SENTENZA N. 96
ANNO 1982
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori Giudici:
Prof. Leopoldo ELIA
Dott. Michele ROSSANO
Prof. Guglielmo ROEHRSSEN
Avv. Oronzo REALE
Dott. Brunetto BUCCIARELLI DUCCI
Avv. Alberto MALAGUGINI
Prof. Livio PALADIN
Prof. Antonio LA PERGOLA
Prof. Virgilio ANDRIOLI
Prof. Giuseppe FERRARI
Dott. Francesco SAJA
Prof. Giovanni CONSO
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nei giudizi di legittimità costituzionale dell'art. 5, secondo comma, della legge 21 marzo 1958, n. 267 (Modifica delle tabelle A e B allegate alla legge 12 agosto 1957, n. 757, concernente l'imposta generale sull'entrata una tantum sui prodotti tessili) e dell'art. 9 della legge 1 agosto 1969, n. 478 (Conversione in legge, con modificazioni del d.l. 2 luglio 1969, n. 319, concernente il regime fiscale di alcuni prodotti tessili), promossi con le seguenti ordinanze:
1) n. 2 ordinanze emesse il 24 giugno 1976 dal Tribunale di Milano nei procedimenti civili vertenti tra s.p.a. Legler Industria Tessile, s.p.a. Manifattura Festi Rasini e l'Amministrazione delle Finanze dello Stato, iscritte ai nn. 617 e 619 del registro ordinanze 1976 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 307 del 17 novembre 1976;
2) ordinanza emessa il 7 ottobre 1975 dal Tribunale di Milano nel procedimento civile vertente tra s.p.a. M.T. Castoldi ed altri e l'Amministrazione delle Finanze dello Stato, iscritta al n. 74 del registro ordinanze 1977 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 100 del 13 aprile 1977.
Visti gli atti di costituzione della s.p.a. Legler Industria Tessile, della s.p.a. Manifattura Festi Rasini, della s.p.a. M.T. Castoldi e della s.p.a. Manifattura Rotondi e gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nell'udienza pubblica del 26 gennaio 1982 il Giudice relatore Antonio La Pergola;
uditi gli avv.ti Vincenzo Palladino e Giuseppe Guarino per le s.p.a. Legler e Manifattura Festi Rasini, l'avv. Guido Scarpa per le s.p.a. Castoldi ed altri e Manifattura Rotondi e l'avvocato dello Stato Mario Fanelli, per il Presidente del Consiglio dei ministri.
Ritenuto in fatto
- - Con ordinanze di identico contenuto emesse il 24 giugno 1976 nel corso di due cause civili vertenti tra la S.p.A. Legler Industria Tessile e la Manifattura Festi Rasini S.p.A. contro l'Amministrazione delle Finanze dello Stato, il Tribunale di Milano ha sollevato questione di costituzionalità dell'art. 5, secondo comma, legge 21 marzo 1958, n. 267, in riferimento agli artt. 10 e 11 della Costituzione.
Le parti attrici richiedono la restituzione della quota dell'imposta generale sull'entrata, che si assume illegittimamente riscossa dall'Amministrazione. Si tratta, precisamente, dell'IGE sui cotoni nazionali in massa. La norma denunziata fissa l'aliquota del tributo in questione al 4%; lo stesso prodotto, importato dai paesi aderenti al GATT, é tuttavia gravato di un'aliquota pari al 6%; tale differenza risulterebbe in contrasto con l'art. III dell'Accordo GATT (cui l'Italia ha aderito e dato esecuzione con la legge 5 aprile 1950, n. 295). Questa disposizione é così testualmente formulata: "i prodotti del territorio di ogni contraente importati nel territorio di ciascuna altra parte non saranno colpiti, direttamente o indirettamente, da tasse o altre imposizioni interne, di qualsiasi natura, superiori a quelle che colpiscono, direttamente o indirettamente, i prodotti nazionali similari".
Osserva il Tribunale di Milano che la riduzione dell'aliquota dal 6 al 4%, disposta dalla norma impugnata, in quanto relativa ai soli cotoni nazionali, non può in via di interpretazione ritenersi automaticamente estesa ai prodotti provenienti dai paesi aderenti all'Accordo GATT; d'altro lato il giudice non sarebbe abilitato a riesaminare ed eventualmente modificare la scelta discrezionale del legislatore; egli ritiene, tuttavia, di non poter disattendere per ciò solo la domanda dell'attrice, e di dover invece sollevare d'ufficio il giudizio, di cui la Corte é ora investita.
La questione, rilevante ai fini dell'accoglimento della domanda delle parti attrici, sarebbe altresì non manifestamente infondata.
Lo stesso legislatore, si dice, ha, con la legge 1 agosto 1969, n. 478, abrogato la norma qui denunziata e ripristinato il regime tributario originariamente previsto dalla legge 12 agosto 1957, n. 757. Con ciò si sarebbe riconosciuto che la previgente e più onerosa aliquota a carico dei prodotti importati era stata prevista in violazione dell'Accordo GATT, e dunque delle invocate norme costituzionali, poste a salvaguardia degli obblighi internazionali.
- - Analogo ordine di rilievi vien fatto valere dalla difesa della Società Legler, costituitasi nel presente giudizio. L'asserita infrazione del divieto di discriminazione fiscale sancito in Trattato, sarebbe stata avvertita dagli organi del GATT e, dopo i rilievi formulati da questi ultimi, dallo stesso legislatore nazionale, il quale, abrogando con la legge 1 agosto 1969 n. 478 la norma censurata, avrebbe, appunto, inteso rimediare alla lamentata sperequazione.
Si osserva, poi, che con sentenza 183/73 questa Corte ha posto taluni fondamentali principi. Le limitazioni di sovranità - e così di tutte le tradizionali funzioni dello Stato: legislativa, esecutiva, giurisdizionale - opererebbero in forza dell'art. 11 Cost., anche con il mezzo della legge ordinaria, che serve ad autorizzare la ratifica del Trattato e rendere interamente efficaci le norme in esso poste.
Da ciò segue, continua la difesa di parte privata, che le norme prodotte dagli organi sovranazionali hanno diretta efficacia in Italia, senza peraltro sottostare al regime costituzionale dettato per le leggi nazionali, segnatamente negli artt. 23, 75, 81 e 134 del testo fondamentale.
Dalla suddetta pronunzia della Corte deriverebbe altresì, che la limitazione della sovranità statuale, ex art. 11 Cost., può valere, a maggior ragione, per il contenuto delle singole leggi, nel senso che le manifestazioni di volontà del legislatore statuale devono cedere di fronte alle statuizioni incompatibili di alcun Trattato, coperto dal disposto costituzionale in esame. Precisamente, si assume che il sistema del GATT sia analogo a quello dell'ordinamento delle Comunità Europee, sebbene abbia finalità e strutture più ridotte di quelle comunitarie. Si tratterebbe pur sempre di una organizzazione investita di proprie competenze, che si pone come autonoma rispetto agli Stati membri. I termini della questione non muterebbero, peraltro, anche in assenza delle caratteristiche strutturali che si ravvisano nell'ordinamento del GATT. Il trattamento tributario riservato al prodotto nazionale a differenza di quello importato dall'area del GATT, travalica comunque - si dice - dal legittimo esercizio della discrezionalità legislativa, con il risultato di offendere la clausola di parità sancita dall'Accordo.
- - Si costituisce davanti alla Corte il Presidente del Consiglio, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato. L'art. 2 della legge 12 agosto 1957, n. 757, deduce l'Avvocatura, stabiliva che 1'IGE sui prodotti importati era comprensiva dell'imposta sui prodotti ottenuti o residuati dalla lavorazione delle materie tessili, qualora detti prodotti figurassero nella tabella A annessa al testo normativo; per gli scambi anteriori alla lavorazione l'IGE era limitata al 3%.
Siffatta previsione normativa danneggiava i prodotti nazionali non lavorati, che erano comunque soggetti alla maggiore aliquota. Per ovviare a tale sperequazione é stata emanata la legge 21 marzo 1958, n. 267, che determina nella misura del 4% l'aliquota gravante sul "cotone in massa" nazionale.
Soltanto dopo dieci anni, si osserva, é stata affacciata la tesi della violazione dell'Accordo GATT, accolta peraltro, in un primo momento, dalla suprema Corte di Cassazione.
Tuttavia, si soggiunge, le Sezioni Unite della Cassazione sono successivamente andate in contrario avviso. É stato infatti affermato che l'esecuzione nell'ordinamento interno dell'Accordo istitutivo del GATT non implica necessariamente la puntuale identità dell'aliquota IGE, che va assolta per il prodotto nazionale e per il similare prodotto di provenienza estera. Secondo questa più recente giurisprudenza del Supremo Collegio, occorre invece aver riguardo al complessivo carico gravante, nel territorio dello Stato importatore, sull'uno e l'altro degli anzidetti prodotti. Tale criterio troverebbe generale applicazione nei paesi aderenti al GATT, e ad esso sarebbe ispirato l'art. 5 della legge n. 267 del 1958, con il quale si é sostanzialmente adottata una misura perequativa a favore del prodotto nazionale, il cui apprezzamento nel merito - come si é ultimamente precisato dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione - é precluso al giudice, trattandosi di un mero presupposto del provvedimento legislativo. La questione che - di fronte al mutato indirizzo della Corte di Cassazione il Tribunale di Milano prospetta in questa sede sarebbe infondata. In relazione all'art. 10 Cost., l'Avvocatura deduce che il testo fondamentale si riferisce, qui, esclusivamente alle norme generalmente riconosciute del diritto internazionale, non ai singoli impegni assunti in campo internazionale dallo Stato.
