di cui sopra.
Con altra 18 aprile 1978, il Consiglio di Stato, in base a considerazioni analoghe alle precedenti, ha parimenti sollevato questione di legittimità costituzionale degli artt. 1 del d.l. Lgt. n. 279 del 1944, nel testo sostituito dall'art. 1 del successivo d.l. Lgt. n. 89 del 1946; dell'art. 1, commi primo e secondo, e art. 2, commi primo e secondo, della legge n. 199 del 1950, in relazione agli artt. 3, primo comma, 42, secondo comma, 44 e 113, secondo comma, della Costituzione.
In particolare, a proposito della violazione dell'art. 113 Cost., si osserva:
"Nella specie sembra, invero, prospettarsi una sostanziale elusione di tale norma, perché, se da un lato l'appuntarsi del decreto di assegnazione su un determinato terreno presuppone logicamente ed ineluttabilmente la sua avvenuta scelta fra più terreni in identico stato di incoltura, resta impedita poi al proprietario ablato la possibilità di contestare in alcun modo la legittimità di tale scelta, essendo essa rimessa non all'esercizio di una potestà amministrativa - sindacabile come tale ai sensi degli artt. 26 del r.d. 26 giugno 1924, n. 1054 e 2 e segg. della legge 6 dicembre 1971, n. 1034 - , bensì alla mera autonomia privata del soggetto richiedente, del tutto estranea, questa, alla sfera di cognizione del giudice amministrativo".
Nel giudizio si sono costituiti il Presidente del Consiglio dei ministri ed il prefetto di Latina chiedendo che la questione sia dichiarata non fondata.
Si é costituita pure una parte privata, assegnataria dei terreni di cui si controverte, chiedendo che la questione sia dichiarata non fondata e sottolineando:
a) L'assegnazione di terre incolte non deriva da distribuzione di una massa di terreno da attribuire tra più aspiranti e non é neppure una espropriazione; é l'imposizione di una contrattazione agraria strumentale alla produzione nei confronti di un proprietario terriero che é venuto meno all'obbligo di coltivare (pel che potrebbe anche essere espropriato ai sensi dell'art. 838 c.c.). Trattasi di un limite al godimento (artt. 832 c.c., 42 Cost.) per garantirne la funzione sociale (art. 42 Cost.): nulla di ablatorio in tutto ciò.
Non vi sarebbe, pertanto, alcuna ragione per condizionare l'assegnazione delle terre a piani generali e l'assegnazione di alcuni terreni a quella di tutti gli altri nelle stesse condizioni.
b) Le cooperative che chiedono l'assegnazione ed il proprietario di terre incolte non sono in situazioni giuridiche assimilabili, ma antitetiche ed il loro diritto di scelta delle terre non lede né il principio di uguaglianza né gli artt. 42 e 44 Cost. e tanto meno l'art. 113 che, nell'ottica dell'ordinanza di rimessione verrebbe ad essere leso, altrimenti, anche ogni volta che un privato chiede un provvedimento di concessione o di ammissione, essendo evidente che l'art. 113 della Costituzione non può riferirsi all'attività del privato anteriore alla emanazione dell'atto amministrativo.
Considerato in diritto
1. - Le tre ordinanze di cui in epigrafe investono, sia pure sotto diversi profili, il complesso di disposizioni legislative che hanno disciplinato in passato la materia della concessione di terre incolte: pertanto i giudizi con esse proposti possono essere riuniti ai fini di un'unica sentenza.
2. - La Corte é chiamata a risolvere alcune questioni di legittimità costituzionale concernenti le norme legislative emanate in un arco di tempo che va dall'anno 1944 all'anno 1950, nella materia della concessione a contadini delle terre non coltivate o insufficientemente coltivate.
Come é stato ripetutamente posto in luce dalla giurisprudenza amministrativa, oltre che dalla dottrina, questo complesso di norme ha avuto di mira, essenzialmente, la situazione contingente delle masse contadine in relazione soprattutto alla difficile situazione verificatasi negli anni del dopoguerra, così come era già avvenuto subito dopo la prima guerra mondiale, quando il legislatore intervenne con il r.d. 2 settembre 1919 n. 1633 e con il r.d.l. 8 ottobre 1920, n. 1465, ricalcati dalla legislazione di questo secondo dopoguerra. Con le cennate disposizioni, pertanto, si é voluto venire incontro alle pressanti esigenze di lavoro di una vasta parte del popolo italiano, apprestando un mezzo ritenuto atto a soddisfare, almeno parzialmente, una grande richiesta di lavoro e rivolgendo, quindi, l'attenzione al fenomeno della non coltivazione e della insufficiente coltivazione che investiva non poche porzioni del nostro territorio nazionale.
