SENTENZA N. 146
ANNO 1982
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori Giudici:
Prof. Leopoldo ELIA
Prof. Antonino DE STEFANO
Prof. Guglielmo ROEHRSSEN
Avv. Oronzo REALE
Dott. Brunetto BUCCIARELLI DUCCI
Prof. Livio PALADIN
Dott. Arnaldo MACCARONE
Prof. Antonio LA PERGOLA
Prof. Virgilio ANDRIOLI
Prof. Giuseppe FERRARI
Dott. Francesco SAJA
Prof. Giovanni CONSO
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 217, comma secondo, del r.d. 16 marzo 1942 n. 267 (Disciplina del fallimento, del concordato preventivo, dell'amministrazione controllata e della liquidazione coatta amministrativa) promosso con ordinanza emessa il 21 ottobre 1981 dal Tribunale di Genova nel procedimento penale a carico di Zolesi Ennio, iscritta al n. 265 del registro ordinanze 1982 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 129 del 12 maggio 1982.
Udito nell'udienza pubblica del 15 giugno 1982 il Giudice relatore Virgilio Andrioli.
Ritenuto in fatto
1.1. - Con sentenza 11 maggio 1978 il Tribunale di Genova, su richiesta del liquidatore Antonio Sivori e istanza di un creditore, dichiarò il fallimento della Comerital s.r.l. posta in liquidazione il 17 gennaio 1977. Essendo dalla relazione del curatore emerso che mancavano tutti i libri obbligatori e i registri IVA né era stata tenuta regolare contabilità, Zolesi Ennio, che era stato amministratore unico della società dalla data della costituzione (5 dicembre 1973) sino alla messa in liquidazione, fu rinviato al giudizio del Pretore di Genova peril reato di cui all'art. 217 comma secondo 1. fall. (omessa tenuta dei libri e delle scritture contabili prescritti dalla legge nei tre anni anteriori alla dichiarazione di fallimento della società) e condannato con sentenza 13 novembre 1979 alla pena, condizionalmente sospesa, di mesi sei di reclusione.
Su appello dello Zolesi, il quale dedusse che, sebbene il fallimento della società fosse stato dichiarato l'11 maggio 1978, l'omissione della tenuta dei libri risaliva ad epoca precedente al 15 marzo 1978 (data rilevante ai fini dell'applicazione della amnistia concessa con d.P.R. 4 agosto 1978 n. 213) e che per rappresentare la sentenza dichiarativa di fallimento soltanto la condizione di punibilità del reato di cui all'art. 217 comma secondo l. fall. ricorrevano gli estremi di applicabilità del beneficio, il Tribunale di Genova, Sezione I penale, dichiarò estinto il reato per amnistia con sentenza 13 marzo 1980.
La Corte di cassazione, Sezione V penale, in accoglimento del ricorso del Procuratore generale presso la Corte di appello di Genova, annullò la sentenza del Tribunale enunciando, con sentenza 23 febbraio - 27 aprile 1981, il principio di diritto che la sentenza dichiarativa di fallimento non può configurarsi come mera condizione obiettiva di punibilità ma attiene sì strettamente al reato da doversi considerare un vero e proprio elemento costitutivo del medesimo e inferendone che al fine di accertare se il delitto di bancarotta semplice ascritto allo Zolesi rientrasse o meno nel novero dei reati estinti con il decreto di amnistia doveva farsi riferimento alla data della sentenza dichiarativa del fallimento della società.
1.2. - La Sezione II penale del Tribunale di Genova in sede di rinvio ha giudicato rilevante e non manifestamente infondata, in riferimento agli artt. 3 e 27 Cost., nella parte in cui considera la sentenza dichiarativa di fallimento come elemento costitutivo del reato anziché come condizione di punibilità, la questione di legittimità dell'art. 217 comma secondo 1.fall., con ordinanza 21 ottobre 1981, notificata il 14 e comunicata il 18 del mese di gennaio 1982, pubblicata nella G. U.n. 129 del 12 maggio 1982 e iscritta al n. 265 R.O. 1982.
2.1. - In questa sede non si é costituito lo Zolesi né ha spiegato intervento il Presidente del Consiglio dei ministri.
2.2. - Alla pubblica udienza del 15 giugno 1982 il giudice Andrioli ha svolto la relazione.
