SENTENZA N. 131
ANNO 1982
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori Giudici:
Prof. Leopoldo ELIA
Dott. Michele ROSSANO
Prof. Antonino DE STEFANO
Prof. Guglielmo ROEHRSSEN
Avv. Oronzo REALE
Avv. Alberto MALAGUGINI
Prof. Livio PALADIN
Prof. Antonio LA PERGOLA
Prof. Virgilio ANDRIOLI
Prof. Giuseppe FERRARI
Dott. Francesco SAJA
Prof. Giovanni CONSO
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 40 della legge 24 marzo 1958, n. 195 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento del Consiglio superiore della magistratura), promosso con ordinanza emessa il 10 ottobre 1979 dal Tribunale amministrativo regionale del Lazio sul ricorso proposto da Almerighi Mario ed altri contro il Ministro di grazia e giustizia, iscritta al n. 65 del registro ordinanze 1980 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 85 del 26 marzo 1980.
Visti l'atto di costituzione di Calderone Carmelo Renato ed altri e l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nell'udienza pubblica del 24 marzo 1982 il Giudice relatore Antonino De Stefano;
uditi l'avv. Enzo Silvestri per Calderone Carmelo Renato ed altri e l'avvocato dello Stato Giorgio Azzariti per il Presidente del Consiglio dei ministri.
Ritenuto in fatto
1. - Con ricorso al Tribunale amministrativo regionale del Lazio, notificato, in persona del Ministro pro-tempore, al Ministero di grazia e giustizia, in data 24 luglio 1978, i magistrati, componenti elettivi del Consiglio superiore della magistratura, dott.ri Mario Almerighi, Carmelo Renato Calderone, Giacomo Caliendo, Enrico Ferri, Domenico Nastro, Francesco Pintor, Aldo Sebastiano Rizzo e Mario Sannite, difesi dal prof. avv. Enzo Silvestri, rilevavano che, a norma dell'art. 40 della legge 24 marzo 1958, n. 195 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento del Consiglio superiore della magistratura), fra i componenti del Consiglio designati per elezione, i magistrati percepiscono solamente lo stipendio previsto per le rispettive categorie di appartenenza; mentre nei riguardi degli eletti dal Parlamento é prevista la corresponsione di un assegno mensile lordo pari al trattamento spettante ai magistrati indicati nell'art. 6, n. 3, della legge 24 maggio 1951, n. 392 (ossia ai presidenti di sezione della Corte di cassazione e qualifiche equiparate). Sostenevano i ricorrenti che la disparità di trattamento economico in tal modo venuta a crearsi fra i membri di un medesimo organo collegiale, privilegiando ingiustamente quelli di estrazione parlamentare, dava luogo a contrasto con i precetti di cui agli artt. 3, 36 e 97 della Costituzione. E lamentando che, in conseguenza di ciò, il trattamento economico di cui, dalla data del loro insediamento in seno al Consiglio, avevano goduto, era inferiore al dovuto, sollevavano, nei confronti del suindicato art. 40, questione di legittimità costituzionale.
Il TAR, ritenuta la questione rilevante e non manifestamente infondata, pronunciava il 10 ottobre 1979 una ordinanza, con la quale disponeva la trasmissione degli atti a questa Corte.
Escluso ogni dubbio sulla pregiudizialità della questione nel processo a quo, poiché dalla validità o meno della norma impugnata dipende l'accoglimento o il rigetto del ricorso, nel provvedimento di rimessione si osserva, riguardo al merito, che la corresponsione, prevista dalla disposizione in questione, del suddetto assegno solamente ad alcuni (eletti dal Parlamento) e non ad altri (eletti dai magistrati) dei componenti il Consiglio, non trova valida giustificazione né nella diversa estrazione elettiva, né nella diversa estrazione professionale. Non nella diversa estrazione elettiva, dato il carattere delle funzioni che, in forma di omogenea parità, collegialmente, tutti e indistintamente i componenti del Consiglio sono chiamati a svolgere per l'attuazione dei fini (di garanzia della indipendenza e della autonomia della magistratura) ad esso assegnati dall'art. 104 della Costituzione, di guisa che il fatto che i singoli componenti del Consiglio siano stati eletti dai magistrati o dal Parlamento non produce alcuna differenza, né formale né funzionale, relativamente all'esercizio della loro attività. Altrettanto deve dirsi, secondo il giudice a quo, perla diversa estrazione professionale, dovendosi escludere che, ai fini del divario di retribuzione tra i membri del Consiglio, possa assumere rilievo l'appartenenza all'ordine giudiziario per gli uni, e l'appartenenza alla categoria degli avvocati o a quella dei professori universitari ordinari, per gli altri. Ed invero, per quanto concerne in particolare i componenti professori universitari, l'ordinanza di rinvio osserva che essi, nel corso del mandato, continuano ad esercitare nelle Università la loro attività di docenti, alla stessa stregua dei componenti magistrati, che continuano (tranne casi eccezionali) ad esercitare le loro funzioni negli uffici giudiziari ai quali sono assegnati.