In questo quadro si é voluto guardare a situazioni di carattere oggettivo, di mero fatto, e cioè al cennato stato di incoltivazione o di insufficiente coltivazione dei terreni, indipendentemente dalla causa dalla quale dipendeva lo stato medesimo; volendo affrontare in maniera anche rapida (come é dimostrato dal fatto che le norme in parola hanno apposto termini, peraltro non perentori, alla autorità competente per la emanazione della decisione sulle domande di concessione: art. 5 del d.l. Lgt. n. 279 del 1944; art. 2 del d.l. 27 dicembre 1947, n. 1710; art. 2 della legge 18 aprile 1950, n. 199) una situazione che interessava altresì l'ordine pubblico in un Paese ancora in guerra o appena uscito dalla guerra, il legislatore del tempo ha ritenuto preferibile, come si é detto, guardare a dati concreti, agevolmente accertabili e che non avrebbero potuto dar luogo a contestazioni dilatorie o pretestuose.
Con il che, tuttavia, non solo non si é inteso affatto prescindere dalle esigenze della Nazione, ma anzi si é voluto venire ad esse incontro perché, come sembra evidente, ogni nuova coltivazione ed ogni miglioramento di coltivazione non può non arrecare beneficio al Paese: e del resto la cennata legislazione non ha mancato di fare esplicito richiamo, appunto, alle esigenze della produzione nazionale (art. 1 d.l. n. 279 del 1944; art. 1 d.l.C.p.S n. 89 del 1946).
Si é trattato, quindi di una legislazione di emergenza, ma non per questo disgiunta dalla considerazione delle esigenze della Nazione del suo settore agricolo.
La stessa legislazione, d'altro canto, é quasi totalmente anteriore alla Costituzione repubblicana (la sola legge n. 199 del 1950 é successiva, ma di poco). Ormai, superata la fase che si é indicata e verificatesi nuove situazioni, il legislatore é finalmente intervenuto con una nuova normativa, contenuta nella legge 4 agosto 1978, n. 440, la quale, avendo come principale finalità, come dicesi nei lavori preparatori, il "recupero delle terre", ha dettato disposizioni nuove, più ampie e più articolate, le quali, peraltro, hanno lasciato in vita il criterio secondo cui la procedura per la concessione delle terre incolte prende l'avvio dalla domanda di una organizzazione di contadini.
Ma le disposizioni della legge n. 440, prive come sono di efficacia retroattiva, non possono influire sulla valutazione della legittimità costituzionale delle norme anteriori, delle quali soltanto questa Corte oggi é chiamata a giudicare.
É nell'ambito di questo quadro, così sinteticamente riassunto, che devono essere esaminate le varie censure che le ordinanze predette hanno mosso alla anteriore legislazione e che vengono qui di seguito raggruppate nel loro ordine logico.
Le questioni non sono fondate.
3. - Una prima questione, di carattere più generale e sollevata da tutte le ordinanze, investe l'art. 1 del d.l. Lgt. 19 ottobre 1944, n. 279, come modificato con l'art. 1 del d.l.C.p.S. n. 89 del 1946, e denuncia la violazione degli artt. 4, 41, 42, 43 e 44 Cost. in quanto la libertà economica verrebbe lesa senza riferimento a programmi (anzi, si afferma, qui si avrebbe la negazione della programmazione), non si tenderebbe al razionale sfruttamento della terra né a porre in essere equi rapporti sociali, dato che le norme non portano al recupero produttivo delle terre e le organizzazioni contadine sono sempre indotte a chiedere le terre migliori. Ciò sarebbe divenuto più grave per effetto dell'art. 1 del citato d.l. n. 89 del 1946, il quale, sostituendo l'art. 1 del d.l. n. 279 del 1944, avrebbe enormemente dilatato la nozione di insufficiente coltivazione.
