Sentenza n. 205 del 1983

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SENTENZA N. 205

ANNO 1983

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori Giudici:

Prof. Leopoldo ELIA, Presidente

Dott. Michele ROSSANO

Prof. Antonino DE STEFANO

Prof. Guglielmo ROEHRSSEN

Avv. Oronzo REALE

Dott. Brunetto BUCCIARELLI DUCCI

Avv. Alberto MALAGUGINI

Prof. Livio PALADIN

          Prof. Antonio LA PERGOLA

Prof. Virgilio ANDRIOLI

Prof. Giuseppe FERRARI

Dott. Francesco SAJA

Prof. Giovanni CONSO,

          ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nei giudizi riuniti di legittimità costituzionale degli artt. 314, 357, 358 e 61, n. 9, cod. pen. (Peculato - Nozione di pubblico ufficiale e della persona incaricata di un pubblico servizio - Circostanze aggravanti) e degli artt. 1 e 25 della legge 7 marzo 1938, n. 141 (Disposizioni per la difesa del risparmio e per la disciplina della funzione creditizia), promossi con le ordinanze emesse dalla Corte di appello di Bologna il 30 gennaio 1980, dal Tribunale di Acqui Terme il 12 marzo 1980, dal Tribunale di Torino il 20 febbraio 1980, dal Tribunale di Roma il 16 aprile 1980, dal Tribunale di Ravenna il 27 giugno 1980 e il 24 aprile 1981 e dal Tribunale di Torino il 27 marzo 1981, rispettivamente iscritte ai nn. 231, 310, 451, 680 e 707 del registro ordinanze 1980 ed ai nn. 492 e 636 del registro ordinanze 1981 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn. 85, 166, 215 e 325 del 1980, n. 304 del 1981 e n. 5 del 1982.

Visti gli atti di costituzione di Pantellini Giorgio ed altri, del fallimento della Compagnia Italiana Petrolio e della Banca Nazionale del Lavoro;

udito nella pubblica udienza del 10 marzo 1982 il Giudice relatore Guglielmo Roehrssen;

uditi l'avv. Massimo Severo Giannini, per la Banca Nazionale del Lavoro, l'avv. Giovanni Maria Flick, per Pantellini Giorgio ed altri, e l'avv. Aldo Cremonini, per il fallimento della Compagnia Italiana Petrolio.

Ritenuto in fatto

Con ordinanza 30 gennaio 1980 la Corte d'appello di Bologna - nel corso di un processo per peculato per distrazione a carico dei dipendenti della Banca Nazionale del Lavoro e di un consigliere della società CIP (Compagnia italiana petroli) - ha sollevato questione di legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 3 e 47 della Costituzione, degli artt. 314 (peculato), 357 (nozione di pubblico ufficiale) e 358 (nozione di persona incaricata di un pubblico servizio) del codice penale.

Nell'ordinanza si deduce la irrazionalità e la discriminatorietà di tali norme, giacché in forza di esse i dipendenti da enti pubblici sono sottoposti a pesanti sanzioni penali per comportamenti che, se commessi da dipendenti di enti privati, sarebbero penalmente irrilevanti o sanzionati penalmente in modo più lieve.

Si adduce che l'art. 47 della Costituzione conferisce all'attività creditizia un rilievo particolare (in chiave di disciplina, coordinamento e controllo), di senso unitario, che sembra contraddire la possibilità di distinzioni tra l'esercizio di quella attività ad opera di enti pubblici o di enti privati. Questo aspetto unitario é avvalorato dal rilievo che la legge bancaria, definendo la raccolta del risparmio e l'esercizio del credito come "funzioni di interesse pubblico", consente l'elaborazione normativa di una categoria a sé, comprensiva dell'attività creditizia svolta da operatori privati e pubblici; che essa propone modi identici di controllo sezionale, accomuna tutti gli istituti, enti e persone sotto la comune denominazione di "aziende di credito"; attribuisce la qualità espressa di pubblici ufficiali ai soli funzionari della Banca d'Italia; prevede una uniforme disciplina penale anche in relazione alle disposizioni penali contenute negli artt. 2621 e segg. del codice civile, cui gli operatori creditizi sono soggetti indipendentemente dalla appartenenza ad enti pubblici o privati.