Nell'apprezzamento del legislatore si ha, dunque, per entrambe le categorie di impiegati dello Stato (magistrati e professori universitari) di cui é prevista la partecipazione al Consiglio, una omogeneità di posizioni, cui però non corrisponde una omogeneità nell'attribuzione degli assegni e delle indennità connesse con l'esercizio del loro mandato. Infatti, per quanto concerne i professori, che come tali già fruiscono di stipendio a carico del bilancio dello Stato, la norma impugnata prevede che ad essi spetti il trattamento più favorevole nel confronto tra tale stipendio e l'assegno mensile pari al trattamento complessivo spettante al presidente di sezione della Corte di cassazione, che viene appunto corrisposto ai componenti del Consiglio eletti dal Parlamento. Per cui resta a carico dell'amministrazione di appartenenza l'onere inerente al trattamento di cui risultino già provvisti, ed a carico del Consiglio quello relativo all'eventuale eccedenza del trattamento loro spettante quali componenti del Consiglio stesso.
Nel caso degl'impiegati dello Stato professori universitari, componenti del Consiglio, gli assegni e le indennità corrisposti per tale prestazione volontaria di servizio, rimangono così istituzionalmente distinti dai corrispettivi dovuti per il loro rapporto d'impiego, a differenza degli assegni corrisposti per l'identica prestazione di servizio agl'impiegati dello Stato magistrati, appartenenti a categorie che di quel trattamento non usufruiscono, ma anch'essi, al pari dei primi, componenti del Consiglio.
Sotto questi profili, pertanto - conclude il TAR - la norma dell'art. 40 della legge n. 195 del 1958, là dove sottopone situazioni eguali a discipline retributive diverse, non sembra esente da seri dubbi di illegittimità costituzionale in relazione al principio di eguaglianza sancito dall'art. 3 della Costituzione. Al tempo stesso essa potrebbe apparire in contrasto con il principio della proporzionalità della retribuzione in rapporto alla quantità e qualità dell'opera prestata, che nella Costituzione é fissato dall'art. 36. Infine, anche con riguardo alla sospetta arbitrarietà della disciplina contenuta nella norma impugnata rispetto ai fini prescritti dall'art. 97 della Costituzione, la questione sollevata non appare manifestamente infondata, "non potendosi escludere il dubbio che una irrazionale e diversificata corresponsione di assegni e indennità ad appartenenti al medesimo organo e investiti delle medesime funzioni, possa compromettere il buon andamento dell'organo stesso".
2. - Adempiute le formalità di rito per notifiche, comunicazione e pubblicazione dell'ordinanza di rinvio, sei dei magistrati ricorrenti, e precisamente i dottori Calderone, Caliendo, Ferri, Nastro, Pintor e Sannite, con atto di deduzioni in data 29 marzo 1980, si sono costituiti innanzi alla Corte. Amezzo dell'Avvocatura dello Stato, con atto 11 aprile 1980, é intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri.