Premesso che le prime disposizioni sulla concessione di terre incolte sono anteriori alla Costituzione del 1947, la Corte deve anzitutto rilevare che questa in nessuna delle disposizioni che sono invocate nelle ordinanze dei giudici a quibus prevede la programmazione come obbligatoria. Peraltro non é da dubitare che le limitazioni alla libera iniziativa economica ed al diritto di proprietà devono trovare fondamento in regole ed in criteri razionali.
Ma non può dirsi che le disposizioni in questione siano irrazionali.
Da un lato, come si é veduto, esse hanno voluto far fronte a gravi situazioni contingenti e di ordine pubblico, ma dall'altro, nell'imporre il vincolo in parola, esse non si sono discostate dalle esigenze della produzione agricola nazionale. L'idea di un recupero delle terre, certamente, é in re ipsa quando a chi riceve il beneficio della concessione si impone l'obbligo di coltivare e di rendere produttive le terre: la giurisprudenza amministrativa infatti ha ripetutamente affermato che la concessione delle terre incolte ha per fine anche il potenziamento della produttività dei terreni.
A questo criterio essenziale risultano ispirate e coordinate le disposizioni censurate. Infatti, mentre la giurisprudenza vuole che prima di addivenire alla concessione occorre accertare la idoneità tecnico-finanziaria della organizzazione richiedente, la legge ha stabilito che in presenza di più domande relative al medesimo fondo il giudizio deve avvenire tenendo presenti "la forza lavorativa delle associazioni richiedenti e la capacità tecnica dei dirigenti" (art. 2 d.l. Lgt. 26 aprile 1946, n. 597); che nel disciplinare della concessione devono essere fissate le norme occorrenti per la conduzione del terreno concesso (art. 4 d.l. Lgt. n. 279); che nel decreto di concessione deve essere stabilita la data di inizio della coltivazione delle terre stesse (art. 4 cit.); e infine, che l'abbandono del terreno e la inadempienza degli obblighi stabiliti comportano la revoca della concessione (art. 6 d.l. Lgt. n. 279/1944; art. 7 d.l. n. 89/1946).
Con queste prescrizioni il legislatore non ha mancato di tenere nel dovuto conto le esigenze della produzione agricola (del resto espressamente menzionate nell'art. 1 sia del d.l. n. 279 sia del d.l.C.p.S. n. 89 del 1946) ed a queste ha adeguato la disciplina della concessione, la quale, pertanto, non appare preveduta e regolata esclusivamente in funzione delle aspirazioni dei richiedenti: tutta la attività che la P.A. deve svolgere in proposito deve essere correlata ai principi ed ai criteri, certamente non irrazionali, posti in queste disposizioni.
Che gli interessati possano richiedere la concessione delle terre che essi medesimi ritengono migliori può essere un dato di fatto esatto, ma non é in alcun modo decisivo poiché la domanda del privato, come meglio si vedrà più innanzi, costituisce oggetto di accertamenti e valutazioni da parte della P.A., alla quale spetta decidere nel merito.
Sembra appena il caso di ricordare, infine, che il fornire lavoro a persone disoccupate, contemporaneamente arrecando vantaggi alla produzione nazionale, dà luogo indubbiamente alla realizzazione di finalità sociali.
Ne consegue che, contrariamente a quanto si osserva dai giudici a quibus, non si é affatto al di fuori del disposto né dell'art. 41, terzo comma, Cost., il quale vuole che l'iniziativa economica pubblica e privata sia indirizzata a fini sociali né dell'art. 44, primo comma, Cost., il quale prevede la imposizione di obblighi e vincoli alla proprietà terriera privata "al fine di conseguire il razionale sfruttamento del suolo e di stabilire equi rapporti sociali".
4. - Le ordinanze in epigrafe, in secondo luogo, denunciano violazione dell'art. 42 sotto il profilo che la legislazione in parola contiene sostanzialmente sanzioni a carico anche dei proprietari non colpevoli, al che aggiungono che lo stesso art. 42, parlando della funzione sociale della proprietà come di "fatto volontario", imporrebbe il previo accertamento della causa in virtù della quale il precetto viene violato.