Si sottolinea che anche il credito a medio e lungo termine, come quello ordinario, é esercitato con le stesse modalità, controlli e risorse patrimoniali, sia esso attuato da enti pubblici o privati.

Si rileva, infine, che quale che sia il soggetto da cui promana, l'esercizio dell'attività creditizia é attività tipicamente imprenditoriale e di "rischio", che non sarebbe compatibile con la soggezione a schemi e moduli di controllo anche in chiave penale, tipicamente rigidi e formalistici.

In tale situazione, l'applicazione dell'art. 314 c.p. conseguente alla genericità ed all'ampiezza della formulazione degli artt. 357 e 358 c.p. si risolverebbe in una violazione dell'art. 3 della Costituzione, configurando una ingiustificata sperequazione di trattamento tra operatori dipendenti da enti pubblici e privati, in relazione ad una identica situazione di fatto sottostante, come dimostrerebbe la circostanza che nel giudizio in corso davanti ad essa il fatto costituente reato di peculato, se commesso da un impiegato di una banca privata sarebbe stato irrilevante sotto il profilo generale "e forse elogiabile sotto quello professionale".

Si é costituita la Banca nazionale del lavoro, la quale ha chiesto che gli artt. 357, 358 e 314 c.p. siano dichiarati costituzionalmente illegittimi, in relazione all'art. 1 della legge bancaria, "in quanto qualifichino pubblico ufficiale o incaricato di un pubblico servizio e conseguentemente consentano che siano imputati di peculato per distrazione i dipendenti d'istituto di credito di diritto pubblico nell'esercizio dell'attività creditizia".

Si osserva che l'art. 314 c.p. va necessariamente integrato da norme e principi tratti da altre disposizioni di legge ed eventualmente da altri ordinamenti per la identificazione del soggetto cui il precetto é rivolto ed a tal uopo occorre riferirsi agli artt. 357 e 358 c.p., che danno la nozione di pubblico ufficiale e di incaricato di pubblico servizio agli effetti della legge penale. Ma neppure queste norme sono sufficienti perché parlano di impiegati dello Stato o di altri enti pubblici e "di ogni altro personale che eserciti una pubblica funzione - legislativa, amministrativa o giudiziaria - o un pubblico servizio", perché occorre riferirsi ad ordinamenti diversi, non penali, per l'identificazione dei concetti di pubblica funzione e di servizio pubblico.

Alcuni di questi ordinamenti hanno norme esplicite, inequivoche, (ferrovie esercitate dallo Stato o concesse all'industria privata, poste e telecomunicazioni) ed in queste ipotesi il giudice penale identifica il precetto in una norma giuridica tratta dal combinato disposto degli artt. 314, 357 e 358 c.p. e da una disposizione propria dell'ordinamento, che disciplina l'attività.

Ma la norma oggetto del presente giudizio di legittimità costituzionale deriva dal combinato disposto degli artt. 314, 357 e 358 c.p. e dei principi dell'ordinamento del credito, che contiene una norma di qualificazione esplicita, l'art. 10, esclusivamente per i funzionari della Banca d'Italia e limitatamente alla funzione di vigilanza sulle aziende di credito.

L'ordinamento del credito, quale risulta dalla legge bancaria, disciplina in modo unitario l'istituto dell'impresa bancaria e costituisce un ordinamento giuridico settoriale, ove, alla potestà di direzione e di controllo dei pubblici poteri, si aggiunge la normazione interna, cui le imprese sono assoggettate prioritariamente rispetto alla normativa primaria esterna dell'ordinamento generale. Sicché, la qualificazione giuridica delle medesime e delle loro attività non può derivare da norme di quest'ultimo (come quelli aventi ad oggetto gli esercenti pubbliche funzioni o servizi pubblici), in quanto le stesse risultano già diversamente qualificate e regolate appunto dall'ordinamento sezionale.