Considerato in diritto
3. - Nella ordinanza di rimessione il Tribunale di Genova, premesso di essere vincolato al principio di diritto enunciato dalla Cassazione per il quale la sentenza dichiarativa di fallimento é da configurarsi (non mera condizione di punibilità del reato di bancarotta semplice ma) elemento costitutivo del reato medesimo, ha ravvisato a) violazione dell'art. 27 comma primo Cost. in ciò che la commissione del reato finirebbe con dipendere vuoi dalla condotta personale dell'imputato vuoi dal fatto di terzi che potrebbero presentare o meno (e comunque in tempi diversi) istanze di dichiarazione di fallimento del reo, b) violazione del principio di uguaglianza garantito dall'art. 3 Cost. perché ba) più imprenditori, rei di aver omesso la tenuta dei libri nello stesso periodo di tempo, sarebbero, a motivo delle diverse date delle rispettive sentenze dichiarative di fallimento, perseguiti oppure no, bb) sarebbe perseguito l'imprenditore fallito in vita e non anche l'imprenditore dichiarato fallito a sensi dell'art 11 l. fall., bc) più soci illimitatamente responsabili, sol per essere dichiarati falliti in tempi diversi, sarebbero perseguiti oppure no e bd) nell'ipotesi dell'art. 238 comma secondo l. fall., il p.m. può esercitare l'azione penale ancor prima della dichiarazione di fallimento dell'imprenditore reo di omessa tenuta di libri prescritti dalla legge.
Nelle ipotesi sub bb) e bd) il Tribunale ha ravvisato anche manifesta illogicità normativa che scaturirebbe dal concepire la dichiarazione di fallimento del reo (non come condizione di punibilità, ma) come elemento costitutivo del reato e ha reputato la questione di costituzionalità, sotto i cinque aspetti dedotta, rilevante ai fini della decisione del merito perché l'esclusione della sentenza dichiarativa di fallimento della società (11 maggio l978) dal novero degli elementi costitutivi del reato consentirebbe di applicare l'amnistia al comportamento dell'imputato Zolesi perfezionatosi in tempo anteriore alla data di applicazione del provvedimento che ebbe a concederla (15 marzo 1978) per aver egli esaurito le funzioni di amministratore unico della società al tempo della messa di questa in liquidazione (17 gennaio 1977).
4.1. - La prima argomentazione svolta sub a) dal giudice a quo é assorbita dall'altra per seconda prospettata sub bc) o, se più piace, é stata prospettata senza tener conto del dato positivo, per contro presente sub bc), che la sentenza dichiarativa di fallimento é pronunciata dal tribunale anche d'ufficio: di vero contrasta con il menzionato dato positivo il ravvisare nel comportamento, non necessitato dei terzi (rectius creditori) che s'inducano a proporre istanze di fallimento, offesa all'art. 27 comma primo Cost., se si riflette che la sentenza di fallimento può essere pronunciata dal tribunale al quale pur nella carenza di istanze di creditori - pervengano il rapporto del giudice civile, cui risulti lo stato d'insolvenza di una parte che é imprenditore, e la richiesta del pubblico ministero nella ipotesi di cui all'art. 7 l. fall., ovvero consti, in tempo successivo alla dichiarazione di fallimento della società, la esistenza di altri soci illimitatamente responsabili. Talché alle argomentazioni sub a) e bc) é da disconoscere autonoma capacità dimostrativa della difformità dagli artt. 27 comma primo e 3 comma primo Cost., della configurazione della sentenza dichiarativa di fallimento come elemento costitutivo della responsabilità del reo, per risolversi in riscritture della proposizione stessa, la cui validità attende di essere dimostrata.
V'è di più: non si può dall'operare o meno di una causa di estinzione del reato, quale l'amnistia, argomentare la consistenza degli elementi costitutivi del reato, ma, sol dopo aver verificato tale consistenza sulla base dei canoni sistematici e interpretativi propri del reato de quo agitur, é dato scrutinarese e in qual modo operino le cause di estinzione del medesimo.
4.2. - Il quale rilievo consente di negare autonoma autorità all'argomentazione sub bb), tesa dal Tribunale a porre in rilievo la vicenda del premorto il quale dalla successiva dichiarazione di fallimento trarrebbe ad un tempo il pregiudizio della reità e il vantaggio della estinzione del reato. A dire il vero, non sono ignote nel sistema positivo vicende in cui ad uno stesso fatto sono collegati effetti in varia guisa conflittuanti o dipendenti (si pensi al fenomeno della successione a titolo universale a causa di morte e alla regola di giudizio dettata dall'art. 4 c.c. per l'ipotesi in cui un effetto giuridico dipenda dalla sopravvivenza di una persona ad un'altra e non consti quale di esse sia premorta): il legislatore, facendo tesoro della comune esperienza, interviene, così come nel caso del fallito premorto reo di omessa tenuta dei libri prescritti dalla legge s'impone l'art. 105 c.p. estinguendo il reato, la consistenza dei cui elementi costitutivi deve - lo si ripete - essere rintracciata aliunde. Né, quindi, si appalesa fondato il sospetto di violazione dell'art. 3 comma primo Cost. intessuto sub bb) a proposito del trattamento di favore riservato al fallito premorto rispetto al fallito in vita, sin troppo evidente essendo che, mentre la responsabilità penale non perseguita i rei nell'Averno, va oltre l'urna la responsabilità patrimoniale, che giustifica, entro i limiti temporali segnati dall'art. 11 l. fall., il fallimento del debitore trapassato a miglior vita.
