SENTENZA N. 172
ANNO 1982
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori Giudici:
Prof. Leopoldo ELIA
Prof. Antonino DE STEFANO
Prof. Guglielmo ROEHRSSEN
Avv. Oronzo REALE
Dott. Brunetto BUCCIARELLI DUCCI
Prof. Livio PALADIN
Dott. Arnaldo MACCARONE
Prof. Antonio LA PERGOLA
Prof. Virgilio ANDRIOLI
Prof. Giuseppe FERRARI
Dott. Francesco SAJA
Prof. Giovanni CONSO
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 8, comma secondo, del d.P.R. 30 marzo 1957, n. 361 (Approvazione del testo unico delle leggi recanti norme per la elezione della Camera dei deputati), promosso con ordinanza emessa il 9 dicembre 1980 dal Tribunale amministrativo regionale per il Piemonte, sul ricorso proposto da Ambrosini Giangiulio contro il Ministero di grazia e giustizia ed altro, iscritta al n. 190 del registro ordinanze 1981 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 221 del 12 agosto 1981.
Visti l'atto di costituzione di Ambrosini Giangiulio e l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nell'udienza pubblica del 15 giugno 1982 il Giudice relatore Francesco Saja;
uditi l'avv. Claudio Dal Piaz, per Ambrosini Giangiulio e l'avvocato dello Stato Carlo Carbone, per il Presidente del Consiglio dei ministri.
Ritenuto in fatto
Il dott. Giangiulio Ambrosini, magistrato di tribunale con funzioni di giudice del Tribunale di Torino, veniva collocato in aspettativa per motivi elettorali a decorrere dal 27 aprile 1979 e fino alla proclamazione dell'esito della consultazione del giugno successivo, nella quale il medesimo, presentatosi candidato per la Camera dei deputati, risultava non eletto.
Con decreto presidenziale del 4 dicembre 1979, emesso su conforme deliberazione del Consiglio superiore della magistratura, il dott. Ambrosini veniva richiamato in servizio ed assegnato d'ufficio alla Pretura di Roma, in applicazione dell'art. 8, secondo comma, d.P.R. 30 marzo 1957 n. 361 (testo unico delle leggi recanti norme per l'elezione della Camera dei deputati) secondo cui i magistrati che sono stati candidati e non sono stati eletti non possono esercitare per un periodo di cinque anni le loro funzioni nella circoscrizione nei cui ambito si sono svolte le elezioni.
Egli ricorreva al Tribunale amministrativo regionale del Piemonte contro il detto provvedimento e il giudice adito, con ordinanza del 9 dicembre 1980, sollevava questione di legittimità costituzionale dell'art. 8, secondo comma, citato.
Il Tribunale dubita anzitutto che la disposizione contrasti col principio di eguaglianza di cui all'art. 3 Cost., ponendo i magistrati, rispetto agli altri pubblici dipendenti, in una situazione di sfavore non giustificato dalla necessaria salvaguardia della loro indipendenza ed imparzialità.
Il Tribunale dubita altresì che la norma in questione contrasti con l'art. 51, primo comma, Cost. risolvendosi essa, per gli effetti pregiudizievoli sul rapporto di servizio del magistrato, in una ingiustificata limitazione al diritto di accesso alle cariche elettive, nonché con lo stesso art. 51, terzo comma, ultima parte, che attribuisce ai candidati eletti il diritto di conservare il posto di lavoro.
Infine il Tribunale prospetta il dubbio di contrasto tra la disposizione impugnata e l'art. 107, primo comma, Cost., poiché essa limita l'autonomia di giudizio del Consiglio superiore della magistratura, affidandogli la mera ricezione di scelte già operate in sede politica e di conseguenza rigidamente prefigurate dal legislatore ordinario.
L'ordinanza, regolarmente notificata e comunicata, é stata pubblicata nella G. U. n. 221 del 12 agosto 1981.
La parte privata si é costituita chiedendo dichiararsi la illegittimità costituzionale della norma denunziata.
La Presidenza del Consiglio dei ministri, intervenuta, nega che il trattamento differenziato, riservato ai magistrati dalla disposizione impugnata, sia privo di giustificazione, stante la non assimilabilità della funzione giudiziaria alle altre funzioni pubbliche; non assimilabilità dimostrata, tra l'altro, dalle disposizioni degli artt. 101 (soggezione del giudice soltanto alla legge) e 104 (autonomia e indipendenza della magistratura) Cost.