Questa censura parte da un presupposto inesatto e non conforme a quel che emerge da tutta la legislazione contestata: i provvedimenti di concessione di terre incolte ai contadini, come si é dimostrato nel precedente n. 2, non hanno carattere sanzionatorio o punitivo nei riguardi dei proprietari.
Le misure prevedute da tutta la legislazione degli anni 1944 - 50, volendo fronteggiare determinate esigenze, hanno fatto astrazione dalle cause della non coltivazione o insufficiente coltivazione e vanno adottate in considerazione soltanto di un dato di fatto obbiettivo.
Su questo punto, del resto, é pacifica anche la giurisprudenza, la quale ha sempre escluso che la legislazione in parola abbia voluto sanzionare comportamenti antisociali dei proprietari di terre.
5. - Una terza censura (sollevata con le ordinanze nn. 677/1978 e 676/1979) concerne ancora violazione degli artt. 43 e 44 Cost., assumendo che mentre i provvedimenti di concessione avrebbero carattere sostanzialmente ablatorio, la legislazione non avrebbe né fissato limiti di godimento del bene in relazione alla coltivazione né avrebbe posto le direttive necessarie per la conduzione del fondo concesso.
Anche questa censura é priva di fondamento in punto di fatto.
Ed invero:
a) - l'art. 4 del d.l. n. 279 del 1944 stabilisce che a cura dell'ispettorato agrario si deve redigere apposito disciplinare contenente le norme occorrenti alla conduzione del fondo concesso: il successivo art. 6 stabilisce che in caso di violazione degli obblighi inerenti alla conduzione si fa luogo alla decadenza della concessione. Tale disposizione é ribadita dall'art. 7 del d.l. n. 597 del 1946 e dall'art. 7 del d.l.C.p.S. n. 89 del 1946;
b) - l'art. 2 del d.l. n. 279 del 1944 stabilisce altresì che deve essere fissato anche il termine per l'inizio della coltivazione da parte del concessionario, obbligo anch'esso sanzionato con la decadenza della concessione.
É chiaro che attraverso tutte queste disposizioni si pongono in essere le direttive per l'attività che deve essere svolta dal concessionario, con ovvio riguardo allo stato dei singoli fondi, e si stabiliscono altresì i limiti al godimento del fondo medesimo, in modo da non pregiudicare i diritti del proprietario, il quale, allo scadere della concessione, riassumerà un fondo in condizioni migliori.
6) - Una quarta questione ha per oggetto la violazione dell'art. 3 Cost., in quanto, mancando piani e criteri preventivamente stabiliti, l'applicazione della legge non può essere che episodica e frammentaria ed alla P.A. rimane soltanto il potere di accogliere o respingere la domanda di concessione, il che significherebbe anche, a giudizio dei giudici a quibus, che essa é priva di poteri dinanzi alla manifestazione di volontà del privato richiedente: ne conseguirebbe ancora che il proprietario del terreno concesso verrebbe assoggettato non già alla volontà della P.A. ma a quella di altro privato.
Il Consiglio di Stato, nella ordinanza n. 676/1979 ritiene che in tale modo sia violato anche l'art. 113 Cost., perché il giudice amministrativo non ha facoltà di sindacare l'autonomia dei privati.
La Corte non ritiene di poter condividere queste affermazioni, le quali non trovano neppure esse conferma nelle norme denunciate e nei principi generali che devono essere applicati nella specie.
Come si é avuto modo di rilevare, se nel passato sono mancati piani e programmi in materia, non é certamente mancata, nella legislazione denunciata, la fissazione delle regole occorrenti per conseguire una attività amministrativa legittima e coerente, soprattutto indirizzata verso i fini che la legislazione medesima voleva perseguire: e ciò comporta senz'altro che le osservazioni delle ordinanze di rimessione sopra riportate perdono il loro punto di appoggio.
Neppure é esatto che la P.A.sia priva di poteri dinanzi alla domanda di concessione di terre incolte, potendo solo accogliere o respingere la domanda: una situazione del genere, in verità, appare del tutto normale, poiché dinanzi a qualsiasi richiesta di un privato la P.A., esperiti gli accertamenti del caso, alla fine non può concludere se non con l'accoglimento o con la reiezione della richiesta. Non diversamente avviene nella materia in esame.
Ma non può dirsi che la legge lasci la P.A. disarmata dinanzi alle domande del privato.