La difesa dei ricorrenti, nel chiedere che la Corte, in base ai rilievi formulati dal TAR, dichiari l'art. 40 della legge n. 195 del 1958 costituzionalmente illegittimo per contrasto con gli artt. 3, 36 e 97 della Costituzione, contesta la fondatezza delle tesi già addotte in contrario dall'Avvocatura dello Stato, per il Ministro di grazia e giustizia, nel giudizio a quo, escludendo anzitutto che i componenti c.d. togati del Consiglio, per la loro qualità di magistrati e perché il Consiglio é organismo preordinato a rendere effettive le garanzie previste, per la magistratura, dall'art. 104 della Costituzione, si trovino, rispetto al Consiglio medesimo, in un rapporto diverso da quello che in seno ad esso caratterizza la posizione dei componenti c.d. laici. Contesta altresì che le funzioni di componenti del Consiglio costituiscano per i magistrati che ne fanno parte un accessorio delle funzioni giurisdizionali. Nelle deduzioni dei ricorrenti, inoltre, si nega che il maggior compenso che la disposizione impugnata riconosce, fra i componenti del Consiglio, ai non magistrati eletti dal Parlamento, negandolo ai suddetti componenti magistrati, possa trovare valida giustificazione nella impossibilità, per i primi, di esercitare, in conseguenza della elezione a componenti del Consiglio, nel periodo di permanenza in carica, la libera professione, che ai componenti magistrati era e resta interdetta anche a prescindere dalla loro partecipazione al Consiglio. Anche sotto questo aspetto - sostengono i ricorrenti - la posizione dei componenti magistrati é infatti del tutto identica (se non a quella dei componenti avvocati) a quella dei componenti eletti dal Parlamento tra i docenti universitari.
A sua volta l'Avvocatura dello Stato ha chiesto che la questione venga dichiarata priva di fondamento in relazione a tutti gli aspetti evidenziati nell'ordinanza di rinvio. Il giudice a quo, infatti, avrebbe obliterato la circostanza che per le prestazioni svolte, quali componenti il Consiglio, dai membri c.d. togati come dai componenti laici, é prevista, in misura forfettaria, la corresponsione di una indennità per ogni seduta, unitaria e indifferenziata per ciascuno di essi. Sarebbe questa indennità, secondo l'Avvocatura, a costituire lo specifico compenso dell'attività dei componenti del Collegio. Inoltre, nell'ordinanza si sarebbe tralasciato di considerare che l'assegno di cui al secondo comma dell'art. 40 della legge n. 195 del 1958 - sul quale si accentra la questione - é specificamente diretto a indennizzare i peculiari sacrifici cui solo i membri "laici", a differenza di quelli "togati", entrando a far parte del Consiglio, restano esposti. Al riguardo una notevole diversità di situazioni, nella quale la diversità del previsto trattamento economico troverebbe piena giustificazione, si verificherebbe, rispetto allo status dei componenti magistrati, anche nello status dei componenti "docenti universitari". Diversamente da quel che avviene per i magistrati - ai quali giàin conseguenza dell'appartenenza all'ordine giudiziario é vietato l'esercizio professionale di qualsiasi attività lucrativa per i professori universitari l'insegnamento per il quale vengono retribuiti é normalmente compatibile con l'esercizio delle libere professioni, che essi possono svolgere iscrivendosi negli albi professionali. Peraltro, con la elezione al Consiglio, i professori universitari perdono il diritto alla iscrizione negli albi professionali, e si vedono quindi precluso il diritto (che non era inibito dalla esistenza del rapporto di servizio di insegnante) all'esercizio della libera professione. Ben si giustifica, perciò - conclude l'Avvocatura - che il legislatore, apprezzando con criteri di ragionevolezza e di equità le conseguenze economiche sfavorevoli derivanti da queste situazioni per i componenti del Consiglio professori universitari e non per i componenti magistrati, abbia fissato per i primi (oltre che per gli altri membri "laici" eletti), e non per i secondi, lo speciale assegno in questione. Assegno che non ha dunque la funzione di retribuire, per i "laici", l'opera da essi prestata quali componenti del Consiglio, ma solo natura indennitaria dei particolari sacrifici imposti dalla loro partecipazione al Consiglio.