L'art. 8 d.P.R. n. 361 del 1957 si giustifica costituzionalmente, secondo l'interveniente, in quanto serve ad assicurare che il giudice non solo sia ma anche appaia imparziale, prevenendo perciò il sospetto che, nella circoscrizione in cui non é stato eletto, egli possa essere influenzato da risentimenti per l'esito non favorevole della candidatura. Nega, infine, l'interveniente che il giudice fornito di competenza territoriale limitata sia ingiustificatamente sfavorito di fronte al magistrato appartenente ad un organo centrale, giacché le dimensioni della competenza di quest'ultimo escludono il pericolo di inquinamento politico delle funzioni e rendono così inutile, oltreché impossibile, l'operatività della norma impugnata.
Considerato in diritto
1. - Con l'ordinanza di rimessione il Tribunale amministrativo regionale del Piemonte ha sollevato questione di legittimità costituzionale relativamente all'art. 8, secondo comma, d.P.R. 30 marzo 1957 n. 361, per cui i magistrati - esclusi quelli delle giurisdizioni superiori -, che sono stati candidati alle elezioni della Camera dei deputati e non sono stati eletti, non possono esercitare per un periodo di cinque anni le loro funzioni nella circoscrizione in cui si sono svolte le elezioni. Per il giudice a quo la norma sarebbe in contrasto:
a) con l'art. 3 primo comma della Costituzione, in quanto riserva ai magistrati un trattamento ingiustificatamente più sfavorevole rispetto ai dipendenti pubblici che svolgono funzioni non meno delicate e socialmente rilevanti di quelle giudiziarie; ed in quanto altresì la limitazione concerne soltanto i magistrati di merito e non anche quelli appartenenti alle giurisdizioni superiori;
b) con l'art. 51 primo e terzo comma della Costituzione, in quanto limita senza sufficienti giustificazioni il diritto dei magistrati all'accesso ad una carica elettiva, pregiudicando il loro rapporto di servizio;
c) con l'art. 107 primo comma della Costituzione, in quanto, in materia di inamovibilità dei magistrati, limita l'autonomia di giudizio del Consiglio superiore della magistratura, affidandogli la mera ricezione di scelte già operate in sede politica e di conseguenza rigidamente prefigurate dal legislatore ordinario.
2. - In relazione al primo profilo della censura sub a, il giudice a quo, premesso che il dovere di imparzialità é comune ai magistrati ed ai dipendenti della pubblica amministrazione, prospetta il dubbio che la ricordata limitazione del cit. art. 8, secondo comma, d.P.R. 30 marzo 1957 n. 361, sancita soltanto per i primi, confligga con l'art. 3 Cost. perché consentirebbe un'irrazionale disparità di trattamento.
La censura non sembra convincente, difettando nella specie il requisito dell'omogeneità delle situazioni giuridiche, il quale costituisce il necessario presupposto per l'applicabilità del cit. art. 3.
Il comune dovere di imparzialità non permette, invero, di parificare i magistrati ai pubblici dipendenti, essendo dalla Costituzione riservata solo ai primi, per la natura della loro funzione, una disciplina del tutto particolare, contenuta nel Titolo IV (art. 101 e segg.); questa disciplina, da un lato, assicura una posizione peculiare, dall'altro, correlativamente, comporta l'imposizione di speciali doveri.
Il principio, che é stato affermato da questa Corte con le sentenze 8 giugno 1981 n. 100 e 22 giugno 1976 n. 145, non può non essere ribadito, considerata la sua indubbia esattezza, anche nel presente giudizio.
Con l'opinione del giudice a quo contrasta, in particolare, il fatto che al magistrato é affidata la tutela giurisdizionale del cittadino rispetto agli atti della pubblica amministrazione, il che esclude la possibilità di parificazione, prospettata nell'ordinanza di rimessione, tra il giudice, a cui spetta tale potere, e il pubblico funzionario, sugli atti del quale il potere stesso viene esercitato. E contrasta altresì il fatto che il giudice opera in piena autonomia funzionale (art. 101, secondo comma, Cost.) e organica (art. 104, primo comma, Cost.), sicché non sono a lui applicabili quegli istituti connessi col principio gerarchico (potere di impartire ordini, potere sostitutivo, potere di annullamento). che consentono di controllare e condizionare l'iniziativa del singolo funzionario amministrativo.