4.3. - Violazione dell'art. 3 comma secondo é dal giudice a quo ravvisata nell'ipotesi, esposta sub bd), in cui il p.m., a sensi dell'art. 238 comma secondo l. fall., può esercitare l'azione penale contro il reo di omessa tenuta dei libri prescritti dalla legge sebbene non ne sia stato ancora dichiarato il fallimento, ma la lettura della disposizione pone in chiarissima luce l'assoluta infondatezza della deduzione: il carattere lato sensu cautelare dell'azione del p.m., invero, risulta da ciò che questa può essere esercitata sol quando esista o sia contemporaneamente presentata domanda di dichiarazione di fallimento e concorrano gravi motivi, talché é d'uopo chiosare: exceptio firmat regulam.
4.4. - Rimangono le due argomentazioni sub ba) e bc), ricavate l'una dai casi di coloro, che pur rei di omessa tenuta dei libri obbligatori nello stesso periodo di tempo, sarebbero perseguiti oppure no a seconda delle date delle rispettive sentenze di fallimento, e l'altra dalle vicende di coloro, che, pur essendo socii illimitatamente responsabili della stessa società, possono essere perseguiti per omessa tenuta dei libri obbligatori oppure no a seconda delle date delle rispettive sentenze dichiarative di fallimento, ma ambo le argomentazioni, come si é già rilevato (supra n. 4.1.), altro non sono che riscritture della proposizione, la cui difformità da parametri di costituzionalità s'illudono di fondare: come si deduce la violazione dell'art. 27, comma primo (e, in atto, dell'art. 3 comma primo) Cost. da ciò che la responsabilità di chi ha violato l'art. 217 comma secondo l. fall. vien fatta dipendere dalla negligenza dei creditori che non propongono istanza di fallimento del debitore, così si fonda la violazione dell'art. 3 in ciò che la responsabilità penale degli imprenditori individuali, rei di violazione dell'art. 217 comma secondo l. fall. nello stesso periodo di tempo e dei socii illimitatamente responsabili della stessa società, macchiatisi dello stesso reato, finirebbe con esser scandita dalle date delle rispettive sentenze di fallimento.
Vale a dire: si dà per dimostrato quel che dovrebbesi dimostrare che, cioé, le sentenze dichiarative di fallimento siano del tutto estranee alla fattispecie del reato di cui all'art. 217 comma secondo l. fall. per inferirne la violazione dell'art. 3 comma primo e, addirittura, dell'art. 27 comma primo Cost..
5. - L'inidoneità delle argomentazioni, con cui si denuncia nominativamente la violazione dei ripetuti testi costituzionali, condurrebbe senz'altro alla reiezione dell'incidente se il Tribunale di Genova non ravvisasse nelle ipotesi cui corrispondono le argomentazioni sub bb) e bd) (fallito predefunto; imprenditore perseguito dal p.m. prima della dichiarazione di fallimento) esempi di illogicità normativa che sarebbero da ascriversi alla concezione della dichiarazione di fallimento quale elemento costitutivo del reato di omessa tenuta dei libri obbligatori e non quale condizione di punibilità esterna - per così dire - al comportamento del reo.
La considerazione, ad un tempo sistematica ed esegetica, delle disposizioni che in atto disciplinano processo di fallimento e reato in esame evidenzia lo strettissimo legame che corre tra la doverosa tenuta dei libri obbligatori e il buon governo non tanto e non solo della procedura di dichiarazione di fallimento quanto e soprattutto dei momenti apicali della procedura medesima: l'imprenditore individuale, che non osserva la tenuta di tali libri, se é in bonis, non vede cavarne la efficacia probatoria prevista nel codice civile (talché sarebbe da far verbo talvolta di confessione e talaltra di onere più che di dovere), ma, se versa in stato d'insolvenza, si rende colpevole di "Offesa alla Corte" a ragione qualificata reato, e il discorso ben può ripetersi per l'amministratore e per il socio illimitatamente responsabile della società fallita (per più ampi sviluppi sent. 145/1982).
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 217 comma secondo r.d. 16 marzo 1942 n. 267, sollevata, in riferimento agli artt. 3 comma primo e 27 comma primo Cost., con ordinanza 21 ottobre 1981 (n. 265 R.0. 1981) del Tribunale di Genova.
Cosi deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, l'8 luglio 1982.
Leopoldo ELIA - Antonino DE STEFANO - Guglielmo ROEHRSSEN - Oronzo REALE - Brunetto BUCCIARELLI DUCCI - Livio PALADIN - Arnaldo MACCARONE - Antonio LA PERGOLA - Virgilio ANDRIOLI - Giuseppe FERRARI - Francesco SAJA - Giuseppe CONSO.
Giovanni VITALE - Cancelliere
Depositata in cancelleria il 27 luglio 1982.