La legge posta in esecuzione dell'Accordo GATT non avrebbe dunque altro valore che quello della legge ordinaria, e così potrebbe essere modificata o derogata da una legge successiva, senza che per ciò sussista - oltre all'eventuale illecito internazionale derivante dal mancato rispetto degli obblighi pattizi - l'infrazione dell'invocato precetto costituzionale.
Del pari, ad avviso dell'Avvocatura, resta esclusa la prospettata lesione dell'art. 11 Cost.. A quest'altra statuizione costituzionale l'Avvocatura annette il significato d'una norma, che consente, tutt'al più, limitazioni della sovranità statuale, ma dalla quale non discende automaticamente la prevalenza delle norme contenute nel Trattato rispetto alle confliggenti norme interne. In riferimento al parametro ora considerato, la subordinazione della legge al Trattato si prospetterebbe solamente là dove la limitazione della sovranità nazionale statuale si connette, in conformità della previsione costituzionale, con l'instaurazione di tali enti analoghi alla CEE ed il perseguimento dei fini ad essi istituzionalmente devoluti. Il GATT, semplice accordo tariffario e commerciale, rimarrebbe tuttavia fuori da questa prospettiva, essendo d'altra parte rimasto inattuato l'originario disegno di un'International Trade Organization, diretto a superare gli schemi protezionistici su base sovranazionale.
La questione, nei termini in cui é posta alla Corte, sarebbe quindi chiaramente destituita di fondamento, se non, addirittura, inammissibile. L'Avvocatura deduce, ancora, che la parità del trattamento fiscale dei prodotti importati rispetto ai nazionali, va intesa come parità del complessivo carico fiscale e non come puntuale coincidenza del singolo tributo, o della singola aliquota, gravante sull'uno e l'altro prodotto. La norma che la prevede in seno al Trattato non potrebbe allora ritenersi di immediata applicazione: essa sancirebbe un impegno, che gli Stati contraenti, i quali non hanno certamente inteso adottare un nuovo ed uniforme sistema impositivo, sono chiamati a realizzare, ciascuno nella propria autonomia, con i mezzi che il legislatore interno presceglie per conseguire la finalità perequatrice indicata nel Trattato. Sotto questo riflesso, la mancata o inadeguata corrispondenza al disposto dell'Accordo di singoli provvedimenti legislativi non rileverebbe come illecito di diritto internazionale né , tanto meno, come alcun motivo di illegittimità, che possa esser censurato in questa sede. La parità di trattamento fiscale dei prodotti interni e importati esigerebbe del resto - osserva l'Avvocatura - l'armonizzazione delle imposte sugli affari, ed un simile risultato si consegue nel quadro di un'organizzazione fondamentalmente diversa dal GATT, com'è accaduto nella Comunità Europea, grazie all'introduzione nei paesi membri del sistema impositivo monofase. Peraltro lo stesso Trattato di Roma (cfr. art. 95) lascia liberi gli Stati membri della CEE di pervenire alla parità complessiva del carico fiscale per le vie ritenute più idonee. Per quanto in particolare riguarda l'imposta sugli affari, vi é poi l'art. 97 del Trattato, che adotta - riguardo agli oneri fiscali "a cascata", quale era appunto l'IGE - il criterio della parità complessiva, e a tal fine prevede la cosiddetta aliquota media, rinviando alle necessarie e insindacabili determinazioni del singolo legislatore statuale.
- - La difesa di parte privata ha prodotto in prossimità dell'udienza altra memoria, che illustra ulteriormente gli assunti difensivi dedotti nell'atto di costituzione, sempre nel presupposto che l'Accordo istitutivo del GATT ponga un limite alla legge ordinaria, del quale il denunziato art. 5 della legge del 1958 concreterebbe la lesione.
- - Con ordinanza emessa il 7 ottobre 1975 il Tribunale di Milano ha sollevato, nel corso di un procedimento civile, vertente tra la Società M.T. Castoldi ed altre contro l'Amministrazione delle Finanze, questione di legittimità costituzionale degli artt. 5 legge 21 marzo 1958, n. 267 e 9 d.l. n. 319 del 1969 convertito con modificazioni in legge 1 agosto 1969, n. 478, "per irrazionalità di tali norme in relazione agli artt. 3, 53 Cost., e per contrasto con l'art. 11 Cost.".
Le società ricorrenti hanno chiesto il rimborso dell'IGE corrisposta in più rispetto alla quota del 4- 4,80%, che essi assumono da loro dovuta, in considerazione del fatto che la merce importata, sulla quale andava riscossa l'IGE, proveniva da Paesi aderenti al GATT, e andava quindi, secondo le ricorrenti, soggetta allo stesso trattamento tributario delle merci nazionali.
Le ricorrenti ricordano che con la legge 12 agosto 1957, n. 757, il cotone in massa, sia importato, sia nazionale, era stato assoggettato all'IGE del 6- 7,20%; mentre con l'art. 5 della successiva legge 21 marzo 1958, n. 267, (ora denunziato), l'aliquota é stata, per i soli prodotti nazionali, ridotta al 4% in media. Si chiede, pertanto, il rimborso delle quote (corrispondenti, in media, al 2% in più) versate al fisco, per l'importazione di prodotti provenienti da Paesi aderenti al GATT, tra il 1958 e il 1969: anno, quest'ultimo, nel quale la dedotta disparità di trattamento sarebbe stata appunto rimossa, con la legge n. 478 del 1969.
Il Tribunale, ritenuto che per accertare l'effettiva violazione dell'accordo GATT fosse necessario riferirsi al trattamento tributario globale così delle merci importate come di quelle nazionali, aveva rimesso gli atti al Giudice istruttore, affinché chiedesse alla pubblica Amministrazione i dati occorrenti alla comparazione degli anzidetti oneri fiscali. D'altro lato, con la pronunzia 10/75 le SS. UU. hanno, mutando indirizzo, negato la rilevanza di alcuna indagine circa l'effettivo raggiungimento di una reale parità, poiché un eventuale errore del legislatore, il cui intento era nella specie indubbiamente perequativo, non potrebbe certo esonerare il giudice dall'applicare la norma in discorso.
Nel sottoporre alla Corte l'attuale questione, l'anzidetto giudice esclude che vi fosse, prima del 1958, disparità di trattamento impositivo in danno dei prodotti nazionali. Depone a suo avviso in questo senso la circostanza che, nel 1969, lo stesso legislatore abbia provveduto con dichiarato intento perequativo ad eliminare la riduzione dell'aliquota disposta nel 1958 a favore del prodotto nazionale depurato, senza tuttavia sopprimere, in sede di conversione del decreto legge, l'IGE "a cascata" dell'1% sul cotone in seme, com'era stata in detto decreto prevista.
La finalità correttiva della legge 1 agosto 1969, n. 478, sarebbe, sempre ad avviso del giudice a quo, ammessa anche nella menzionata decisione della Cassazione. Ma il Supremo Collegio avrebbe al tempo stesso negato che tale finalità possa rilevare ai fini dell'accoglimento della domanda di rimborso, relativa alla maggiore aliquota sulle importazioni avvenute sotto la vigenza della legge 21 marzo 1958, n. 267, dal momento che la legge n. 478 del 1969 non é né retroattiva, né interpretativa della legge n. 267 del 1958. D'altro lato, l'art. 5 di tale ultima legge é stato posto dal legislatore nel discrezionale apprezzamento dello scopo perequativo che si voleva anche allora perseguire: ed il giudice deve prescindere dal risultato effettivamente raggiunto, né può sindacarne la congruenza rispetto al fine ispiratore della legge.
Di fronte ad un tale orientamento giurisprudenziale il Tribunale di Milano ritiene di dover prospettare alla Corte la seguente questione di costituzionalità:
- A) L'art.5 della legge n.267 del 1958 - a prescindere dalla stessa volontà del legislatore - avrebbe violato le norme dell'accordo GATT, determinando una sperequazione nel trattamento tributario del prodotto nazionale e del prodotto importato dai paesi aderenti al GATT.
La questione di costituzionalità si porrebbe, precisa il suddetto giudice, sotto vari profili. Anzitutto, l'art. 5 della legge n. 267 sarebbe una norma oggettivamente irrazionale, che discende da un errore di valutazione dell'organo legiferante. Questa Corte, continua il Tribunale di Milano, é competente a verificare la congruenza del mezzo rispetto al fine perseguito dal legislatore. Ora di questa congruenza si dubita nel caso in esame. Si deduce che essa difetti, e che l'art. 9 della legge abrogatrice n. 478 del 1969 ne risulti, a sua volta, viziato, per non aver regolato gli effetti della normativa previgente, rimuovendo la sperequazione creatasi fino dall'emanazione dell'art. 5 della legge n. 267.