Tutte le norme che si sono susseguite nel tempo hanno, invece, posto in essere una procedura piuttosto complessa, nella quale si colloca come momento essenziale l'intervento di una apposita commissione a composizione mista, la cui attività (sulla quale si vedano in particolare gli artt. 3 e 4 del d.l. Lgt. n. 279 del 1944, e gli artt. 4 e 5 del d.l. Lgt. n. 597 del 1946) é stata definita inquisitoria dalla giurisprudenza amministrativa per sottolineare l'ampiezza dei suoi poteri istruttori e la facoltà di addivenire, anche con l'intervento del proprietario del fondo, a tutti gli accertamenti che ritenga necessari od utili.
A ciò la giurisprudenza ha aggiunto che la P.A. quando addiviene alla concessione, ha facoltà di stabilire le cautele occorrenti per ovviare alle possibili inadempienze del concessionario e per garantire la regolarità dei rapporti fra le parti
Tenuto conto di ciò e considerato altresì che risponde a regole generali del diritto amministrativo che la P.A. deve preventivamente accertarsi della regolarità della manifestazione di volontà del privato rivolta ad ottenere un qualsiasi provvedimento amministrativo e della esistenza di tutte le condizioni necessarie per la adozione del provvedimento medesimo, appare chiaro che anche nella materia de qua in tanto si possa procedere alla emanazione del decreto di concessione in quanto si sia preventivamente provveduto a stabilire la qualificazione e la posizione giuridica del richiedente, lo stato del terreno richiesto, i modi e termini della coltivazione da effettuare, gli eventuali oneri da imporre al concessionario
Consegue ancora non potersi dire che la legislazione in parola subordini la posizione del proprietario del terreno concesso alla sola volontà del richiedente, che rimane invece soggetta ad una serie di accertamenti e di valutazioni da compiersi dalla P.A.
Ugualmente non può ravvisarsi violazione dell'art. 11 Cost., dato che il giudice amministrativo, conoscendo della legittimità dell'atto concessorio, necessariamente può esaminare almeno la validità della cennata manifestazione del privato che chiede la concessione.
7. - Con una quinta censura si denuncia la violazione degli artt. 3, primo comma, 97, primo comma, e 113, secondo comma, Cost. sotto due profili e cioè: da un lato perché non sarebbe stato assicurato nella sua effettività il principi del contraddittorio (il proprietario del terreno richiesto potrebbe intervenire soltanto in una fase avanzata del procedimento) e dall'altro perché non sarebbe neppure prevista possibilità di addurre prove, di effettuare sopralluoghi, di fruire di consulenze tecniche.
Anche queste censure risultano infondate.
Ed invero:
a) - in ordine al primo profilo già l'art. 3 del d.l. Lgt. n. 279 del 1944, stabilendo che la commissione provinciale ivi preveduta esamina l'istanza per la concessione "sentite le parti", ha imposto la presenza del proprietario del terreno nel corso del procedimento, del quale ovviamente deve avere avuto notizia, al fine di prospettare le eventuali ragioni a suo favore.
L'art. 10 del d.l. Lgt. n. 597 del 1946 ha poi stabilito in termini più generali che, pur non dovendosi osservare le norme della procedura ordinaria, deve tuttavia essere assicurato il diritto delle parti al contraddittorio: di questa norma nello stesso d.l. Lgt. n. 597 si hanno due ulteriori precisazioni, perché l'art. 3 stabilisce che l'istanza di concessione ed il provvedimento che fissa l'udienza di comparizione devono essere notificati all'altra parte (e la giurisprudenza ha affermato che la notificazione deve essere effettuata con le norme degli artt. 137 e segg. del c.p.c.), e l'art. 4, a sua volta, tratta della comparizione delle parti dinanzi alla più volte ripetuta commissione.
Non é allora dubbio che il cennato fondamentale aspetto del diritto di difesa della proprietà nel corso del procedimento che ha inizio con le istanze di concessione e che é stato avvicinato ad un procedimento giurisdizionale (cfr. l'art. 10 del d.l. Lgt. n. 597), é senz'altro assicurato.