Pertanto, non può essere ritenuta illegittima una norma, quale quella denunciata, che sancisce l'incompatibilità su indicata soltanto per i magistrati e non pure per i dipendenti della pubblica amministrazione.
3. - Nel la censura può dirsi fondata sotto il secondo profilo prospettato, secondo cui, essendo esclusi dalla limitazione i magistrati delle giurisdizioni superiori, si configurerebbe nei riguardi degli altri magistrati, ai quali l'incompatibilità si riferisce, un'ingiustificata disparità di trattamento.
Anche qui, invero, non possono ritenersi omogenee le situazioni messe a confronto.
Si potrebbe anzitutto osservare che può esservi un impedimento di natura tecnica, riuscendo impossibile o comunque estremamente difficile la destinazione ad altro ufficio del magistrato appartenente a una giurisdizione superiore (Corte di cassazione, Consiglio di Stato, Corte dei conti).
Ma quel che più conta é che il magistrato non appartenente ad una giurisdizione superiore, se non vi fosse l'incompatibilità in esame, dovrebbe necessariamente ed esclusivamente occuparsi di processi relativi alla circoscrizione in cui ha posto la sua candidatura, mentre per il magistrato della giurisdizione superiore, la quale ha competenza sull'intero territorio nazionale, la cognizione di tali processi é puramente eventuale ed episodica. Pertanto l'inconveniente, che il legislatore ha voluto evitare, si presenta nei confronti di quest'ultimo in proporzioni notevolmente minori e, peraltro, può essere completamente evitato mediante l'assegnazione di processi provenienti da altre circoscrizioni.
Tutto ciò, come si é già accennato, esclude che vi sia omogeneità tra le due situazioni, per cui deve ritenersi che il legislatore ha legittimamente predisposto una disciplina differenziata nei casi anzidetti.
4. - Il giudice a quo dubita poi della legittimità costituzionale della norma denunziata con riferimento all'art. 51, primo e terzo comma, Cost.
Il cit. art. 51, primo comma, dopo aver riaffermato il principio di eguaglianza fra tutti i cittadini per l'ammissione ai pubblici uffici e alle cariche elettive, rinvia alla legge ordinaria per la determinazione dei requisiti necessari ("Tutti i cittadini dell'uno e dell'altro sesso possono accedere agli uffici pubblici e alle cariche elettive in condizioni di eguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge"). Ed é proprio per effetto di tale rinvio che il legislatore ha fissato nelle varie leggi i requisiti attitudinali necessari e, in particolare, le cause di ineleggibilità, che sono state ritenute da questa Corte pienamente legittime se contenute entro limiti razionali. In verità, nella specie non trattasi propriamente di ineleggibilità, non incidendo la norma denunciata sull'elettorato passivo. Tuttavia, il giudice a quo rileva che la perdita della sede, in caso di soccombenza del magistrato nelle elezioni, potrebbe incidere negativamente sulla di lui volontà e sconsigliarlo a presentarsi quale candidato.
Anche sotto tale angolo visuale, la censura però non regge.
Come già accennato, infatti, non può ritenersi arbitraria e irrazionale una norma che vieta al magistrato di esercitare le funzioni giurisdizionali nella medesima circoscrizione in cui, avendovi svolto una campagna elettorale, ha verosimilmente potuto contrarre, secondo l'id quod plerumque accidit, rapporti della più diversa natura (di amicizia, di contrapposizione, di riconoscenza, di risentimento, ecc.), rapporti che potrebbero far apparire dubbia la correttezza delle sue decisioni.
Anche il limite temporale di cinque anni non sembra arbitrariamente fissato dalla legge, rientrando nel potere discrezionale del legislatore, qui quanto mai ampio, stabilire il termine entro cui possono ritenersi eliminate le possibili implicazioni personalistiche di una campagna elettorale. Si tratta, peraltro, del termine corrispondente a quello della durata normale di legislatura, durante il quale anche i magistrati eletti non hanno alcun contatto funzionale con la circoscrizione in cui si sono presentati quali candidati, perché posti in aspettativa (art. 88 d.P.R. cit.).