- B) L'incostituzionalità delle due norme, poste nel 1958 e nel 1969, per determinare l'aliquota del tributo, deriverebbe, dunque, o direttamente dal contrasto con l'art. 11 Cost., per violazione dell'Accordo GATT, ovvero dal fatto che la violazione del principio della parità del trattamento impositivo previsto dall'Accordo medesimo vulnererebbe, indirettamente, il principio della proporzione tra carico fiscale e capacità contributiva, a sua volta collegato col principio di eguaglianza. In punto di rilevanza, si osserva che un'eventuale pronuncia di fondatezza delle suddette eccezioni implicherebbe l'accoglimento delle domande di rimborso, presentate dalle ricorrenti. Le ricorrenti, costituitesi nel giudizio di costituzionalità, rilevano, innanzi tutto, che la presente controversia si é sviluppata intorno agli artt. 1 e 17 della legge n. 762 del 1940 istitutiva dell'IGE, nonché all'art. III dell'Accordo GATT, e alle altre norme già menzionate.
L'art. II a) del Trattato GATT prevede che i singoli Stati possono istituire sui prodotti importati un'imposta di conguaglio, pari all'importo degli oneri che nell'intero ciclo di lavorazione vengono a gravare il prodotto nazionale.
La legge n. 570 del 1954 prevede tale imposta solo a carico del cotone idrofilo e non di quello depurato del seme. La legge n. 757 del 1957 introduce, sempre con riguardo al cotone in massa, un'identica aliquota dell'IGE per i prodotti nazionali e per quelli importati, che viene elevata dal 3 al 6%, e si assolve una tantum, non importa se per il prodotto nazionale o per quello di provenienza estera. La norma che costituisce il principale oggetto della presente questione é quella, posta successivamente (l'art. 5 della legge n. 267 del 1958), che ha ridotto la suddetta aliquota dal 6% al 4% per il solo cotone nazionale, provocando le rimostranze degli organi del GATT, in seguito alle quali é stata poi emanata la legge n. 478 del 1969 al fine di ristabilire l'identica aliquota del 6%, quale era prevista nella normativa del 1957, sia per il prodotto importato, sia per quello nazionale.
La difesa delle ricorrenti ricostruisce altresì gli sviluppi della giurisprudenza (sopra riferiti con riguardo alle altre ordinanze in esame) per respingere la tesi ultimamente accolta dalle Sezioni Unite, le quali hanno ritenuto irrazionale la legge n. 478 del 1969, e razionale, per contro, la disparità delle aliquote, introdotta, come si é detto, con l'art. 5 della legge n. 267 del 1958. Le ricorrenti sostengono, dal canto loro, la fondatezza delle censure formulate nell'ordinanza di rimessione, denunciando come lesiva del criterio di eguaglianza tutte e due le anzidette disposizioni di legge, la prima perché non estende al prodotto straniero l'aliquota del 4%, la seconda perché manca di congegnare retroattivamente l'aumento dell'aliquota del 6% per il prodotto nazionale: fermo restando che - in conformità del Trattato, nonché dell'intento di attuarlo, che il legislatore avrebbe sempre inteso di perseguire - il trattamento fiscale dei due prodotti dovesse, nell'uno e nell'altro caso, risultare identico. Con ciò, sarebbe violato anche l'art. 11 della Costituzione, sull'assunto che il GATT possa assimilarsi all'accordo istitutivo delle Comunità Europee e godere di analoga copertura costituzionale.
Si costituisce con atto separato davanti alla Corte anche la Manifattura Rotondi, per sentir dichiarare la fondatezza delle questioni sollevate.
- - Anche nel presente giudizio ha spiegato intervento il Presidente del Consiglio, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, la quale deduce sostanzialmente lo stesso ordine di rilievi sopra esposti con riguardo alle ordinanze n. 617 e 619 del 1976, asserendo l'infondatezza della questione anche in relazione alla prospettata lesione degli artt. 3 e 53 Cost.. Pur a voler prescindere dalla considerazione che un problema di parità di trattamento in ordine alla capacità contributiva dei soggetti passivi é improponibile, dove si tratti di imposte doganali, il giudice costituzionale dovrebbe comunque apprezzare il merito della scelta del legislatore, essendo evidente in ogni caso che con le norme del 1958 questo abbia voluto perseguire un fine perequativo, come si afferma nella stessa giurisprudenza della Suprema Corte. Le successive disposizioni del 1969 avrebbero, per le ragioni chiarite dalla Corte di cassazione, successivamente ricreato una sperequazione in danno del prodotto nazionale, senza incidere d'altro lato sulla disciplina del prodotto importato: di guisa che, posta la questione sotto il riflesso che la norma in esame eleva al 6% l'aliquota sul cotone nazionale solo a far tempo dalla sua entrata in vigore, si tratta in definitiva di vedere se sia conforme al principio di eguaglianza la mancata previsione del rimborso da corrispondere all'erario, per tutto il periodo in cui il prodotto interno ha goduto di un trattamento fiscale più favorevole rispetto al prodotto importato. Ma il problema di legittimità così prospettato non rileverebbe per la definizione del caso di specie, in cui, viceversa, viene in considerazione l'eventuale rimborso di somme, che gli importatori assumono percette in virtù di un'illegittima maggiorazione dell'aliquota gravante sul prodotto straniero.
- - In prossimità dell'udienza, la difesa delle Società Castoldi ed altre produce una memoria aggiuntiva. Ivi si osserva che l'unico rimedio nei confronti dell'errore del legislatore o dell'eccesso di potere legislativo - dove non si abbia alcun intervento correttivo da parte dello stesso organo legiferante - é offerto dal sindacato di costituzionalità. La presente questione, del resto, si atteggerebbe sostanzialmente negli stessi termini di quella concernente i cosiddetti diritti di visita sanitaria, decisa dalla Corte con la sentenza n. 163 del 1977. La norma nazionale istitutiva di tale diritto, allora censurata, per asserita violazione dell'art. 11 Cost., in quanto incompatibile con il divieto del dazio doganale sancito nella normativa CEE, é stata a tal titolo dichiarata incostituzionale dalla Corte. Nel caso presente lo stesso legislatore si é avveduto dell'errore e ha provveduto ad abrogare l'art. 5 della legge n. 267 del 1958. Senonché, non essendo stata accolta la tesi, più volte sostenuta davanti alle giurisdizioni ordinarie, della retroattività della legge abrogante (legge n. 478 del 1969), non rimane ai ricorrenti che denunziare in questa sede l'omessa eliminazione degli effetti verificatisi a danno degli importatori nel periodo della vigenza della legge n. 267. Sotto tale profilo, vien dedotto che l'art. 9 di quest'ultima legge contrasta con l'art. 3 Cost., in quanto chi ha importato il prodotto straniero nel suddetto periodo soggiacerebbe ingiustificatamente - per errore del legislatore - a un trattamento fiscale di minor favore rispetto a chi ha invece acquistato il prodotto interno nello stesso arco di tempo. Anche a questo riguardo, la questione sarebbe analoga a quella risolta con la sentenza n. 163 del 1977: con la sola ed evidente differenza che tale ultima questione era stata sollevata esclusivamente in relazione alla normativa previgente rispetto alla riscossione dell'imposta; mentre nel presente caso la Corte avrebbe la possibilità di censurare anche la disposizione di una legge sopravveniente, la quale manchi di regolare gli effetti pregressi della norma impugnata. La censura che qui si considera riguarderebbe anche la lamentata lesione dell'art.53 Cost., dovendosi presumere l'eguale capacità contributiva di coloro i quali hanno compiuto l'operazione, soggetta all'onere fiscale in tempi diversi, ma pur sempre a parità di presupposti e condizioni, dal momento che il legislatore non ha mai ritenuto di dover discriminare il prodotto straniero da quello nazionale.
La difesa della S.p.A. Rotondi presenta una memoria in prossimità dell'udienza, nella quale si deduce, come asseriscono le altre Società, la violazione degli artt. 3 e 53 Cost., e si osserva che l'Avvocatura dello Stato trascura le pronunzie rese da questa Corte in tema di irrazionalità del provvedimento legislativo.
- - Nel corso del presente giudizio questa Corte emetteva l'ordinanza istruttoria n. 198/80, al fine di acquisire per il tramite dei Ministeri degli Esteri e delle Finanze, ulteriori elementi di valutazione - in merito ai rilievi, che le società ricorrenti assumevano formulati dagli organi del GATT, per la pretesa incompatibilità dell'art.5 della legge n.267 del 1958, con la normativa pattizia - nonché in merito all'applicazione del principio della parità tributaria, sancito dalla suddetta normativa.
I due Ministeri, ottemperando al disposto dell'ordinanza, hanno inviato note e documenti allegati.
Il Ministero degli Esteri con telespresso, in data 4 aprile 1981, comunica che la rappresentanza italiana presso le organizzazioni internazionali con sede a Ginevra ha fornito varie notizie in relazione a quanto richiesto dalla Corte. La norma pattizia che si ritiene violata - informa il Ministero - é contenuta esclusivamente nell'art. III, non essendo mai stata approvata la proposta di modifica dell'ordine di successione delle norme GATT. Quanto ai richiami che sarebbero stati mossi da parte degli organi del GATT al nostro governo, si afferma che di essi non vi é traccia e che in ogni caso sarebbero contrari alla prassi.
In casi analoghi, si precisa nella nota, é avvenuto che alcuno dei paesi aderenti, il quale lamentasse di esser leso dalle norme prodotte da altri contraenti in violazione del Trattato, abbia chiesto ed ottenuto la modifica di tali norme.