L'autonomia dell'ordinamento sezionale del credito é confermata dall'art. 47 Cost., la cui collocazione nel Titolo III, Parte I, relativo ai rapporti economici conferma che questo ordinamento attiene alla impresa privata ed alla sua disciplina pubblica, non ai pubblici servizi e tanto meno alle funzioni pubbliche.

La legge bancaria, dopo aver definito "funzioni di interesse pubblico" la raccolta del risparmio e l'esercizio del credito, dispone che tali funzioni sono esercitate da Istituti di credito di diritto pubblico, da Banche di interesse nazionale, da Casse di risparmio, e da Istituti, Banche ed enti ed imprese private a tale fine autorizzati (art. 1).

Tutte le Aziende di credito (di diritto pubblico o privato) sono sottoposte al controllo della Banca d'Italia.

L'applicazione degli artt. 357 e 358 in relazione all'art. 314 c.p. agli amministratori e dipendenti degli istituti di credito di diritto pubblico nell'esercizio dell'attività creditizia sarebbe in contrasto evidente con gli artt. 3 e 47 Cost. perché senza alcuna ragionevole giustificazione pone in essere un trattamento differenziato fra persone che esercitano la stessa attività, soggetta ad una stessa unitaria conforme disciplina.

Ciò vale sia per il credito ordinario, a breve termine, sia per il credito a medio e a lungo termine. Anche queste forme di credito speciale sono esercitate, infatti, da enti pubblici e privati alle stesse condizioni, con le stesse modalità e sotto gli stessi controlli.

Davanti a questa Corte si é costituito pure l'imputato Pantellini Giorgio, chiedendo anch'egli che la questione sollevata dalla Corte d'appello di Bologna sia ritenuta fondata.

Nelle note depositate si sostiene, in particolare, che la qualifica pubblicistica dell'ente non giustifica la maggiore tutela penale conseguente dall'applicabilità ai dipendenti degli artt. 357 e 358 c.p. perché "la qualità pubblicistica penale ha un carattere oggettivo (correlato cioè all'attività esercitata) e non soggettivo (correlato alla dipendenza da un ente pubblico)".

Si é costituita anche la parte civile fallimento CIP, la quale chiede invece che la questione sia dichiarata non fondata, poiché il carattere pubblico di alcune banche e non di altre spiegherebbe la pretesa disparità di trattamento.

In una successiva memoria la difesa del fallimento ha proposto anche una questione di rilevanza, assumendo che i funzionari imputati di peculato per avere distratto a favore della Banca nazionale del lavoro somme destinate ad impianti ed opere presso la società fallita, non agivano quali operatori nell'interesse della Banca nazionale del lavoro in una materia che riguardasse soltanto questo istituto nei suoi rapporti con la società fallita. La Banca nazionale del lavoro era soltanto mandataria della Sezione speciale in base ad una procura per cui la Banca si era impegnata ad istruire le domande, stipulare contratti accessori e strumentali, attuare i programmi di finanziamento; il tutto con l'impegno di usare la più scrupolosa diligenza e con l'assunzione di ogni responsabilità per danni che potessero derivare alla Sezione. A compenso di ogni prestazione la mandante si obbligava a corrispondere alla Banca nazionale del lavoro un quinto dell'interesse di conto percepito su ogni operazione.

Secondo la Corte d'appello di Bologna la rilevanza si dedurrebbe dal fatto che i funzionari della Banca nazionale del lavoro non vennero presi in considerazione come amministratori ed erogatori del fondo di Mediocredito, ma come funzionari della Banca nel momento successivo all'erogazione in cui il fondo stesso é stato utilizzato.