Secondo l'Avvocatura dello Stato, inoltre, la differenza di trattamento economico prevista dalla norma impugnata fra componenti "laici" e componenti "togati" del Consiglio, troverebbe giustificazione nella diversa posizione, e nel diverso rapporto in cui le due categorie di componenti (magistrati e non magistrati) vengono a trovarsi rispetto al Consiglio. Per i magistrati, infatti, l'investitura nel Consiglio costituirebbe "un vero e proprio accessorio del rapporto di servizio che li rende appartenenti all'ordine giudiziario al cui autogoverno il Consiglio é preposto". Per i componenti eletti dal Parlamento, invece, la investitura nel Consiglio darebbe luogo ad un rapporto di servizio onorario, che per i componenti magistrati non potrebbe certo configurarsi. Deve perciò escludersi che sussista il denunciato contrasto dell'art. 40 della legge istitutiva del Consiglio con il principio di eguaglianza. Deve escludersi, altresì, che abbiano fondamento le altre censure formulate in riferimento agli artt. 36 e 97 della Costituzione. Rispetto ai quali, peraltro, secondo l'Avvocatura, va aggiunto che comunque essi non potrebbero essere invocati nel caso in questione. L'art. 36, infatti, avrebbe riguardo, esclusivamente, alla garanzia costituzionale della giusta retribuzione del lavoro e non sarebbe perciò applicabile nelle materie (in cui la questione in oggetto rientrerebbe) delle indennità accessorie del rapporto di lavoro, o dei compensi spettanti in forza di rapporti di servizio onorario. L'art. 97, infine, essendo diretto ad assicurare il "buon andamento" degli organi dello Stato-amministrazione, non potrebbe ritenersi vulnerato da una norma, come quella dell'art. 40 della legge istitutiva del Consiglio, intesa a disciplinare il trattamento economico dei membri elettivi di un organo costituzionalmente non appartenente al potere esecutivo.
3. - Alla pubblica udienza del 24 marzo 1982 il Giudice Antonino De Stefano ha svolto la relazione. L'avv. Enzo Silvestri, per i ricorrenti, ha ribadito i motivi dedotti a sostegno della fondatezza della questione, mentre l'avvocato dello Stato Giorgio Azzariti ha insistito per la dichiarazione di non fondatezza.
Considerato in diritto
1. - L'art. 40 della legge 24 marzo 1958, n. 195, recante norme sulla costituzione e sul funzionamento del Consiglio superiore della magistratura, dispone che al Vice presidente del Consiglio venga corrisposto un assegno mensile lordo pari al trattamento complessivo spettante al Primo presidente della Corte di cassazione; ed agli altri componenti eletti dal Parlamento un assegno mensile lordo pari al trattamento complessivo spettante ai magistrati indicati nell'art. 6, n. 3, della legge 24 maggio 1951, n. 392 (presidente di sezione della Corte di cassazione ed uffici direttivi equiparati). Qualora i componenti eletti dal Parlamento fruiscano di stipendi od assegni a carico del bilancio dello Stato, spetta loro il trattamento più favorevole, restando a carico dell'amministrazione di appartenenza l'onere inerente al trattamento di cui risultino già provvisti, ed a carico del Consiglio quello relativo all'eventuale eccedenza del trattamento loro spettante quali componenti del Consiglio medesimo.
L'ultimo comma del citato art. 40 prevede che a tutti i componenti del Consiglio venga corrisposta una indennità per ogni seduta, la cui misura, originariamente fissata dalla stessa norma in lire cinquemila, viene ora, per effetto dell'art. 7 della legge 3 gennaio 1981, n. 1, determinata dal Consiglio, insieme con il numero massimo giornaliero delle sedute che danno diritto a indennità, secondo criteri stabiliti nel regolamento di amministrazione e contabilità. Infine, a tutti i componenti che risiedono fuori Roma spetta l'indennità di missione per i giorni di viaggio e di permanenza a Roma.
L'ordinanza del tribunale amministrativo regionale del Lazio deferisce al giudizio di questa Corte, come esposto in narrativa, la questione di legittimità costituzionale del ripetuto art. 40, nella parte in cui dispone che solo ai componenti del Consiglio eletti dal Parlamento venga corrisposto l'indicato assegno mensile, e non anche ai magistrati componenti elettivi, i quali, invece, continuano a percepire il trattamento economico previsto per le rispettive categorie di appartenenza. La denunciata norma contrasterebbe, secondo il giudice a quo, con il principio di eguaglianza, sancito dall'art. 3 della Costituzione; con il principio della proporzionalità delle retribuzioni in rapporto alla qualità e quantità delle prestazioni corrispondenti, stabilito dall'art. 36 della Costituzione; con il principio della razionale organizzazione dei pubblici uffici, tale da assicurare il buon andamento della pubblica amministrazione, fissato dall'art. 97 della Costituzione.