Nel telespresso del Ministero delle Finanze, inviato alla Corte il 26 maggio 1981, si ricorda che una prima valutazione comparativa del carico fiscale complessivo, cui sono stati rispettivamente sottoposti i cotoni nazionali e quelli esteri, é stata effettuata in occasione appunto dell'approvazione della legge n. 267 del 1958. Questa legge, si dice, ha inteso con la sopra riferita riduzione dell'aliquota IGE sul cotone nazionale, perseguire finalità perequative, essendo emerso durante i lavori preparatori che il carico IGE su tale prodotto era del9%.
Nel 1973, però, rileva il Ministero delle Finanze, é stata compiuta una nuova indagine, con riferimento al periodo di vigenza della legge n. 267 del 1958. Di tale indagine l'Avvocatura ha peraltro deciso di non tener conto, insistendo nella linea difensiva dell'Erario, che le Sezioni Unite della Cassazione, mutando la giurisprudenza del Supremo Collegio, hanno poi accolto. L'indagine era stata affidata al Capo Ispettore dell'Amministrazione delle Tasse e Imposte Indirette sugli affari, e si trova riassunta nella nota 510161 del 26 marzo 1973: da essa risulta che il carico fiscale IGE cui sarebbe stato sottoposto il cotone nazionale poteva essere compreso, secondo il numero di passaggi dal coltivatore all'azienda cotoniera, tra l'1% e il 6%, e che, comunque, la maggior parte del cotone era sottoposta all'IGE dell'l%; in ogni caso, anche volendo calcolare la media semplice, risultava un carico fiscale IGE sul prodotto nazionale - approssimato, peraltro, per eccesso - del 4 %, rispetto a quello del 6 %, previsto per quello estero.
- - La difesa delle società cotoniere costituitesi nel terzo giudizio di costituzionalità (di cui all'ordinanza 74/77) presenta una memoria, nella quale si ribadiscono i precedenti assunti difensivi.
Dal 1966 numerose aziende cotoniere - notano le ricorrenti - hanno presentato ricorsi. La Corte di Cassazione aveva in un primo momento accolta la tesi, ad esse favorevole, dell'implicita estensione dell'aliquota sui cotoni nazionali, anche ai cotoni importati dai paesi aderenti all'Accordo GATT. Gli organi del GATT - si dice poi - avevano, attraverso l'Ambasciata degli USA, espresso al nostro governo le proprie rimostranze. Ulteriori rilievi venivano avanzati per il tramite della Direzione generale degli affari economici presso il Ministero degli Esteri, e il ministro delle Finanze dell'epoca presentava alle Camere il decreto legge n. 319, successivamente convertito nella legge n. 478 del 1969. Richiamato ancora una volta l'iter giurisprudenziale della Cassazione, si rileva il divario che sussisterebbe fra le finalità rispettivamente perseguite dalla legge n. 757 del 1957 (la quale avrebbe eliminato il sistema a "cascata", elevando l'aliquota IGE sul cotone sia nazionale, sia estero) dalla legge n. 267 del 1958, e, infine, dalla legge n. 478 del 1969. Nel 1957 il legislatore riteneva che il cotone nazionale fosse troppo poco tassato; nel 1958 esso ha voluto invece evitare una presunta sperequazione ai danni di tale prodotto, e nel 1969 ha ripristinato la formula adottata nel 1957. Quanto poi al preteso specifico vizio di costituzionalità dell'art. 9 della legge n. 478 del 1969 viene rilevato come questa Corte abbia in precedenti pronunce riconosciuto la sindacabilità delle omissioni legislative, che si risolvono in violazioni della Costituzione.
Il legislatore del 1969, continua ancora la difesa delle ricorrenti, aveva infatti due alternative: o fissare la parità dell'aliquota in basso, al 4%, o fissarla in alto, al 6%. Omettendo di prevedere sia la ritassazione a carico degli acquirenti di cotone nazionale, sia il rimborso agli importatori si é incorso, sostiene sempre la difesa delle aziende che hanno importato cotoni esteri, nella violazione degli artt. 3 e 53 Cost..
Con riferimento, poi, alle richieste formulate dalla Corte nell'ordinanza istruttoria viene osservato che é depositata in atti la nota interpretativa degli organi del GATT del 1970, nella quale si afferma testualmente: "la taxe (sul prodotto importato e su quello interno) doit etre la meme". Inoltre, la rimostranza di taluni ultimi organi risulterebbe dall'allegata relazione in Parlamento dell'onorevole Pandolfi e del senatore Martinelli.
Il riconoscimento della violazione dell'art. III dell'Accordo GATT verrebbe altresì avvalorato dai lavori preparatori della legge del 1969, del pari allegati. Ancora: la risposta inviata dal ministro delle Finanze e in particolare l'indagine comparativa compiuta nel 1973 offrirebbero ulteriori elementi di conferma delle tesi proposte dalla parte privata. La nota ministeriale, per vero, pur avendo lealmente dato conto dell'indagine suddetta, cercherebbe di sminuirne i risultati, sia richiamando le sentenze della Cassazione in cui si afferma l'insindacabilità dell'eventuale errore di fatto del legislatore, sia insistendo sul carattere solo apparentemente discriminatorio - ma sostanzialmente perequativo - della disposizione del 1958. Senonché siffatti argomenti non persuaderebbero. In relazione a quello riferito per ultimo, si osserva, infatti, che l'art. 9 del d.l. n. 319 del 1969, che prevedeva la soppressione dell'IGE dell'1% sul cotone in seme, non é stato incluso nella legge di conversione; l'aliquota in esso prevista sarebbe stata dunque mantenuta ferma sull'evidente presupposto del maggior carico fiscale che verrebbe diversamente a gravare sul prodotto importato.
- - Anche l'Avvocatura dello Stato presenta altra memoria, con riferimento a tutti e tre i giudizi di costituzionalità.
Riguardo alla risposta del Ministero delle Finanze, l'Amministrazione si sarebbe sempre attenuta al criterio di applicare le aliquote poste dal legislatore, al quale é riservato il compito del rispetto degli obblighi internazionali.
L'unica comparazione, relativa al carico fiscale complessivo sui cotoni effettuata in sede legislativa, risale alla formazione dell'art. 5 della legge n. 267 del 1958, ora censurato.
L'indagine successivamente compiuta nel 1973, i cui primi risultati non erano stati condivisi dal patrocinio dell'Amministrazione, non ha avuto concreto seguito e non é stata nemmeno approfondita, avendo il Supremo Collegio intanto accolto l'opposto punto di vista della stessa Avvocatura dello Stato.
Con riferimento, poi, alla nota del Ministero degli Esteri, si osserva che non risulti esservi stata alcuna protesta degli organi del GATT; la modifica del 1969 sarebbe invece avvenuta sulla spinta delle categorie interessate, dopo le prime pronunzie della Cassazione, superate poi dalla successiva giurisprudenza.
Ad ogni modo, continua l'Avvocatura, non si é mai ipotizzato nell'ambito del GATT alcuna possibilità di sindacato che verifichi la parità tributaria complessiva. Si é solo talvolta richiesto di valutare l'opportunità di rivedere le disposizioni contestate e ciò sulla base degli articoli XXII e XXIII del Trattato. Vengono quindi ribadite le tesi già enunciate nell'atto di intervento sia in merito alla natura del GATT, che non sarebbe un'organizzazione sovranazionale del tipo della CEE, al quale fa riferimento l'art. 11 della Costituzione, sia in merito al preteso contrasto dell'art. 5 della legge n. 267 del 1958 con l'art. 10 della Costituzione.
Rileva ancora l'Avvocatura che l'art. III dell'Accordo GATT si configura come norma che non pone precetti compiuti e immediatamente applicabili, ma é diretta, semplicemente, a garantire il rispetto della complessiva parità tributaria. La Corte in ogni caso non potrebbe essere chiamata a individuare le misure di conguaglio, che al legislatore spetta di adottare. Anche per questo, non si pone il dubbio di costituzionalità che nell'ordinanza di rinvio é sollevato in riferimento all'art. 10 Cost. La difesa dello Stato fa rinvio al proprio atto di intervento con riguardo, altresì, alla presunta violazione dell'art. 11 Cost.. Quanto, poi, alla parità complessiva dell'imposizione fiscale, come richiesta dal Trattato, viene osservato che tutti gli interventi legislativi hanno perseguito intenti perequativi. Le norme al riguardo dettate sfuggirebbero dunque al sindacato, in punto di ragionevolezza.
Per un corretto calcolo del carico impositivo dovrebbe del resto esser preso in considerazione il quantitativo di cotone grezzo occorrente per ottenere un chilogrammo di cotone depurato; si dovrebbe poi stabilire l'onere fiscale per il cotone in seme; calcolatone il totale, occorrerebbe tradurlo in termini percentuali rispetto al valore del cotone in massa. Ma anche un calcolo di tale tipo, continua la difesa dello Stato, appare pur sempre empirico, non potendosi escludere che, anche procedendo sulla base di criteri corretti sotto il profilo giuridico ed economico, si pervenga a risultati difformi, dall'uno all'altro caso di specie. Spetta invece al legislatore mediare tra le differenti situazioni, e conseguire un risultato unitario, che risponda all'esigenza della generalità ed uniformità del precetto normativo.