Ma nella realtà - si dice - invano si assumerebbe quale termine di esame di raffronto quella presunta disparità che colpirebbe gli operatori nel settore del credito appartenenti ad istituti pubblici o semi pubblici, svolgenti operazioni comuni anche agli operatori privati nel settore bancario, in quanto nel caso di specie la Banca nazionale del lavoro agiva quale mandataria della Sezione Speciale, e perciò non occorreva l'esercizio professionale di una pubblica funzione, essendo sufficiente un puro e semplice esercizio di fatto (art. 357, n. 2, c.p.). Infatti i funzionari della Banca nazionale del lavoro svolgevano in quella occasione un pubblico incarico quali mandatari di ente pubblico (istituto di diritto pubblico), quale la Sezione Speciale, attraverso una regolare investitura secondo i termini della citata procura, con la conseguente irrilevanza della ritenuta disparità di trattamento riservata dalla legge penale ai banchieri pubblici rispetto a quelli privati una volta accertata ed acquisita l'ininfluenza sulla fattispecie delle condizioni oggettive in cui versano in genere i dipendenti dagli enti di diritto pubblico esercitanti il credito dovendosi qui aver riguardo soltanto alla posizione della banca quale ente incaricato di una pubblica funzione per mandato della Sezione speciale.

Sostanzialmente identiche sono le ordinanze del Tribunale di Acqui Terme (310/1980), di Roma (680/1980), di Torino del 27 marzo 1981 (636/1981), di Ravenna (492/1981).

Il Tribunale di Torino con altra ordinanza del 20 febbraio 1980 (451/1980) impugna anche gli artt. 1 e 25 della legge bancaria, sempre per violazione degli artt. 3 e 47 Cost., ponendo in essere una disparità di trattamento nell'esercizio della attività creditizia.

Infine altra ordinanza del Tribunale di Ravenna in data 27 giugno 1980 (707/1980), sempre con riferimento agli artt. 3 e 47 Cost., denuncia anche l'art. 61, n. 9, cod. pen. relativamente alla applicazione della aggravante ivi prevista al reato commesso dal dipendente di una azienda di credito di diritto pubblico.

Considerato in diritto

1. - I giudizi promossi con le 7 ordinanze di cui in epigrafe hanno ad oggetto questioni identiche o connesse e pertanto essi vanno riuniti ai fini di un'unica pronuncia.

2. - Procedendo all'esame delle singole ordinanze predette, la Corte preliminarmente rileva:

a) l'ordinanza 27 marzo 1981 del Tribunale di Torino (n. 636/1981) é assolutamente priva di motivazione in ordine alla non manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale con essa sollevata, limitandosi ad un puro e semplice riferimento alla motivazione contenuta in ordinanze pronunciate da altri giudici.

Ma, come questa Corte ha già affermato (Ord. n. 102 e n. 140 del 1983), l'ordinanza che introduce il giudizio incidentale di legittimità costituzionale deve essere dotata di autonoma motivazione: ne consegue che il giudizio sollevato con la predetta ordinanza deve essere dichiarato inammissibile;

b) l'ordinanza 12 marzo 1980 del Tribunale di Acqui Terme (n. 310/1980) é assolutamente priva di motivazione in ordine alla rilevanza, nel giudizio a quo, della questione di legittimità costituzionale con essa sollevata ed é anche priva di qualsiasi riferimento alla fattispecie concreta sulla quale quel Tribunale era chiamato a giudicare.

Anche questa questione deve essere dichiarata inammissibile.

c) L'ordinanza del Tribunale di Torino 20 febbraio 1980 (n. 451/1980) da un lato si limita appena ad accennare alla rilevanza della questione e dall'altro non contiene riferimento alcuno alla fattispecie sulla quale il Tribunale stesso deve pronunciarsi.

Conseguentemente anche il giudizio promosso con questa ordinanza va dichiarato inammissibile.

d) Non diversa conclusione deve essere adottata nei riguardi dell'ordinanza 16 aprile 1980 del Tribunale di Roma (n. 680/1980), anche essa priva di qualsiasi cenno sulla rilevanza della sollevata questione e di qualsiasi indicazione della fattispecie.