2. - La pronuncia sulla questione sottoposta all'esame della Corte postula che sia preliminarmente acclarato il titolo giustificativo dell'assegno in discussione.
É pacifico che tutti i componenti partecipano ai lavori e alle deliberazioni del Consiglio e delle sue commissioni in posizione di assoluta parità, secondo l'esplicito dettato dell'art. 8 del regolamento interno del Consiglio medesimo, approvato il 26 marzo 1976; come, del resto, già affermato da questa Corte nella sentenza n. 51 del 1973. Ed in ragione di siffatta partecipazione viene loro corrisposta, per ciascuna seduta, l'indennità menzionata dall'ultimo comma dell'art. 40 della legge n. 195 del 1958. Indennità, nella quale si concreta appunto lo specifico compenso in relazione all'effettivo esercizio del commesso ufficio, in misura eguale per tutti i partecipanti ai lavori, senza veruna discriminazione a motivo della loro diversa estrazione: come fatto palese dai lavori parlamentari afferenti alla legge medesima, che vollero estesa a tutti i componenti tale indennità, originariamente prevista, nel disegno di legge governativo, per i soli componenti magistrati.
L'assegno mensile spetta invece, come già detto, soltanto ai membri che il Parlamento, a norma del comma quarto dell'art. 104 della Costituzione, elegge, in seduta comune, tra professori ordinari di università in materie giuridiche ed avvocati dopo quindici anni di esercizio. Gli eletti non possono, finché sono in carica, restare o venire iscritti negli albi professionali, essere titolari di imprese commerciali, far parte di consigli di amministrazione di società commerciali (art. 104, ultimo comma, della Costituzione; art. 33, comma secondo, della legge n. 195 del 1958). La elezione al Consiglio, perciò, comporta per essi una rinuncia, che non trova riscontro nei componenti magistrati, per i quali siffatte incompatibilità non discendono dall'essere chiamati a far parte del Consiglio, ma preesistono in via permanente in ragione del loro stesso status di magistrati (art. 16 dell'ordinamento giudiziario approvato con r.d. 30 gennaio 1941, n. 12, e successive modificazioni). Ed é una rinuncia, il cui disagio si fa particolarmente acuto per coloro che prima della elezione esercitavano sol tanto la libera professione, la cui interruzione, quindi, fa venir meno, per i quattro anni di durata della carica, la precipua fonte del loro sostentamento. Va, dunque, condivisa l'affermazione dell'Avvocatura dello Stato, che l'assegno in parola sia stato istituito proprio "a ristoro di peculiari sacrifici", intendendo sopperire - nel suo ammontare fissato in modo uniforme dal legislatore mediante il ragguaglio al trattamento economico spettante al presidente di sezione della Corte di cassazione - alla cessazione dei proventi professionali. Una conferma dell'assunto può trarsi dall'art. 1 della legge 3 maggio 1971, n. 312, che prevede, solo per i componenti del Consiglio eletti dal Parlamento, nei termini che saranno precisati più avanti, la corresponsione, all'atto della cessazione dalla carica per decorso del quadriennio, di una indennità (originariamente fissata in lire cinque milioni, e successivamente elevata, dall'art. 14 della legge 3 gennaio 1981, n. 1, a lire quindici milioni). Nei relativi lavori parlamentari é stato infatti sottolineato come "alla scadenza del mandato, che non é nemmeno immediatamente rinnovabile, i componenti eletti dal Parlamento... incontrino un fortissimo ostacolo alla ripresa dell'attività professionale rimasta interrotta per quattro anni". É apparso, pertanto, equo concedere loro "una speciale indennità che li compensi, almeno in parte, delle sfavorevoli conseguenze economiche" connesse con tale situazione.
Alla luce di quanto precede, la Corte ritiene non fondatala dedotta violazione del principio di eguaglianza, essendo nettamente diverse le situazioni dei membri del Consiglio provenienti dalla magistratura e di quelli eletti dal Parlamento, se prese in considerazione sotto il profilo della finalità perseguita dal legislatore mediante la corresponsione dell'assegno mensile, preordinato appunto al ristoro, durante l'assolvimento della funzione, dei sacrifici connessi con la rinuncia all'esercizio della libera professione e con il conseguente venir meno dei relativi proventi. Ai fini della richiesta pronuncia non appare, pertanto, necessario accertare se altra diversità di situazioni possa configurarsi in ragione del carattere "onorario" del rapporto di servizio che si instaura con la partecipazione al Consiglio: carattere "onorario" che, secondo l'Avvocatura dello Stato, dovrebbe venir riconosciuto ai soli componenti "laici", e non anche a quelli "togati".