Viene quindi osservato che il criterio di non discriminazione richiede che si tenga conto dei sistemi vigenti nei singoli paesi, che possono peraltro ispirarsi anche a criteri alternativi, secondo se i beni importati sono tassati esclusivamente dal paese di origine, ovvero dal paese importatore. Per l'una via o l'altra, viene evidentemente evitata la doppia tassazione. Nella realtà, quanto meno con riferimento alle imposte indirette, il sistema basato sul carico fiscale del paese di origine non ha trovato attuazione, perché, anzitutto, presupporrebbe l'abolizione delle frontiere fiscali. L'altro principio trova, per contro, generale attuazione nell'ambito della CEE.
L'Avvocatura osserva, ancora, che la neutralità concorrenziale sotto il profilo fiscale, in conformità del principio di non discriminazione, che é posto a base dell'Accordo GATT, si attua, in concreto, solo parificando gli oneri tributari ai quali sono soggetti i prodotti interni e quelli importati. A tal scopo possono adottarsi due sistemi: in caso d'imposizione monofase si applicherà una medesima aliquota sul prodotto, importato o nazionale; nell'ipotesi d'imposizione plurifase, qual era appunto l'IGE, per ottenere la neutralità concorrenziale può rendersi indispensabile il ricorso ad aliquote differenziate o ad un tributo compensativo.
Nell'ambito della stessa CEE la direttiva emessa in data 30 aprile 1968 ha posto in risalto la necessità di lasciare ai paesi membri la valutazione forfettaria (relativamente al periodo precedente l'istituzione dell'IVA). Dalle disposizioni della circolare risulta peraltro che il calcolo degli oneri complessivi non può comunque essere realizzato con precisione.
La stessa conclusione si imporrebbe, a maggior ragione, con riferimento alla sfera di applicazione del GATT, per la quale, Si dice, é impensabile che il giudice della costituzionalità sia chiamato a verificare nei singoli casi l'ammontare complessivo dell'IGE. Tutt'al più, potrebbe configurarsi un sindacato sulla effettiva funzione perequativa delle norme: della quale funzione pare, però, anche alla luce della giurisprudenza della Cassazione, non possa dubitarsi, sol che si abbia presente il quadro normativo in cui si colloca la disposizione ora censurata. I risultati sopra esposti trarrebbero conferma dai lavori preparatori della normativa in esame: la riduzione dell'aliquota IGE all'1% del cotone in seme e la riduzione dell'aliquota al 4% del cotone in massa, si deduce, sono state prospettate ed approvate in sede parlamentare sempre nel presupposto che sul prodotto nazionale gravasse con le precedenti aliquote un carico complessivo ben superiore a quello cui soggiaceva il cotone importato, per il quale era prevista l'aliquota del 6%. Ma il sindacato di costituzionalità, osserva l'Avvocatura, non ha mai toccato altro vizio, che non sia quello afferente alla legittimità della norma, sia pure sotto il profilo della ragionevolezza. Una volta accertato il fine perequativo della legge, e l'effettiva sussistenza della sperequazione, alla quale il legislatore ha voluto poi rimediare, la Corte non potrebbe, in nessun caso, spingersi oltre. In questa prospettiva, perde ogni rilievo l'indagine intrapresa dal Ministero delle Finanze nel 1973, e però mai approfondita e condotta a termine. Si precisa in proposito, comunque, che non sono ammissibili indagini, le quali abbiano riguardo alla prevalenza di alcun ipotetico sistema impositivo, quale sarebbe quello incentrato sul trasferimento del cotone in seme dal coltivatore all'azienda. In concreto, anche qui, non potrebbero escludersi oneri intermedi, lungo il ciclo della lavorazione del prodotto tassato. A maggior ragione, dove si abbia un doppio passaggio (dal produttore al grossista e da questi allo sgranatore) - e questa é l'ipotesi che, ad avviso dell'Avvocatura, si verifica più frequentemente - il carico fiscale complessivo sfavorirebbe il cotone nazionale, rispetto a quello straniero. D'altra parte, un'ipotetica aliquota intermedia tra il 4% e 6%, difetterebbe del carattere di uniformità e generalità, indispensabili per l'imposizione fiscale.
Il rilievo della parte privata, che le aziende cotoniere utilizzano spesso le proprie attrezzature per la prima lavorazione del cotone acquistato ancora in seme, non sarebbe rilevante al fine di individuare il regime impositivo. Detto regime deve essere predisposto in considerazione delle ipotesi normali e non delle altre, che possono pur verificarsi, per motivi di convenienza.
Diversamente opinando, si dovrebbe ammettere un sindacato sull'eguaglianza di trattamento fiscale nell'ambito degli stessi produttori nazionali.
L'Avvocatura conclude che solo l'introduzione dell'IVA ha potuto eliminare quelle eventuali discrepanze di fatto che si connettono inevitabilmente con l'imposizione "a cascata".
Per tutte le suddette ragioni si chiede alla Corte che le questioni poste con le tre ordinanze del Tribunale di Milano siano dichiarate inammissibili o comunque infondate.
Nell'udienza pubblica del 26 gennaio 1982, l'Avvocatura dello Stato e la difesa della parte privata hanno ribadito e svolto le rispettive conclusioni.
Considerato in diritto
- - Nel presente caso vengono in considerazione due norme di legge, concernenti l'aliquota dell'IGE gravante su1 c.d. cotone in massa (cotone depurato dai semi), e precisamente:
- a) l'art. 5 della legge 21 marzo 1958, n. 267 ("Modifica delle tabelle A e B allegate alla legge 12 agosto 1957 n.757, concernente l'imposta generale sull'entrata una tantum sui prodotti tessili"), il quale stabilisce, al secondo comma, che "per il cotone di produzione nazionale depurato dai semi l'aliquota é ridotta al 4%". La previgente normativa - va subito precisato: cfr. la legge 12 agosto 1957, n. 757, art. 2, a) e b) - prevedeva l'aliquota del 6% sia per il prodotto nazionale, sia per il prodotto proveniente dall'estero; il citato art. 5 della legge 267 del 1958 nulla espressamente dispone con riguardo al cotone in massa importato.
- b) L'art. 9 della legge 1 agosto 1969, n. 478 ("Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 2 luglio 1969, n. 319, concernente il regime fiscale di alcuni prodotti tessili"), che abroga la testé ricordata statuizione della legge n. 267 del 1958 e nuovamente assoggetta il cotone di produzione nazionale depurato dai semi al regime impositivo dell'IGE già dettato dalla citata legge del 1957: dunque, all'aliquota del 6%.
Il Tribunale di Milano, in tutte e tre le controversie dalle quali trae origine l'attuale questione, era chiamato a conoscere della domanda di rimborso delle somme che le parti attrici assumono percette dall'Amministrazione finanziaria in eccedenza dell'importo dell'IGE, da loro dovuto per importazione di cotone in massa. I prodotti importati - nella specie, dall'area del General Agreement on Tariffs and Trade (GATT) - avevano infatti scontato l'aliquota del 6%, e non l'aliquota del 4%, prevista per il cotone in massa di produzione nazionale. Il GATT - ratificato e reso esecutivo nell'ordinamento interno (cfr. leggi del 5 aprile 1950, n. 295 e del 7 novembre 1957, n. 1307) - avrebbe infatti, secondo le società promotrici del giudizio a quo, prescritto la puntuale identità delle aliquote gravanti rispettivamente sul prodotto nazionale e su quello importato, a norma della seguente clausola (art. III, 2): "Les produits du territoire de toute partie contractante importés sur le territoire de toute autre partie contractante ne seront pas frappés, directement ou indirectement, de taxes ou d'autres impositions intérieures, de quelque nature qùelles soient, supérieures à celles qui frappent, directement ou indirectement, les produits nationaux similaires".
1 A) - Il giudice a quo assume che secondo la ormai consolidata giurisprudenza della Corte di cassazione:
- a) la clausola pattizia or ora citata implichi l'obbligo per ciascun contraente di assicurare, non l'identità formale dei singoli tributi e delle singole aliquote per il prodotto interno e per quello importato dal territorio delle rimanenti parti del GATT, sibbene la parità sostanziale del complessivo carico fiscale, quale risulta dal coacervo dei tributi che gravano - beninteso, nel territorio dello Stato importatore - sull'uno e sull'altro prodotto;
- b) la comparazione degli oneri tributari che concorrono a stabilire l'anzidetta parità di trattamento, a norma dell'Accordo, sia esclusivamente rimessa al legislatore, e le discrezionali determinazioni da questo adottate al riguardo, non siano suscettibili di revisione, in sede applicativa, né per eccesso né per difetto, da parte del giudice;
- c) la norma regolatrice della specie - e cioè, l'art. 5, secondo comma, della legge 21 marzo 1958, n. 267 - sia diretta negli intenti dello stesso legislatore, non a proteggere il cotone nazionale, ma, semplicemente, a perequarne il trattamento tributario, rispetto al cotone straniero, rettificando il regime già fissato nella legge del 1957. Ciò nel presupposto che, ai sensi di quest'ultima legge, il prodotto interno fosse più tassato di quello straniero: e precisamente, fosse gravato oltre che, al pari del prodotto di importazione, dell'aliquota del 6%, posta sul cotone in massa - dall'IGE incidente, "a cascata", sul cotone in seme;
- d) il legislatore del 1958 abbia calcolato il suddetto aggravio differenziale a carico del cotone nazionale - tenendo in conto almeno due passaggi soggetti a tassazione nell'anteriore ciclo di trasformazione del prodotto - come ammontante al 2%: ed abbia dunque alleggerito di altrettanto - in funzione perequativa - l'aliquota sul cotone in massa nazionale, mentre ha mantenuto l'aliquota del 6% per il similare prodotto di importazione.