Essa, inoltre, é motivata, per quel che attiene alla non manifesta infondatezza, con riferimento ad altre ordinanze emesse da altri giudici.

e) Inammissibile, infine, é anche l'ordinanza 24 aprile 1981, del tribunale di Ravenna (n. 492/1981), la quale, contrariamente al preciso disposto dell'art. 23, lettera a), della legge 11 marzo 1953, n. 87, non indica le disposizioni di legge che ritiene viziate da illegittimità costituzionale ma sottopone a questa Corte la questione di legittimità costituzionale "relativa al riconoscimento della qualità di pubblico ufficiale a dipendente di una azienda di credito di diritto pubblico", senza alcuna ulteriore precisazione.

3. - Inattendibile, invece, é l'eccezione di irrilevanza opposta dal fallimento CIP della questione sollevata con l'ordinanza 30 gennaio 1980 della Corte d'appello di Bologna (n. 231/1980).

Si sostiene al riguardo che gli imputati tratti a giudizio dinanzi alla Corte d'appello di Bologna erano funzionari della Banca nazionale del Lavoro, la quale, a sua volta era, in forza di apposito contratto, mandataria di una propria sezione speciale, dotata di personalità giuridica. Da ciò deriverebbe che, anche se la distrazione delle somme erogate dalla sezione speciale fosse stata effettuata da funzionari di una banca privata, mandataria della sezione speciale, al posto della Banca nazionale del lavoro, questi risponderebbero di peculato come funzionari di fatto della sezione speciale e la qualifica di pubblici ufficiali dei funzionari della Banca nazionale del lavoro sarebbe del tutto irrilevante.

Ma, a prescindere da ogni altra considerazione, le asserzioni della parte privata non trovano negli atti alcun principio di prova.

4. - Ciò premesso le questioni da esaminare sono quelle sollevate con la citata ordinanza 30 gennaio 1980 della Corte d'appello di Bologna e con l'ordinanza 27 giugno 1980 del Tribunale di Ravenna (n. 707/1980).

Con tali ordinanze la Corteviene investita del giudizio sulla legittimità costituzionale degli artt. 357, 358 e 314 c.p. in relazione all'art. 1 della legge 7 marzo 1938, n. 141 ("Disposizioni per la difesa del risparmio e per la disciplina della funzione creditizia") nonché dell'art. 61, n. 9, c.p., in riferimento agli artt. 3 e 47 Cost..

Ritengono, infatti, le ordinanze che le cennate norme del codice penale, attribuendo ai dipendenti delle banche di diritto pubblico la qualifica di pubblici ufficiali senza alcuna discriminazione, violerebbero l'art. 47 Cost., il quale avrebbe accolta una nozione unitaria delle banche, sia pubbliche sia private, tutta fondata sull'assetto privatistico, e l'art. 3 Cost., in quanto sottoporrebbero alla più grave disciplina penale propria dei pubblici ufficiali amministratori e dipendenti che svolgono funzioni del tutto identiche a quelle di amministratori e dipendenti di banche di diritto privato che a quella disciplina non sono assoggettati.

5. - La questione, così proposta, é inammissibile.

Infatti, le ordinanze di rimessione - necessariamente ancorate al requisito della rilevanza nei giudizi a quibus delle norme denunciate e degli effetti delle decisioni di questa Corte - hanno sottoposto al suo esame soltanto alcuni articoli del codice penale ma nella realtà, attraverso la denuncia di queste specifiche disposizioni, pongono in discussione il complesso delle norme penali applicabili agli istituti di credito e dalla sua valutazione globale non si può prescindere se si vuole pervenire ad una soluzione la quale sia ispirata a criteri di razionalità e coerenza.

Appare allora evidente che, una volta esaminato il cennato complesso normativo, le scelte da adottare non possono che essere rimesse alla discrezionalità del legislatore, verificandosi altrimenti il pericolo di non lasciare margini per soluzioni che si adeguino ai principi affermati particolarmente negli artt. 41 e 43 Cost.