Rimane altresì escluso che si possa seriamente parlare (come fa il TAR delle Marche) di difesa accordata soltanto in una fase avanzata del procedimento, dato che, come si é veduto, il citato art. 3, del d.l. Lgt. n. 597 impone che la domanda di concessione sia notificata all'altra parte;
b) - quanto al profilo relativo alle prove da addurre si deve osservare che le leggi in parola non contengono alcuna norma limitativa delle possibilità per il proprietario di addurre prove o formulare richieste di accertamenti: nei procedimenti amministrativi in genere vige la regola secondo la quale ciascuna delle parti ha facoltà di addurre tutte le prove da essa ritenute utili, così come la stessa P.A. ha facoltà di procedere agli accertamenti del caso.
Del resto la possibilità di addurre prove o di richiedere ulteriori accertamenti é da ritenere insita nella necessità di chiamare il proprietario a partecipare al procedimento.
Per quel che riguarda in particolare la possibilità di sopralluoghi é anche da dire che la giurisprudenza amministrativa vi ha fatto ripetutamente riferimento nelle sue pronunce, sicché é da ritenere che mezzi di prova di tal genere non siano neppure esclusi in punto di fatto.
E non va taciuto, da ultimo, che con l'art. 6, ultimo comma, della legge n. 440 del 1978 sono stati "estesi" i poteri di cognizione e di istruzione del giudice amministrativo di legittimità per quel che riguarda i provvedimenti relativi a terre insufficientemente coltivate.
8. - La sesta ed ultima censura investe in modo particolare l'art. 5, ultimo comma, del d.l. Lgt. n. 597 del 1946, il quale stabilisce che "lo stato del fondo va accertato in rapporto al momento della presentazione della domanda di concessione". Tale disposizione violerebbe l'art. 3 Cost., in quanto in tal modo si impedisce al proprietario del terreno richiesto di apportare modifiche allo stato del fondo e di evitare la temporanea ablazione prevista dalla legge, così discriminando la sua posizione da quella dei richiedenti la concessione.
Ma anche questa censura non ha fondamento.
Mentre é ovvio che la legge doveva precisare il momento del tempo al quale fare riferimento per accertare lo stato del fondo, l'averlo fissato alla data della richiesta di concessione e l'avere così escluso che il proprietario possa procedere a modifiche non appare irrazionale in relazione alle finalità proprie della legislazione in questione, la quale, come si é detto, ha voluto venire incontro alle esigenze di lavoro delle masse contadine con disposizioni anche di semplice e rapida attuazione. E pertanto, una volta individuato un terreno incolto od insufficientemente coltivato, sembra logico che il provvedimento relativo debba fare riferimento al momento nel quale l'organizzazione contadina faccia richiesta di quel terreno, che al cessare della concessione ritornerà al suo proprietario in condizioni migliori.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale del d.l. Lgt. 19 ottobre 1944, n. 279 ("Concessione ai contadini delle terre incolte"), come integrato e modificato dal d.l. Lgt. 26 aprile 1946, n. 597 ("Norme per l'applicazione del decreto legislativo luogotenenziale 19 ottobre 1944, n. 279, relativo alla concessione delle terre incolte ai contadini"), dai d.l.C.p.S. 6 settembre 1946, n. 89 ("Nuove norme per la concessione delle terre incolte ai contadini"), 27 dicembre 1947, n. 1710 ("Norme integrative ed interpretative delle disposizioni vigenti in materia di concessione di terre incolte ai contadini"), dalla legge 18 aprile 1950, n. 199 ("Norme modificative delle disposizioni vigenti in materia di concessione di terreni incolti ai contadini") e dall'art. 27 della legge 11 febbraio 1971, n. 11 ("Nuova disciplina dell'affitto dei fondi rustici"), sollevate in riferimento agli artt. 3, 24, 42, 43, 44, 97 e 113 Cost. con le ordinanze di cui in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 29 settembre 1983.
Leopoldo ELIA - Antonino DE STEFANO - Guglielmo ROEHRSSEN - Oronzo REALE - Brunetto BUCCIARELLI DUCCI - Livio PALADIN - Arnaldo MACCARONE - Antonio LA PERGOLA - Virgilio ANDRIOLI - Giuseppe FERRARI - Francesco SAJA - Giovanni CONSO
Giovanni VITALE - Cancelliere
Depositata in cancelleria il 29 settembre 1983.