- - Ad avviso del Tribunale di Milano, il trattamento fiscale così configurato discrimina ingiustificatamente il prodotto importato da quello interno. Di qui la presente questione, così proposta all'attenzione della Corte:
- a) In due ordinanze di identico contenuto (nn.617 e 619) si censura l'art. 5, secondo comma, della legge 1958 in riferimento agli artt. 10, primo comma, e 11 Cost.. Con il ridurre l'aliquota dal 6% al 4% per il cotone in massa di produzione interna - e non anche per quello importato dall'area del GATT - il legislatore avrebbe disatteso il principio di parità tributaria, sancito in detto trattato, vulnerando gli invocati precetti costituzionali, dai quali si assume garantito il rispetto dell'obbligo internazionale. Il ripristino della parità delle aliquote - disposto con le norme del 1969, in seguito a rimostranze che si asseriscono mosse all'Italia dagli organi del GATT - dimostrerebbe che il regime dettato nel 1958 implicava un aggravio sul prodotto importato, incompatibile con le prescrizioni dell'Accordo internazionale.
- b) Analogo ordine di rilievi é avanzato con più diffusa motivazione nell'ordinanza di rinvio emessa dal Tribunale di Milano il 7 ottobre 1975 (reg. ord. n. 74 del 1977), e nella quale sono denunziati sia l'art. 5 della legge n. 267 del 1958, sia l'art. 9 della legge n. 478 del 1969.
b 1) La prima delle censurate disposizioni - pur diretta, come si ritiene dalla Corte di Cassazione, a perequare l'aliquota sul prodotto straniero, di fronte al ritenuto minor carico fiscale gravante sul prodotto importato - sarebbe tuttavia viziata dalla sua stessa "oggettiva irrazionalità", perché frutto di un "errore", compiuto dal legislatore nella comparazione degli oneri, che complessivamente incidono sull'uno e l'altro prodotto. Anche qui, come nell'altro provvedimento di rimessione, si asserisce che tale errore é stato riconosciuto dallo stesso legislatore, nel momento in cui, con la successiva legge del 1969, si é ristabilita la parità dell'aliquota per i due prodotti;
b 2) l'art. 9 della legge n. 478 del 1969, si afferma poi, é parimenti irrazionale, nel senso che, disponendo l'identità delle aliquote solo per il futuro, esso lascia sussistere i presunti effetti discriminatori intanto spiegati dalla norma "errata", invece di eliminarli fin dalla loro insorgenza, come avrebbe invece richiesto il corretto adempimento dell'obbligo pattizio.
Con ciò si deduce che l'una e l'altra delle disposizioni in esame sono costituzionalmente illegittime, o per immediato contrasto con l'art. 11 della Costituzione, in relazione alle norme che hanno autorizzato la ratifica del GATT e lo hanno reso internamente efficace, e sull'assunto che detto Accordo vada, quanto ai rapporti con le fonti interne, assimilato al Trattato istitutivo della CEE; ovvero, per inosservanza del principio di parità tributaria stabilito nel Trattato, dalla quale discenderebbe l'indiretta lesione del principio della necessaria proporzione, ex art. 53 Cost., tra carico fiscale e capacità contributiva dei soggetti, e del connesso principio costituzionale di eguaglianza: giacché, si osserva, a situazioni rivelatrici di identica capacità contributiva non son fatti corrispondere uguali regimi impositivi.
- - I giudizi instaurati con le ordinanze in epigrafe possono, data l'identità delle questioni prospettate, essere riuniti e congiuntamente decisi.
- - Il Tribunale di Milano denuncia, in definitiva, l'infrazione del sopra riferito disposto dell'art. III, 2 del GATT. Il problema é sollevato in questa sede in quanto si assume, come si é appena visto, che il rispetto di detta regola convenzionale sia direttamente o mediatamente garantito dagli invocati precetti costituzionali. Occorre quindi, prima di tutto, precisare come si configuri il criterio di parità tributaria ivi stabilito. Ci troviamo, va avvertito, di fronte ad una norma internazionale, la quale, immediatamente applicabile nell'ordinamento statale, ha, in virtù del relativo ordine di esecuzione, acquistato piena idoneità a conferire in capo ai singoli situazioni giuridiche, tutelabili in via giurisdizionale. Resta, tuttavia, da vedere se essa esiga necessariamente l'identità delle singole aliquote che, nel sistema impositivo dell'IGE, gravano sul prodotto straniero e sul similare prodotto interno: o se non si debba, invece, aver riguardo alla sostanziale equivalenza del carico tributario, al quale - nel territorio e secondo l'ordinamento dello Stato importatore - soggiacciono, in complesso, l'uno e l'altro prodotto.
4 a) - Secondo la difesa della Società Legler, Manifattura Festi Rasini e Società Rotondi la parità di trattamento fiscale ai sensi del Trattato va puntualmente riferita alle aliquote di tributo. Questa tesi sarebbe, peraltro, la sola conforme al sistema e alla prassi applicativa dell'Accordo. Al riguardo le parti private producono in giudizio una nota interpretativa degli organi del GATT, che concerne l'art. III, 2 e nel testo inglese ha il seguente tenore: "Internal taxes on imported products could be increased if the tax on the domestic products was also increased; the requirement was that the tax should be the same on both imported and domestic products." (E/CONF.2/C. 3/SR42 p. 4, GATT, Analytical Index, Third Revision March 1970).
La citata dichiarazione delle parti contraenti - ha affermato il patrono delle Società Legler, Festi Rasini e Manifattura Rotondi, nell'udienza del 12 novembre 1980 - stabilisce senza possibilità di equivoco il significato della regola pattizia. Il criterio della parità delle singole aliquote sarebbe stato infatti sancito, in sede di interpretazione del Trattato, come generale ed inderogabile, con il risultato di precludere ogni possibile differenza di regime ai danni del prodotto importato: ciò, - sia se il legislatore aggravi l'aliquota sul prodotto interno - e tale é l'ipotesi espressamente considerata nella nota sopra riportata - sia se esso alleggerisca , per converso , il trattamento del prodotto nazionale, com'è accaduto nella specie.
Quest'affermazione non può, tuttavia, essere accolta. Com'è spiegato in narrativa, la Corte ha ritenuto di dover acquisire, mediante l'ordinanza istruttoria n. 198 del 1980, ulteriori elementi di giudizio anche in ordine allo specifico profilo della specie che viene ora in esame.
La documentazione fatta pervenire dal Ministero degli Affari Esteri in ottemperanza a detto provvedimento dimostra che in seno al GATT sussiste divergenza di vedute sul modo come, nell'ordinamento interno di ciascun contraente, deve operare il divieto di peggiorare il trattamento tributario del prodotto importato rispetto a quello del similare prodotto nazionale: al punto che, nelle sedi competenti, non si é inteso, né potuto, adottare alcuna statuizione interpretativa dell'Accordo, in forza della quale la tesi della parità delle singole aliquote del tributo possa, come si vorrebbe dalle parti private, ritenersi preferita a quella del carico complessivo fiscale sui prodotti in considerazione. (Cfr. il citato Analytical Index, sub art. III, 2, alla voce 5 (c), che fa specifico riferimento alle tasse interne incidenti su più stadi del ciclo di produzione: 3 s/210211 para. 10).
D'altra parte, tale ultima tesi trova il supporto della più recente giurisprudenza della Corte di Cassazione, che ne ha compiutamente rischiarato il fondamento. Questa Corte ritiene di doverla accogliere, dal canto suo.
4 b) - Per la soluzione che così si adotta soccorre, infatti, più di una considerazione. Il criterio del complessivo carico fiscale, opera già, nel nostro ordinamento, con riguardo alla clausola di parità tributaria del Trattato di Roma (art. 95), la quale é fuor di dubbio analoga a quella in esame, dal momento che la CEE promuove e tutela - non diversamente dal GATT: anzi, con tutte le istituzionali risorse di un ente sovranazionale - la libertà di scambio e commercio dei rapporti fra gli Stati membri.