In ogni caso tale discrezionalità non potrà che svolgersi nella considerazione globale del problema. Da questo punto di vista va rilevato che le disparità di trattamento tra amministratori e dipendenti di banche pubbliche e di banche private non si limitano alla disciplina del peculato e dell'aggravante di cui all'art. 61, n. 9, del codice penale. Invero, a parte la malversazione, esse (pur sommariamente evocate) riguardano, tra l'altro, le ipotesi di falsità nei bilanci ed in altre comunicazioni sociali, le stesse falsità in atti e documenti della banca (art. 479 c.p.), a fronte del meno grave delitto di false comunicazioni sociali previsto dall'art. 2621, n. 1, del codice civile.

V'é, inoltre, il diverso regime penale in ordine alla obbligatorietà del rapporto all'autorità giudiziaria (art. 361 c.p.). E infine rispetto alle banche pubbliche, possono profilarsi altri reati tipici contro la pubblica Amministrazione, che non trovano riscontro per le banche private, ovvero danno luogo a differenti ipotesi criminose (interesse privato: art. 324 c.p. e art. 2631 c.c.; omissione di atti di ufficio: art. 328 c.p. e art. 2625 e ss. c.c.; rivelazione di segreti e notizie riservate: art. 326 c.p. e art. 2627 c.c.).

Dinanzi a simile strumentazione penalistica ed al conseguente divario fra chi opera nelle banche pubbliche e chi opera in quelle private (divario già di per sé problematico, a seguito della nota giurisprudenza penale sulla natura di incaricati di pubblico servizio degli amministratori e funzionari degli enti bancari privati, contrasta tuttavia per taluni aspetti dagli orientamenti della giurisprudenza civile) vi é da dire che la parificazione del trattamento sanzionatorio (che viene chiesto dalle ordinanze di rimessione) non potrebbe però che competere al legislatore, al quale spetta valutare tutti i diversi profili della materia.

Del resto la parificazione, com'è prospettata nelle ordinanze, non potrebbe operarsi semplicemente adeguando il regime penalistico anzidetto a quello più favorevole, perché in questo caso si potrebbero creare altre sperequazioni, a svantaggio del settore privato, soprattutto per quanto attiene allo stato di insolvenza (cfr. in particolare art. 195, ultimo comma, legge fallimentare).

Spetta quindi alla discrezionalità del legislatore stabilire in quali termini il diritto penale dell'impresa bancaria debba inquadrarsi o risolversi in un più ampio diritto penale dell'impresa; e, soprattutto, determinare quali fattispecie criminose debbono considerarsi più idonee ai fini della prevenzione e della punizione di comportamenti fraudolenti.

É peraltro auspicabile che la materia sia presa in esame il più rapidamente possibile, nel quadro della normativa costituzionale e comunitaria.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale degli artt. 314, 357, 358 e 61, n. 9, del codice penale, 1 e 25 della legge 7 marzo 1938, n. 141 ("Disposizioni per la difesa del risparmio e per la disciplina della funzione creditizia") sollevate con le ordinanze indicate in epigrafe della Corte d'appello di Bologna, del Tribunale di Roma, del Tribunale di Acqui Terme, del Tribunale di Torino e del Tribunale di Ravenna, in riferimento agli artt. 3 e 47 della Costituzione.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, l'1 luglio 1983.

Leopoldo ELIA – Michele ROSSANO – Antonino DE STEFANO - Guglielmo ROEHRSSEN - Oronzo REALE – Brunetto BUCCIARELLI DUCCI – Alberto MALAGUGINI -  Livio PALADIN -  Antonio LA PERGOLA - Virgilio ANDRIOLI – Giuseppe FERRARI – Francesco SAJA - Giovanni CONSO

Giovanni VITALE - Cancelliere

          Depositata in cancelleria il 1 luglio 1983.