3. - L'ordinanza di rinvio insiste poi particolarmente sulla omogeneità della posizione dei componenti magistrati con quella dei componenti eletti dal Parlamento fra i professori universitari, deducendo la violazione del principio di eguaglianza in ordine alla corresponsione dell'assegno mensile, negato ai primi e riconosciuto invece, entro determinati limiti, ai secondi.
Invero, i professori ordinari di università, a tenore del comma terzo del denunciato art. 40 della legge n. 195 del 1958, ove l'assegno mensile, previsto dal comma secondo dello stesso articolo per i componenti eletti dal Parlamento, risulti di ammontare superiore al trattamento economico loro spettante, a carico del bilancio dello Stato, quali docenti, continuano a ricevere queste ultime competenze dall'amministrazione di appartenenza, ma percepiscono inoltre, a carico del Consiglio, la differenza che intercorre tra il loro stipendio ed il maggiore assegno, venendo, in tal guisa, a fruire, per il quadriennio di durata della carica, di un trattamento complessivo mensile pari all'importo dell'assegno medesimo. All'atto, poi, della cessazione dalla carica per decorso del quadriennio, i professori universitari continuano, secondo quanto disposto dall'art. 3 della citata legge n. 312 del 1971, a percepire la cennata differenza, che si tramuta in assegno personale, aggiunto al loro trattamento di docenti, agli effetti e nei limiti stabiliti dall'art. 202 del t.u. delle disposizioni concernenti lo statuto degl'impiegati civili dello Stato, approvato con d.P.R.10 gennaio 1957, n. 3. L'attribuzione di tale assegno personale esclude la concessione dell'indennità, prevista, come già ricordato, dall'art. 1 della stessa legge n. 312 del 1971, per i componenti eletti dal Parlamento, all'atto della cessazione dalla carica.
Nella stessa ipotesi (di assegno mensile superiore al trattamento corrisposto a carico del bilancio dello Stato) i componenti magistrati continuano, invece, a ricevere dal Ministero di grazia e giustizia lo stipendio spettante, quale previsto per la rispettiva categoria di appartenenza, ma non percepiscono, in aggiunta ad esso, quella differenza tra stipendio ed assegno, che consente ai componenti professori universitari, mentre sono in carica, di fruire di un trattamento complessivo non inferiore all'assegno medesimo. Eppure - osserva il giudice a quo, facendo riferimento alla normativa vigente alla data di emissione dell'ordinanza - sia gli uni che gli altri, durante il loro mandato, continuano ad esercitare la loro attività di impiegati dello Stato, rispettivamente di docenti e di magistrati: ma soltanto per i primi il corrispettivo dovuto per il loro rapporto d'impiego resta istituzionalmente distinto dall'emolumento (differenza tra lo stipendio ed il maggiore assegno mensile) corrisposto per la carica di componente il Consiglio; mentre per i secondi lo stipendio di magistrato remunera entrambe le prestazioni. Donde la prospettata violazione dell'art. 3 della Costituzione, in quanto le disposizioni del denunciato art. 40 "sottopongono a discipline retributive diverse, situazioni uguali, perché ugualmente considerate dalla legge rispetto al mantenimento delle relative funzioni impiegatizie, contemporaneamente all'esercizio del mandato presso il Consiglio".