Quanto, invece, all'altro criterio dell'identità delle singole aliquote di tributo, é da ritenere, come osserva l'Avvocatura, che esso possa giustificarsi solo nella prospettiva di un comune sistema di imposta "monofase", una volta armonizzate in questo senso le legislazioni interne dei paesi aderenti all'Accordo: giacché allora sarebbe effettivamente e razionalmente soddisfatto il requisito dell'automatica e puntuale coincidenza fra gli oneri fiscali che afferiscono al prodotto importato e a quello interno, l'uno e l'altro considerati, appunto, in quanto "similari", al medesimo stadio dei relativi cicli di lavorazione. Un tale risultato é stato conseguito, nel nostro sistema tributario, con l'introduzione dell'imposta - sul valore aggiunto (IVA), epperò, con la simultanea soppressione dell'IGE, che é imposta del tipo "onnifase". (Cfr. art. 90 d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633). Senonché, il presente caso si inquadra in un contesto della legislazione interna, in cui l'IGE esiste, serbando integra la propria potenzialità di applicazione, insieme con altri strumenti fiscali, preordinati a perequare gli oneri sul prodotto nazionale e su quello straniero, rispettivamente in sede di esportazione o importazione (cfr. artt. 1 e 2, legge 31 luglio 1954, n. 570: "Restituzione dell'imposta generale sull'entrata sui prodotti esportati ed istituzione di un diritto compensativo sulle importazioni"). E noto, del resto, come la successiva adozione dell'IVA abbia adempiuto alle esigenze scaturenti dal Trattato di Roma, anche nel senso di superare i rilievi sollevati in sede comunitaria con riguardo al rimborso dell'IGE all'atto dell'esportazione, qual era congegnato nella citata legge n. 570 del 1954; rilievi, che erano dovuti proprio al funzionamento del caratteristico sistema dell'imposta onnifase. Detto ciò, va peraltro escluso che l'assetto normativo sopra richiamato abbia subito modifiche, in forza del disposto dell'art. III, 2 del GATT. Alla previsione di tale regola internazionale, l'ordinamento interno si é, certo, adattato. In Italia, in quanto paese di destinazione, si é dunque reso operante il divieto di discriminare il prodotto importato da quello nazionale. Ma il legislatore non é stato per questo spogliato della possibilità, dischiusa dalle disposizioni allora vigenti, di giovarsi dell'uno o dell'altro mezzo per assicurare la "neutralità fiscale", che l'Accordo gli imponeva: e ha dunque anche mantenuto - dove una simile scelta servisse alle finalità stabilite nel Trattato - la facoltà di differenziare le aliquote dell'IGE, sia a favore del prodotto interno, sia a svantaggio del cotone straniero. Il che dimostra come il risultato prescritto dal GATT sia necessariamente quello, sopra indicato, della complessiva parità del carico tributario, che si può conseguire per vie diverse.
- - Poste queste premesse, l'attenzione va fermata sull'ammissibilità della questione concernente l'art. 9 della legge n. 478 del 1969. L'Avvocatura dello Stato ne ha infatti eccepito l'irrilevanza.
Detta statuizione, si é visto sopra, é denunziata come irrazionale, sull'assunto che, nel porla, il legislatore abbia inteso correggere, in conformità del GATT, l'erronea diversificazione delle aliquote previste dalla legge del 1958, per l'IGE sul cotone in massa di produzione nazionale e sul similare prodotto di provenienza estera: ma abbia poi omesso di regolare retroattivamente gli effetti della norma, che si asserisce errata. Con ciò, dunque, si deduce un'illegittima disparità di discipline, sotto il duplice profilo della discriminazione del prodotto estero da quello interno, e della diseguaglianza degli oneri fiscali per chi ha importato il cotone in massa dopo l'entrata in vigore della normativa del 1969, e chi invece lo ha importato prima, sotto l'impero della legge n. 267 del 1958. Senonché, osserva l'Avvocatura, il vizio così configurato verrebbe nella specie a inficiare la norma, che, nel 1969, ha fissato l'aliquota del tributo sul prodotto interno nella misura non del 4%, ma del 6%: la lamentata irretroattività di questa disposizione, si osserva poi, starebbe dunque in ciò, che si é mancato di prevedere il recupero della maggiore imposta per il cotone nazionale; ma una simile censura, si soggiunge, non rileva evidentemente per la definizione del giudizio a quo, nel quale la parte attrice chiede, invece, il rimborso delle somme che assume percette dall'Amministrazione finanziaria in eccedenza dell'aliquota del 4%, posta nella legge del 1958 sul cotone di produzione interna.
L'eccezione é fondata. La questione va quindi dichiarata inammissibile in relazione a tutti gli invocati parametri costituzionali (3, 11, 53 Cost.).
- - Residuano all'esame della Corte le censure che investono l'art. 5 della legge n. 267 del 1958. Giova esaminare anzitutto quella, comune a tutte le ordinanze in esame, che ha riguardo alla pretesa violazione dell'art. 11 Cost., insieme con l'altra, sollevata in riferimento all'art. 10, primo comma, Cost.. I precetti che si assumono violati erigono a limite della legge ordinaria il rispetto dei trattati istitutivi di organizzazioni sovranazionali, qual é la CEE, e della produzione normativa da essi derivata, nonché delle consuetudini e delle altre regole generalmente riconosciute di diritto internazionale. La regola convenzionale in discorso, contenuta in un accordo tariffario e commerciale, non appartiene, però, né all'una né all'altra delle anzidette categorie di norme, né gode altrimenti di coperture o guarantigie costituzionali, in virtù delle quali si possa estrarre da essa, in seno all'ordinamento statuale, alcun criterio di raffronto per le disposizioni del legislatore ordinario. Già per questo solo e assorbente motivo, la questione va ritenuta, in relazione ai parametri che qui si invocano, priva di fondamento.
- - La censura che si muove all'art. 5 della legge del 1958, in riferimento agli artt. 53 e 3 Cost., é, in buona sostanza, argomentata in base al presunto errore del legislatore, cui si é fatto riferimento, sub 2 b 1), e alla conseguente divergenza della statuizione in esame dal fine, che con essa si voleva perseguire.
La norma denunziata, occorre ricordare, abbassa l'aliquota dell'IGE sul cotone di produzione nazionale al 4%, e mantiene l'aliquota del 6% sul prodotto importato. Si assume dal giudice a quo che il legislatore si sia proposto di perequare, sempre nei limiti consentiti dal GATT, la tassazione del cotone italiano rispetto a quella del prodotto straniero: ma abbia, nel trattamento dei due prodotti, in realtà avvantaggiato quello interno, proprio per aver erroneamente ritenuto che, senza l'anzidetta diversificazione delle aliquote, esso avrebbe, in rapporto all'altro, sopportato un maggior carico tributario.
L'incidenza di tale errore sulla norma censurata risulterebbe, poi, dal confronto con il disposto della successiva statuizione dell'art. 9 della legge del 1969, che rimuove lo sgravio fiscale prima disposto nei confronti del prodotto interno. L'anzidetta disparità delle aliquote - ha peraltro osservato la difesa delle parti private, nell'udienza del 26 gennaio 1982 non é mai stata prevista, nel corso della nostra legislazione, né prima né dopo la norma regolatrice della specie: la quale ultima concreterebbe dunque, nella prospettazione del giudice a quo, un'ingiustificata deviazione del regime dell'IGE sul cotone in massa, che in ogni altro caso, vien dedotto, ha sempre puntualmente aderito al criterio di non discriminazione, sancito nell'art. III, 2 del GATT. Nell'ordinanza di rinvio si assume, d'altro canto, che nell'adeguare a detto criterio il trattamento comparativo del prodotto estero e di quello interno, il legislatore abbia necessariamente presupposto la stessa capacità contributiva - e comunque la stessa situazione, ai fini dell'eguaglianza dell'onere tributario - di chi importa il cotone in massa e di chi lo acquista dal produttore (o dall'ente ammassatore) all'interno dello Stato (cfr. art. 2 a) e b) legge 12 agosto 1957, n. 757, richiamato nella norma censurata).
Così posto il problema, la disposizione istitutiva della disparità di aliquote potrebbe ritenersi affetta dal censurato vizio di irrazionalità, solo se fosse certa la sussistenza dell'errore che si assume abbia determinato l'organo legislativo ad emanarla. Escluso, poi, che la presunta inosservanza del GATT possa costituire un'autonoma ipotesi di infrazione dell'art. 10, primo comma, o dell'art. 11 Cost., l'indagine di cui é investita la Corte va esercitata rigorosamente alla stregua dei criteri che governano il sindacato di legittimità in ordine al principio costituzionale di eguaglianza, com'è qui appunto invocato: e cioè, con specifico riferimento alla proporzione fra onere tributario e capacità contributiva dei soggetti. Ad aversi violazione dei menzionati precetti costituzionali, deve pertanto ricorrere una manifesta irrazionalità dell'imposizione fiscale. Nella specie, tuttavia, tale estremo difetta, per le considerazioni che seguono.
7 a) - Non regge, in primo luogo, l'affermazione che l'errore, dal quale scaturirebbe l'irrazionalità della norma censurata, sia comprovato dall'aver il legislatore successivamente rimosso la disparità di aliquote a favore del prodotto interno, in detta disposizione contemplata. Il giudice a quo giunge a questa conclusione asserendo che l'identità di oneri per il cotone nazionale e per quello straniero é stata ripristinata (come attesterebbero i lavori preparatori della legge del 1969) in seguito ad apposito richiamo degli organi del GATT. Fermo restando che il legislatore abbia adottato il criterio di adeguarsi al trattato sia nel 1958, sia nel 1969, la prima soluzione, accolta con la norma censurata, é errata, si deduce, perché, contestata in sede internazionale, risulta aver discriminato il prodotto importato, e la seconda, invece, corretta, perché rimedia - in conformità dell'intento dell'organo legiferante, sebbene solo per l'avvenire - alla lamentata discriminazione.
Ora, in relazione al punto che qui viene in rilievo; la Corte si é curata di attingere dal Ministero degli Affari Esteri, con l ordinanza istruttoria n. 198/80, ogni dato conoscitivo ed esplicativo dei rilievi che si assumono mossi al nostro Governo dagli organi del GATT. Detto Ministero ha fatto sapere di non aver potuto reperire "elementi precisi nel caso specifico". La prassi applicativa dell'Accordo é ad ogni modo nel senso che le eventuali doglianze di alcun contraente, quanto ai tributi discriminatori posti dalle altre parti sui prodotti importati, diano ingresso all'apposita procedura di conciliazione, disciplinata nell'art. XXIII del GATT. In quella sede non é però sancito l'obbligo di parificare retroattivamente le imposizioni fiscali, quando il prodotto estero non fosse soggetto alla stessa aliquota del similare prodotto interno; ciò che più importa, non é nemmeno precluso al legislatore nazionale, il quale eguagli le aliquote di tributo per i due prodotti, di ricorrere - nella manovra di un sistema impositivo, com'è quello dell'IGE - ad un qualche congegno perequativo degli oneri sopportati dal prodotto interno, con riguardo agli anteriori stadi del relativo ciclo di lavorazione.