Né rilevano tutte quelle considerazioni, che l'ordinanza di rimessione ha ritenuto di svolgere circa la partecipazione del magistrato alla vita politica, giacché il relativo diritto, che indubbiamente in materia deve essere riconosciuto, non può non essere limitato dalla sussistenza di altri beni giuridici costituzionalmente protetti, quali il buon andamento della giustizia e il prestigio dell'ordine giudiziario (cfr. in proposito le cit. sent. n. 145/1976 e n. 100/1981).
5. - Il giudice a quo dubita poi che la norma denunciata sia in contrasto con l'art. 51, terzo comma, della Costituzione, nella parte in cui esso dispone che il chiamato a funzioni pubbliche elettive ha diritto a conservare il posto di lavoro.
Anzitutto, é da osservare al riguardo che il precetto costituzionale si riferisce al soggetto che é stato chiamato a funzioni pubbliche elettive, mentre nella specie in esame si presuppone che il magistrato sia rimasto soccombente, e solo proprio in relazione a tale soccombenza entra in funzione la disposizione denunziata.
Ma, se pure una estensione fosse possibile, é decisivo rilevare che, in precedenza, questa Corte si é occupata dell'interpretazione del precetto su indicato, ed ha ritenuto che "conservare il posto" vuol dire soltanto mantenere il rapporto di lavoro o di impiego, ma non già continuare nell'esercizio delle funzioni espletate dall'impiegato interessato (cfr. sent. 18 febbraio 1960 n. 6).
Tale criterio si fonda sul significato che la formula legislativa ha tradizionalmente nel nostro ordinamento, come con numerosi richiami la ricordata sentenza ha avuto cura di dimostrare, il che né l'ordinanza di rimessione né l'interessato hanno contestato. D'altro lato, ciò é imposto anche da esigenze logiche, in quanto, con un diverso orientamento, si avrebbero gravi inconvenienti e, in particolare, potrebbe essere compromessa la funzionalità degli uffici per i quali il personale previsto dal ruolo organico risulti già esiguo.
6. - Rimane da esaminare l'ultimo problema sollevato dall'ordinanza di rimessione, secondo cui la disposizione denunziata, sancendo direttamente l'obbligatorietà del trasferimento, contrasterebbe con l'art. 107, primo comma, Cost., in quanto sottrarrebbe al Consiglio superiore della magistratura il potere di valutare l'opportunità del trasferimento stesso.
In contrario va però brevemente osservato che la norma di riferimento indicata attribuisce al Consiglio superiore della magistratura soltanto la competenza a pronunciare il provvedimento di trasferimento ad altra sede, ma non prescrive affatto che la valutazione dei motivi debba essere necessariamente rimessa caso per caso alla discrezionalità dello stesso Consiglio e non possa, invece, essere fatta direttamente dalla legge con una disposizione generale.
Rientra, per contro, nell'ambito del potere discrezionale spettante al legislatore ordinario o provvedere direttamente con una disposizione vincolante, come avviene, oltre che nel caso qui considerato, nelle fattispecie previste dagli artt. 18 e 19 dell'ordinamento giudiziario (approvato con r.d. 30 gennaio 1941 n. 12), ovvero rimettere la valutazione nei singoli casi al Consiglio superiore (art. 2 r.d.l. 31 maggio 1946 n. 511), salva sempre la competenza dello stesso Consiglio ad emettere il relativo provvedimento.
Conclusivamente, deve dirsi che la questione in esame non é fondata.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 8, secondo comma, d.P.R. 30 marzo 1957, n. 361, sollevata con riferimento agli artt. 3 e 51, primo e terzo comma, nonché 107, primo comma, della Costituzione dal Tribunale amministrativo regionale del Piemonte con l'ordinanza in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 19 ottobre 1982.
Leopoldo ELIA - Antonino DE STEFANO - Guglielmo ROEHRSSEN - Oronzo REALE - Brunetto BUCCIARELLI DUCCI - Livio PALADIN - Arnaldo MACCARONE - Antonio LA PERGOLA - Virgilio ANDRIOLI - Giuseppe FERRARI - Francesco SAJA - Giuseppe CONSO.
Giovanni VITALE - Cancelliere
Depositata in cancelleria il 26 ottobre 1982.