Anche sotto questo profilo la questione non é fondata. Non v'è dubbio che il suo esame debba esser condotto nel quadro della normativa vigente all'epoca del rapporto che ha dato origine alla controversia, nel corso della quale é stata emessa l'ordinanza di rinvio: normativa cui l'ordinanza medesima fa riferimento e che disciplinava appunto la posizione, sia dei ricorrenti (magistrati eletti) che degli altri membri del Consiglio posti a raffronto (componenti eletti fra i professori universitari), prevedendo, come sottolinea il giudice a quo, per gli uni e per gli altri il mantenimento, durante l'esercizio della carica, delle rispettive funzioni di magistrato e di docente universitario (tranne i casi eccezionali di collocamento fuori ruolo, previsti, per i magistrati di nomina elettiva, dall'art. 30,comma secondo, nel testo originario, del d.P.R. 16 settembre 1958, n. 916). Non rileva, pertanto, ai fini della presente pronuncia, che successive disposizioni, contenute nella legge 3 gennaio 1981, n. 1, statuiscano ora il collocamento fuori dei rispettivi ruoli organici per la durata dell'incarico (e la conseguente dedizione a tempo pieno all'assolvimento dello stesso), tanto dei magistrati componenti elettivi (art. 30, comma secondo, del d.P.R. n. 916 del 1958, nel testo sostituito dall'art. 8 della citata legge n. 1 del 1981) quanto dei professori universitari di ruolo componenti del Consiglio (art. 30 bis dello stesso d.P.R. n. 916 del 1958, inserito dall'art. 9 della citata legge n. 1 del 1981). Ma non per questo possono venir condivise le argomentazioni che dalla disciplina antecedente a quella ora vigente, il giudice a quo ha tratto a sostegno della sollevata questione. E per vero, ferma restando per tutti i componenti il Consiglio, in relazione alla loro partecipazione ai lavori del medesimo, la corresponsione dell'apposita indennità per seduta, cui dianzi si é fatto cenno, magistrati e professori universitari, una volta eletti, continuano a percepire, a carico della rispettiva amministrazione, per effetto del loro preesistente rapporto d'impiego, che non viene certo meno a cagione della carica che sono stati chiamati a ricoprire, il trattamento economico di cui sono già provvisti. Trattamento che ad essi spetta in ogni caso, sia nell'ipotesi, contemplata dalla precedente normativa, del perdurante esercizio delle funzioni connesse con il rapporto d'impiego, sia anche nella posizione di fuori ruolo, introdotta, per entrambe le categorie prese in considerazione, dalla citata normativa ora vigente, atteso che la spesa per gli emolumenti connessi al rapporto d'impiego dei dipendenti statali che siano collocati fuori ruolo, per il disimpegno di funzioni dello Stato, resta, in base ad una norma di carattere generale ed in mancanza di apposita diversa prescrizione, a carico dell'amministrazione di appartenenza (art. 59 d.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3, che rinvia all'art. 57 dello stesso decreto, nel testo sostituito dall'art. 34 del d.P.R. 28 dicembre 1970, n. 1077).
Fin qui, dunque, il trattamento riservato a magistrati e professori universitari, ove eletti, gli uni e gli altri, a componenti del Consiglio, non appare difforme. Né altera tale corrispondenza l'emolumento che. in aggiunta, viene corrisposto ai secondi, nella ipotesi che le competenze loro spettanti quali docenti siano di ammontare inferiore all'assegno mensile previsto dal secondo comma del denunciato art. 40; emolumento, che si concreta appunto nella differenza tra i due importi il giudice a quo lo considera preordinato a remunerare la partecipazione ai lavori del Consiglio dei membri professori universitari e ne inferisce una ingiustificata disparità di trattamento in danno dei magistrati componenti elettivi, ai quali, malgrado la loro partecipazione al Consiglio su un piano di assoluta parità con gli altri membri, tale emolumento non viene corrisposto, nell'analoga ipotesi che il loro stipendio di magistrato sia inferiore al cennato assegno mensile. Ritiene, invece, la Corte che l'emolumento in questione, pur in misura ridotta, assolva alla stessa finalità innanzi riconosciuta all'assegno mensile nella sua totalità, inteso, cioè, a "ristoro di peculiari sacrifici" inerenti alla rinuncia ad un'attività professionale; rinuncia conseguente, appunto, alla elezione a componente del Consiglio. A tutti i membri, come si é già ricordato, é precluso, infatti, l'esercizio di un'attività professionale: si tratta, invero, di una incompatibilità che per i magistrati già preesiste alla loro elezione, mentre per i membri eletti dal