Vi é dunque questo dato da considerare, pur a voler ammettere che la norma censurata sia stata oggetto, anche in seno al GATT, di rilievi o contestazioni, dei quali non é comunque rimasta traccia ufficiale. Infatti, é significativo che l'art. 9, nel testo del decreto legge n. 319 del 1969, prevedesse l'assorbimento nell'imposta scontata, con l'aliquota del 6%, dal cotone in massa (nazionale), di quella dovuta per il cotone in seme. La più favorevole aliquota prevista per il prodotto interno nella legge del 1958, ed ora abolita, aveva del resto, osserva il Ministro delle Finanze nella relazione alle Camere (Camera, V Legislatura, stampato n. 1659) una sua giustificazione, perché "rifletteva la necessità di compensare in qualche maniera gli altri oneri tributari gravanti sul cotone nazionale, e cioé l'IGE sul cotone in seme". La riferita previsione del decreto legge, si afferma inoltre nella relazione ministeriale, voleva "raggiungere quindi, secondo una tecnica impositiva più appropriata e non contrastante con le regole GATT, un equo assetto tributario per il cotone nazionale, al quale vengono evitate le successive imposizioni lungo l'arco del processo di trasformazione della materia prima". É vero che questa disposizione del decreto non é passata nella legge di conversione. Ma se si vuole, anche qui, far affidamento su alcun elemento dei lavori preparatori, che possa acclarare l'intento del legislatore nel sopprimerla, altro non risulta, se non questo: chi ha proposto nel dibattito in aula il testo dell'art. 9, qual é stato poi convertito in legge, riteneva che l'assorbimento dell'imposta sul cotone in seme in quella sul cotone in massa, avrebbe lasciato sussistere un regime di favore per il prodotto interno, pur assoggettato all'aliquota del 6% al pari di quello estero, in quanto il cotone di importazione continuava a scontare una tassazione indiretta nel paese d'origine (Camera, V Legislatura, 9715-9716). Ora, non si vede come - sempre alla stregua delle indicazioni offerte dai lavori preparatori della normativa in discorso - possa giudicarsi corretta questa valutazione degli oneri gravanti sul prodotto importato, che incorre nell'evidente inesattezza di attribuire rilevanza alle imposte stabilite in ordinamenti statuali, diversi dal nostro: e debbano, invece, ritenersi manifestamente errati gli apprezzamenti fatti dal legislatore del 1958 in merito alla sperequazione introdotta nella previgente disciplina ai danni del cotone nazionale; apprezzamenti, peraltro, giustificati dalla considerazione, sopra richiamata (sub 1 A c e d), che il prodotto interno, prima della commercializzazione come prodotto sgranato, subiva almeno altre due imposizioni, come cotone in seme (Camera dei Deputati, II Legislatura, quarta commissione, pp. 2034, 2060-Senato della Repubblica, II Legislatura, quinta commissione, p.3209). Il che é stato, come si diceva, tenuto in considerazione dal Governo, sempre nel dichiarato proposito di osservare le prescrizioni del GATT, con l'inserire nel testo del citato decreto legge la norma, che esonerava il prodotto interno dall'imposta a cascata sul cotone greggio.
7 b) - I rilievi fin qui svolti trovano, poi, chiara e decisiva conferma, se si riflette che il trattamento tributario da adeguare al criterio di parità sancito nell'Accordo é quello complessivamente gravante, così sul prodotto importato, come sul similare prodotto interno. Nessun fondamento può dunque avere l'ipotesi, delineata dalla difesa delle parti private, secondo la quale dall'art. III, 2 del GATT si desume l'opposto criterio della parità delle singole aliquote, di guisa che, nell'ordinamento interno, proprio a detto criterio si sarebbe in via di principio uniformato il regime dell'IGE sul cotone in massa, con la sola ed ingiustificata eccezione del regolamento dettato per la specie. D'altronde, non si ravvisano ragioni per ritenere che lo scarto formale tra le aliquote, qual é stabilito dalla norma censurata, abbia potuto irrazionalmente alterare, a favore del cotone interno, l'intero carico fiscale sui due prodotti.
Una simile conclusione non sarebbe, del resto, autorizzata da alcuna risultanza del suddetto provvedimento istruttorio. La Corte ha in proposito richiesto all'Amministrazione finanziaria di precisare "se e con quali criteri essa abbia, nell'applicare i1 regime dell'IGE al cotone in massa", importato dall'area del GATT, "provveduto alla comparazione degli oneri fiscali complessivamente gravanti su detto prodotto e sul cotone in massa nazionale". Nella documentazione prodotta dal competente Ministero figura - va qui avvertito - un rapporto relativo al periodo di vigenza della norma censurata (1958-1969), indirizzato il 26 marzo 1973 dalla Direzione Generale delle Tasse e delle Imposte Indirette sugli Affari all'Avvocatura generale dello Stato, che ne ha rimesso il testo alla Corte. Ivi, tra l'altro, considerate varie probabilità di commercializzazione del prodotto (dal produttore del cotone in seme all'utilizzatore del cotone in massa), si formula - in base ad una media semplice delle relative aliquote di incidenza fiscale - l'ipotesi che il cotone interno potesse nell'anzidetto periodo ritenersi complessivamente meno gravato del corrispondente prodotto d'importazione. Ma si tratta, per l'appunto, di un ipotetico approccio al calcolo comparativo degli oneri fiscali sui due prodotti, prospettato con la cautela che imponeva la difficoltà delle indagini sottostanti, non ulteriormente controllato, né di fatto seguito nell'applicazione data dagli organi amministrativi al regime fiscale in questione. Il rapporto testé richiamato non manca, in ogni caso, di porre in rilievo che il prodotto interno scontava, ai sensi della legge del 1958, un onere aggiuntivo, oltre a quello del 4% sul cotone in massa. D'altra parte, la maggiore aliquota sul prodotto di importazione, che si assume lesiva del criterio di eguaglianza, trae giustificazione, ai fini del presente giudizio, dall'atteggiarsi come un'aliquota media e unica: tale, deve aggiungersi, proprio perché regola il carico tributario sul cotone straniero in funzione della somma degli oneri afferenti - per via dell'imposta operante con il sistema onnifase - all'intero ciclo produttivo del cotone nazionale.
La previsione di aliquote differenziate serve, in definitiva, a perequare l'imposizione fiscale contestata in questa sede : essa resiste, allora, alla censura di irrazionalità, pur di fronte al rilievo che - secondo il concreto atteggiarsi del circuito di produzione e di commercializzazione del prodotto interno - l'una o l'altra fase del ciclo anzidetto possa rimanere non colpita dal tributo. L'Avvocatura dello Stato ha ricordato - in relazione, qui, all'art. 97 del Trattato di Roma - l'ordinamento della CEE, e l'attuazione che esso ha ricevuto ad opera della Corte del Lussemburgo. Gli Stati membri della Comunità, si é detto, hanno la facoltà di istituire aliquote medie, finché si valgano del sistema dell'imposta cumulativa a cascata per riscuotere l'imposta sull'entrata: nel qual caso é riconosciuta - pur nel quadro di un'integrazione sovranazionale - la necessaria e insindacabile discrezionalità del legislatore interno. La stessa soluzione dovrebbe, quindi, a maggior ragione valere per il sistema del GATT.
A parte quest'ordine di riflessioni, non risulta comunque che il regime delle aliquote differenziate sia nella specie viziato da irrazionalità, tanto meno manifesta. Il legislatore ha, infatti, valutato il carico tributario complessivo sui prodotti che, in relazione alla regola pattizia, non andavano discriminati; e nel discrezionale apprezzamento del fenomeno esso é ricorso all'ausilio di presunzioni, che lo hanno poi condotto a quantificare diversamente l'imposta sul cotone in massa, secondo se il prodotto fosse interno o di provenienza estera: ma é un metodo certo non ingiustificato, sul terreno fiscale, dove i fatti siano, come nella specie, di difficile accertamento. La questione, in conclusione, non é fondata.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell'art. 9 della legge 1 agosto 1969, n. 478, sollevata dal Tribunale di Milano con l'ordinanza in epigrafe in riferimento agli artt. 3, 11 e 53 Cost.;
dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 5, secondo comma, della legge 21 marzo 1958, n. 267, sollevata dal Tribunale di Milano con le ordinanze in epigrafe in riferimento agli artt. 3, 10, primo comma, 11 e 53 Cost.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 7 maggio 1982.
Leopoldo ELIA - Michele ROSSANO - Guglielmo ROEHRSSEN - Oronzo REALE - Brunetto BUCCIARELLI DUCCI - Alberto MALAGUGINI - Livio PALADIN - Antonio LA PERGOLA - Virgilio ANDRIOLI - Giuseppe FERRARI - Francesco SAJA - Giovanni CONSO.
Giovanni VITALE - Cancelliere
Depositata in cancelleria il 20 maggio 1982.