Parlamento sopravviene, proprio per effetto dell'assunzione della carica. Tale incompatibilità non colpisce solo gli "avvocati dopo quindici anni di esercizio" ma anche i "professori ordinari di università in materie giuridiche". Questi ultimi, infatti, sono ammessi, dal vigente ordinamento delle professioni di avvocato e procuratore (r.d.1.27 novembre 1933, n. 1578, convertito in legge 22 gennaio 1934, n. 36, e successive modificazioni), all'esercizio di dette professioni, inespressa deroga alla norma che ne fa divieto per tutti coloro che ricoprono un impiego od ufficio retribuito con stipendio sul bilancio dello Stato. Si configura, perciò, anche per tale categoria una rinuncia a vantaggi attuali o potenziali; rinuncia, della quale il legislatore si é dato carico, pur ritenendola meno gravosa di quella, cui sono costretti i membri che, non essendo professori universitari, esercitassero, prima della elezione, soltanto la libera professione, da essa traendo la precipua fonte del loro sostentamento, ed ai quali viene perciò corrisposto l'intero assegno mensile. Per i professori universitari, invece, il legislatore ha considerato preminente la loro attività di docente, e complementare l'eventuale consentito esercizio della professione; ed ha perciò destinato a "ristoro" della rinuncia a quest'ultimo, solo la eventuale differenza tra il maggiore importo dell'assegno ed il minore importo dello stipendio di professore. Che poi tale "ristoro" sia progressivamente minore, quanto maggiore é lo stipendio del professore universitario, e possa addirittura non esservi se lo stipendio é pari o superiore all'assegno - argomentazione svolta in pubblica udienza dalla difesa di parte - é profilo non dedotto nell'ordinanza di rimessione, e che d'altronde non sarebbe stato rilevante nel giudizio a quo.
Merita, infine, di essere ricordato, per compiutezza di indagine, che, anche in sede di riordinamento della docenza universitaria, il recente d.P.R. 11 luglio 1980, n. 382, ha sancito la compatibilità del regime d'impegno dei professori ordinari "a tempo definito" con lo svolgimento di attività professionali (art. 11, comma quarto, lett. b). Ai professori "a tempo pieno" (la cui opzione, peraltro, può esser modificata con il "tempo definito" dopo un biennio), pur essendo il loro regime incompatibile con lo svolgimento di qualsiasi attività professionale esterna, é nondimeno consentita la partecipazione alle attività relative alle consulenze affidate alle Università con convenzioni o contratti da altre amministrazioni pubbliche, da enti o privati, nonché la loro inclusione in un elenco speciale presso l'ordine professionale al cui albo risultino iscritti (art. 11, commi quinto e sesto, in connessione con l'art. 66 dello stesso decreto). Anche nei confronti dei professori universitari "a tempo pieno", pertanto, la carica di componente del Consiglio superiore della magistratura comporta una rinuncia a vantaggi connessi con un'attività che prima della elezione era loro consentita.
Conclusivamente, anche sotto il particolare profilo della disparità di trattamento, nell'ambito dei componenti elettivi del Consiglio, tra magistrati e professori universitari, la questione, per le ragioni sopra esposte, non é fondata.
4. - La questione non é fondata anche in riferimento all'invocato parametro dell'art. 36, comma primo, della Costituzione, una volta riconosciuta all'assegno mensile previsto dal comma secondo del denunciato art. 40, natura di indennizzo, a ristoro di peculiari sacrifici, e non di remunerazione di una prestazione lavorativa.
Del pari non fondata é la sollevata questione in riferimento all'art. 97, comma primo, della Costituzione, non sussistendo, per le ragioni dianzi esposte, il dedotto presupposto della "irrazionale diversificata corresponsione di assegni".
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale, sollevata, in riferimento agli artt. 3, 36 e 97 della Costituzione, con l'ordinanza emessa in data 10 ottobre 1979 dal Tribunale amministrativo regionale del Lazio (R.O. n. 65 del 1980), dell'art. 40 della legge 24 marzo 1958, n. 195 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento del Consiglio superiore della magistratura).
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 7 luglio 1982.
Leopoldo ELIA - Michele ROSSANO - Antonino DE STEFANO - Guglielmo ROEHRSSEN - Oronzo REALE - Alberto MALAGUGINI - Livio PALADIN - Arnaldo MACCARONE - Antonio LA PERGOLA - Virgilio ANDRIOLI - Giuseppe FERRARI - Francesco SAJA - Giuseppe CONSO.
Giovanni VITALE - Cancelliere
Depositata in cancelleria il 14 luglio 1982.